Grossraum Europa, o dell’‘irresponsabile’ egemonia tedesca

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di Andrea Guazzarotti[*]

L’anomalia tedesca è l’anomalia dell’UE: una Nazione cui era interdetto, dopo la disfatta del Terzo Reich, il perseguimento della propria prosperità attraverso la forza dello Stato, e che sceglieva, pertanto, di basare quella prosperità sull’economia e derubricare lo Stato a mero apparato servente. Questa l’essenza dell’ordoliberismo tedesco, secondo Foucault: esso risponderebbe alla domanda cruciale per cui, «dato uno stato che non esiste, in che modo farlo esistere a partire da quello spazio non statale che è quello di una libertà economica?» (Foucault, 83ss.). L’aforisma di Foucault è applicabile all’Unione europea, declinandolo più chiaramente: «dato uno Stato che non esiste e che non può esistere», essendo l’UE la risultante di una duplice sconfitta (militare di Germania e Italia, geopolitica di Francia e Regno Unito) e della scelta statunitense di incentivare l’unione economica garantendo al contempo la difesa militare dell’Europa occidentale. Ma un’entità che non ha l’onore e l’onere della difesa esterna non ha neppure il potere di scegliere il proprio nemico esterno, che è poi l’essenza della sovranità secondo Carl Schmitt. Quel nemico veniva, infatti, predeterminato dagli USA e individuato nell’Unione sovietica. La rinuncia a una politica estera autonoma era una condizione posta dal vincitore che tollerava assai poche eccezioni, come dimostrato dalla precoce avversione USA alla Ostpolitik della Germania federale negli anni Settanta e già sotto l’amministrazione Kennedy, la quale impose, tramite NATO, l’embargo sulle esportazioni di oleodotti dalla RFT all’URSS (Halevi, 218). Ma era la natura stessa delle entità statuali europee che gradualmente venivano “federate” a rendere indispensabile l’eterodirezione della politica estera e di difesa: la differenza di vedute degli Stati europei in politica estera era tale da rendere possibile l’unione sempre più stretta tra i loro popoli (come recitano i Trattati europei) solo a patto che la difesa fosse esternalizzata agli USA attraverso la NATO (Chessa). Il che si è reso sempre più evidente dopo l’allargamento a Est dell’UE all’inizio degli anni Duemila. Sotto questo punto di vista, la moneta unica è stata la conferma di tale assetto sbilenco. Solo chi reputa di non dover mai proiettare potenza attraverso la guerra – anche difensiva – può disfarsi della sovranità monetaria, attribuendola a un’entità completamente de-politicizzata e irresponsabile. Tutte le guerre sono state condotte attraverso la gestione monetaria del debito pubblico (Eichengreen et al.). Non è per caso che un Paese come il Regno Unito abbia evitato la follia dell’euro.

La Germania non rinunciava, però, a ciò cui uno Stato – specie se potente – è necessariamente chiamato, la proiezione della propria potenza, appunto. Solo che lo faceva attraverso l’economia: mentre l’anglosfera usava la finanza per proiettare la propria potenza, la Germania usava il mercantilismo dei propri crescenti surplus commerciali (Mangia). Un mercantilismo a lungo tollerato dagli USA, fintanto che rimaneva confinabile al piano economico; poi stroncato una volta che il mix su cui era basato – energia a basso costo dalla Russia e fortissimo interscambio con la Cina – assumeva implicazioni sempre più chiaramente geopolitiche.

L’UE dell’euro e dell’austerity ne paga le conseguenze, per essersi prestata a strumento di tale proiezione di potenza mercantilista tedesca: euro e austerity, negli anni immediatamente precedenti la Brexit e il primo mandato di Trump, non solo non hanno frenato quella pulsione delle élite tedesche – intrinseca al moralismo religioso dell’ordoliberismo (van der Walt), ovvero alla struttura produttiva tedesca (Halevy), o ancora alla logica della “società-macchina” (Todd, 180) – ma l’hanno amplificata fino all’estremo. Come e più del Sistema Monetario Europeo (SME) varato nel 1978, l’euro ha costituito la naturale cintura protettiva che ha consentito alla Germania di accumulare surplus commerciali senza contraccolpi sul debito pubblico, diversamente dal Giappone (Halevy, 220). E, tuttavia, il rifiuto di ogni ruolo apertamente e responsabilmente egemonico delle élite tedesche ha reso del tutto impermeabile l’opinione pubblica tedesca alle ricorrenti rivendicazioni di solidarietà redistributiva da parte degli Stati (Italia e Francia) che più hanno perso in quella scommessa dell’euro (Streek 2022).

