Catalogo aperto delle emissioni pericolose e tutela della persona tra diritto interno ed europeo

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di Giorgio Trivi

Il 25 giugno 2024, è stata pubblicata la decisione della Corte di giustizia della UE sui c.d. “decreti salva Ilva” (Causa C-626/22). Si tratta di una sentenza importantissima per il futuro dell’impianto siderurgico tarantino, soprattutto perché essa stabilisce un principio di diritto, non più eludibile: gli artt. 35 e 37 della Carta dei diritti fondamentali della UE (riguardanti rispettivamente la “elevata protezione” della salute e dell’ambiente) vanno applicati congiuntamente, affinché qualsiasi valutazione ambientale ricomprenda sempre gli impatti sulla salute umana, indipendentemente dal tipo di attività in esame.

Questa novità, proprio perché in punto di diritto sulle due disposizioni della Carta europea dei diritti, è destinata a non arrestarsi al solo contesto che ha generato la decisione (su cui si v. F. Laus, La saga Ilva all’attenzione della Corte di Giustizia). Il dato, del resto, è confermato da un altro passaggio che apre scenari inediti nel campo della tutela ambientale come tutela della salute umana. Infatti, il giudice di Lussemburgo spiega che «oltre alle sostanze inquinanti prevedibili tenuto conto della natura e della tipologia dell’attività industriale di cui trattasi», la valutazione combinata di ambiente e salute – legittimata dai citati artt. 35 e 37 Carta europea – deve altresì ricomprendere, in una prospettiva di prevenzione e non di riparazione, «tutte quelle oggetto di emissioni scientificamente note come nocive che possono essere emesse dall’installazione interessata, comprese quelle generate da tale attività che non siano state valutate nel procedimento di autorizzazione iniziale».

In pratica, il catalogo delle emissioni pericolose per la salute umana diventa aperto e fondato su qualificazioni di “nocività” di carattere non più, o non solo, “normativo” ma anche “scientifico”, orientando di riflesso, sulla base appunto delle conoscenze scientifiche, la valutazione dei singoli casi di impatto. Questa evoluzione del tema delle emissioni a tutela della persona umana è una conquista recente non solo del diritto europeo.

Nel contesto italiano, essa ha contraddistinto l’applicazione dell’art. 844 Cod. civ. (si v., in proposito, C. Lazzaro, Le immissioni nelle rinnovate logiche della responsabilità civile, Torino, 2021). Infatti, la disposizione civilistica letteralmente prevede che «il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni  … derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi», aggiungendo altresì che «nell’applicare questa norma l’autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà. Può tener conto della priorità di un determinato uso». La sua formula letterale venne superata già dalla storica sentenza della Cass. Civ. SS.UU. 6 ottobre 1979 n. 5172 (consultabile in Il Foro Italiano, 1979, parte prima, cc. 2302-2307, con nota di A. Lener), perché letta come fonte di tutela, invece che del “fondo”, della salute e del diritto all’ambiente salubre delle persone ivi residenti. Solo più tardi, però, essa ha abilitato un percorso ermeneutico completamente nuovo, scandito dai seguenti passaggi:

– l’art. 844 Cod. civ. è da leggere in combinato disposto con l’art. 32 Cost. e con l’art. 8 CEDU;

– esso contiene una “formula aperta”, quella di «normale tollerabilità», che abilita a operazioni giudiziali di “contemperamento” non fra produzione e proprietà, bensì fra diritti della persona ed esigenze della produzione;

– dove le formule normative «condizioni dei luoghi» e «priorità di un determinato uso» vanno lette congiuntamente in termini di “situazione ambientale” che responsabilizza parimenti persone e produttori;

– sicché eventuali danni da emissioni potranno essere risarciti anche se nei limiti di legge, in ragione appunto della “situazione ambientale”;

– legittimando, allo stesso modo, interventi di prevenzione, e non solo di risarcimento, ove la “situazione ambientale” verta in una condizione di pericolo o emergenza.

Alla luce di questa trasformazione pro persona del tema emissivo, la dottrina civilistica ha intravisto l’insorgenza di un “dovere positivo di protezione” consistente in uno “standard”, materiale e non formale perché scientificamente accertabile, di “alterum non laedere” attraverso attività di precauzione e prevenzione (S. Ciccarello, Dovere di protezione d valore della persona, Milano, 1988); “standard” non esplicitato in Costituzione, ma da esso desumibile in virtù del “principio di massima attuazione della Costituzione” (P. Perlingieri, Salvatore Pugliatti e il «principio della massima attuazione della Costituzione», in Rass. Dir. Civ., 1996, 807 ss.).

 

Le SS.UU. della Corte di cassazione hanno fatto proprio questo orientamento di “protezione preventiva” in due importanti decisioni, che di fatto evocano la struttura argomentativa della citata decisione europea sui “decreti salva Ilva”. 

La prima è la decisione 27 luglio 2022 n. 23436. In essa si legge che il giudice ordinario può condannare la pubblica amministrazione non solo al risarcimento dei danni, per emissioni già prodotte, ma anche a un facere di tutela delle persone su quelle future, dato che «alla P.A. è riconosciuta una discrezionalità attiva, attinente cioè alla scelta delle misure più idonee, non anche la discrezionalità nel non agire, perché quest’ultima è incompatibile con la natura inviolabile del diritto fondamentale [alla salute], soprattutto quando sia a rischio il nucleo essenziale del diritto medesimo». Ne deriva che «l’inerzia della P.A. … per la mancata adozione delle misure adeguate a eliminare o a ridurre nei limiti della soglia di tollerabilità le immissioni inquinanti si risolve in una violazione del principio generale del neminem laedere».

La seconda decisione è quella del 23 febbraio 2023 n. 5668. In essa si qualificano come «materia analoga» le emissioni disciplinate appunto dall’art. 844 Cod. civ e quelle previste da qualsiasi altra fonte dell’ordinamento, al fine appunto di stabilire uno “standard” comune di condotta preventiva e precauzionale, su cui ha titolo a intervenire il giudice ordinario anche nei confronti del potere pubblico, condannandolo a provvedere, con tutte le misure adeguate, all’eliminazione o alla riduzione nei limiti della soglia di «tollerabilità» dell’emissione controversa, in nome della salute umana, e non solo dell’ambiente, e qualificando la «tollerabilità» sempre in funzione delle situazioni fattuali e non delle norme.

Ecco allora che, come il giudice europeo invita, in forza degli art. 35 e 37 della Carta europea dei diritti, a prevenire la “nocività” delle emissioni in una prospettiva di catalogo aperto, alla luce anche delle acquisizioni scientifiche per la “elevata protezione” di salute e ambiente, così il giudice italiano approda alla lettura della “tollerabilità” delle emissioni in una rappresentazione analoga di valutazione, altrettanto preventiva, della condotta materiale adeguata ai contesti fattuali, ai fini sempre della medesima “elevata protezione”.

In definitiva, il tema delle emissioni è stato irreversibilmente emancipato dalle interpretazioni formalistiche della mera conformità alle elencazioni tassative, con le altrettanto tassative soglie prestabilite di pericolosità, per aprirsi alla dimensione, scientificamente orientata, della loro adeguatezza per la effettiva “elevata protezione” della persona umana nelle situazioni ambientali concrete di vita.

È una conclusione importante nell’era dell’emergenza climatica e ambientale, perché fa finalmente proprio un insegnamento, che la comunità scientifica – per lungo tempo inascoltata – aveva con forza richiamato all’attenzione dei decisori politici: ragionare di “pericolosità” e “tollerabilità” di qualsiasi emissione, in base alle situazioni fattuali, non in base a indicazioni generali e astratte (cfr. il monito generale di T. Lenton et al., Integrating tipping points into climate impact assessments, 2013).

 

 

di Giorgio Trivi

 

Il 25 giugno 2024, è stata pubblicata la decisione della Corte di giustizia della UE sui c.d. “decreti salva Ilva” (Causa C-626/22).

Si tratta di una sentenza importantissima per il futuro dell’impianto siderurgico tarantino, soprattutto perché essa stabilisce un principio di diritto, non più eludibile: gli artt. 35 e 37 della Carta dei diritti fondamentali della UE (riguardanti rispettivamente la “elevata protezione” della salute e dell’ambiente) vanno applicati congiuntamente, affinché qualsiasi valutazione ambientale ricomprenda sempre gli impatti sulla salute umana, indipendentemente dal tipo di attività in esame.

Questa novità, proprio perché in punto di diritto sulle due disposizioni della Carta europea dei diritti, è destinata a non arrestarsi al solo contesto che ha generato la decisione (su cui si v. F. Laus, La saga Ilva all’attenzione della Corte di Giustizia).

 

Il dato, del resto, è confermato da un altro passaggio che apre scenari inediti nel campo della tutela ambientale come tutela della salute umana. Infatti, il giudice di Lussemburgo spiega che «oltre alle sostanze inquinanti prevedibili tenuto conto della natura e della tipologia dell’attività industriale di cui trattasi», la valutazione combinata di ambiente e salute – legittimata dai citati artt. 35 e 37 Carta europea – deve altresì ricomprendere, in una prospettiva di prevenzione e non di riparazione, «tutte quelle oggetto di emissioni scientificamente note come nocive che possono essere emesse dall’installazione interessata, comprese quelle generate da tale attività che non siano state valutate nel procedimento di autorizzazione iniziale».

 

In pratica, il catalogo delle emissioni pericolose per la salute umana diventa aperto e fondato su qualificazioni di “nocività” di carattere non più, o non solo, “normativo” ma anche “scientifico”, orientando di riflesso, sulla base appunto delle conoscenze scientifiche, la valutazione dei singoli casi di impatto.

 

Questa evoluzione del tema delle emissioni a tutela della persona umana è una conquista recente non solo del diritto europeo.

Nel contesto italiano, essa ha contraddistinto l’applicazione dell’art. 844 Cod. civ. (si v., in proposito, C. Lazzaro, Le immissioni nelle rinnovate logiche della responsabilità civile, Torino, 2021). Infatti, la disposizione civilistica letteralmente prevede che «il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni  … derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi», aggiungendo altresì che «nell’applicare questa norma l’autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà. Può tener conto della priorità di un determinato uso». La sua formula letterale venne superata già dalla storica sentenza della Cass. Civ. SS.UU. 6 ottobre 1979 n. 5172 (consultabile in Il Foro Italiano, 1979, parte prima, cc. 2302-2307, con nota di A. Lener), perché letta come fonte di tutela, invece che del “fondo”, della salute e del diritto all’ambiente salubre delle persone ivi residenti. Solo più tardi, però, essa ha abilitato un percorso ermeneutico completamente nuovo, scandito dai seguenti passaggi:

– l’art. 844 Cod. civ. è da leggere in combinato disposto con l’art. 32 Cost. e con l’art. 8 CEDU;

– esso contiene una “formula aperta”, quella di «normale tollerabilità», che abilita a operazioni giudiziali di “contemperamento” non fra produzione e proprietà, bensì fra diritti della persona ed esigenze della produzione;

– dove le formule normative «condizioni dei luoghi» e «priorità di un determinato uso» vanno lette congiuntamente in termini di “situazione ambientale” che responsabilizza parimenti persone e produttori;

– sicché eventuali danni da emissioni potranno essere risarciti anche se nei limiti di legge, in ragione appunto della “situazione ambientale”;

– legittimando, allo stesso modo, interventi di prevenzione, e non solo di risarcimento, ove la “situazione ambientale” verta in una condizione di pericolo o emergenza.

 

Alla luce di questa trasformazione pro persona del tema emissivo, la dottrina civilistica ha intravisto l’insorgenza di un “dovere positivo di protezione” consistente in uno “standard”, materiale e non formale perché scientificamente accertabile, di “alterum non laedere” attraverso attività di precauzione e prevenzione (S. Ciccarello, Dovere di protezione d valore della persona, Milano, 1988); “standard” non esplicitato in Costituzione, ma da esso desumibile in virtù del “principio di massima attuazione della Costituzione” (P. Perlingieri, Salvatore Pugliatti e il «principio della massima attuazione della Costituzione», in Rass. Dir. Civ., 1996, 807 ss.).

 

Le SS.UU. della Corte di cassazione hanno fatto proprio questo orientamento di “protezione preventiva” in due importanti decisioni, che di fatto evocano la struttura argomentativa della citata decisione europea sui “decreti salva Ilva”.

 

La prima è la decisione 27 luglio 2022 n. 23436. In essa si legge che il giudice ordinario può condannare la pubblica amministrazione non solo al risarcimento dei danni, per emissioni già prodotte, ma anche a un facere di tutela delle persone su quelle future, dato che «alla P.A. è riconosciuta una discrezionalità attiva, attinente cioè alla scelta delle misure più idonee, non anche la discrezionalità nel non agire, perché quest’ultima è incompatibile con la natura inviolabile del diritto fondamentale [alla salute], soprattutto quando sia a rischio il nucleo essenziale del diritto medesimo». Ne deriva che «l’inerzia della P.A. … per la mancata adozione delle misure adeguate a eliminare o a ridurre nei limiti della soglia di tollerabilità le immissioni inquinanti si risolve in una violazione del principio generale del neminem laedere».

 

La seconda decisione è quella del 23 febbraio 2023 n. 5668. In essa si qualificano come «materia analoga» le emissioni disciplinate appunto dall’art. 844 Cod. civ e quelle previste da qualsiasi altra fonte dell’ordinamento, al fine appunto di stabilire uno “standard” comune di condotta preventiva e precauzionale, su cui ha titolo a intervenire il giudice ordinario anche nei confronti del potere pubblico, condannandolo a provvedere, con tutte le misure adeguate, all’eliminazione o alla riduzione nei limiti della soglia di «tollerabilità» dell’emissione controversa, in nome della salute umana, e non solo dell’ambiente, e qualificando la «tollerabilità» sempre in funzione delle situazioni fattuali e non delle norme.


Ecco allora che, come il giudice europeo invita, in forza degli art. 35 e 37 della Carta europea dei diritti, a prevenire la “nocività” delle emissioni in una prospettiva di catalogo aperto, alla luce anche delle acquisizioni scientifiche per la “elevata protezione” di salute e ambiente, così il giudice italiano approda alla lettura della “tollerabilità” delle emissioni in una rappresentazione analoga di valutazione, altrettanto preventiva, della condotta materiale adeguata ai contesti fattuali, ai fini sempre della medesima “elevata protezione”.

 

In definitiva, il tema delle emissioni è stato irreversibilmente emancipato dalle interpretazioni formalistiche della mera conformità alle elencazioni tassative, con le altrettanto tassative soglie prestabilite di pericolosità, per aprirsi alla dimensione, scientificamente orientata, della loro adeguatezza per la effettiva “elevata protezione” della persona umana nelle situazioni ambientali concrete di vita.

 

È una conclusione importante nell’era dell’emergenza climatica e ambientale, perché fa finalmente proprio un insegnamento, che la comunità scientifica – per lungo tempo inascoltata – aveva con forza richiamato all’attenzione dei decisori politici: ragionare di “pericolosità” e “tollerabilità” di qualsiasi emissione, in base alle situazioni fattuali, non in base a indicazioni generali e astratte (cfr. il monito generale di T. Lenton et al., Integrating tipping points into climate impact assessments, 2013).

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