La macchina dell’UE si è rivelata un dispositivo quanto mai duttile ed efficace nel veicolare, in quegli anni della crisi dei debiti sovrani e della Troika, la scelta geopolitica tedesca, barattata per scelta economica razionale ed efficiente per tutti gli Stati. Istruttiva la narrazione nostrana di un irenico convergere di valori costituzionali comuni degli Stati membri che il diritto europeo si sarebbe limitato a razionalizzare (Della Cananea). Un ottundimento di governi e di istituzioni europee (BCE e Commissione in testa) che, anziché tentare di frenare quella pulsione tedesca, l’hanno irresponsabilmente presa a modello (Flassbeck, Lapavitsas). L’esito – anche da un punto di vista meramente geoeconomico – è stato squilibrante non solo entro l’UE ma nell’intera “economia mondo”: se fino al 2010 la bilancia dei pagamenti dell’intera Eurozona era tendenzialmente in equilibrio col resto del mondo (il surplus tedesco venendo normalmente compensato dal deficit commerciale degli Stati membri mediterranei), a partire dal 2010 il surplus cresceva a livelli mai raggiunti prima e inconcepibili per un’economia così vasta e così benestante (Bellofiore et a., 95). Che si trattasse di qualcosa di diverso da un’autentica politica economica era parso già chiaro a chi ha sempre diffidato delle dottrine ordoliberiste tedesche: le politiche economiche trainate dall’export (che impongono la repressione della domanda interna e deflazione salariale) hanno visto la Germania frenare per decenni la propria crescita (e di conseguenza quella dei propri partner) di almeno l’1,5% del Pil all’anno, lasciandosi dietro più di un sospetto circa la loro reale finalità geopolitica (Ciocca). L’esito di questo “successo” nella gara dell’export è stato destabilizzante anche all’interno della società tedesca: non si tratta solo del noto deficit di investimenti pubblici e privati che affliggono da anni la Germania, ma anche dell’aumento impressionante dell’indice di disuguaglianza (DIW). La qual cosa ha reso ampie fasce dell’elettorato tedesco refrattarie a ogni discorso sulla solidarietà europea e facili prede della retorica anti-immigrati e anti-UE di partiti “revisionisti” come AfD.

L’aforisma di Foucault sull’imperativo della Germania post-nazista di non pensarsi come Stato-nazione bensì come economia nazionale aperta, andrebbe invero completato: non si è trattato – per la Germania – solo di interdire a se stessa ogni idea di potenza dello Stato, bensì anche ogni idea di egemonia spaziale.

Carl Schmitt aveva prospettato, ben prima del suo famoso Nomos della terra del 1950, una soluzione per uscire dal diritto internazionale alla vigilia della guerra (Schmitt): adattando la dottrina Monroe degli USA al contesto europeo e alla dottrina razziale nazista, la proposta di Schmitt rinnegava frontalmente l’uguaglianza formale degli Stati e immaginava la contrapposizione di “grandi spazi” (Grossräume), ciascuno incentrato su uno Stato guida cui sono subordinati Stati satellite (Losano 59ss.). Dopo la fine della guerra fu rinvenuto nell’Archivio del Ministero degli Esteri tedesco un progetto di trattato fra Germania, Italia e Giappone sulla configurazione dei grandi spazi in Europa e nell’Est asiatico, il cui preambolo parlava della «necessità storica di trasformare i Grandi Spazi in Comunità internazionali di tipo nuovo e con una propria personalità giuridica». Quei grandi spazi avrebbero dovuto proteggere gli Stati dal «timore dell’oppressione da parte di potenze e influenze intruse». Quel progetto distopico fallì, nella sua modalità bellicistica e razziale, per poi rinascere – in Europa occidentale – nella sua versione pacifica (e pacifista?) di un’egemonia economica fondata sul consenso e/o l’organizzazione internazionale utopicamente tendente al federalismo (Losano 71ss.). Gli storici hanno rilevato plurime tracce di una riconversione di piani, idee, protagonisti del Grossraum nazista in altrettanti piani, idee e protagonisti della costruzione dell’Europa funzionalista dei primi anni (Heilbronner). L’aspirazione di fondo, al di là del progetto razziale nazista, di difendere il continente europeo dalla minaccia bolscevica (soprattutto) e (poi) dall’egemonia economica degli USA era condivisa dalle élite post-liberali di altri Paesi europei (ibidem, p. 1585ss.).

Chi, tra i migliori giuristi tedeschi studiosi dell’UE, ha analizzato il progetto del Grossraum nazista, ha concluso che si trattava di un’entità nebulosa anche sotto il profilo economico (oltre che giuridico, amministrativo, ecc.), di cui era chiaro soltanto il primato della volontà dello Stato-guida sugli Stati satellite (Joerges). Specularmente, l’Unione europea è un’entità volutamente nebulosa quanto alla gerarchia materiale tra i suoi Stati membri, ma di cui – a partire dalle riforme “che hanno salvato l’euro” – è inequivoco l’indirizzo politico-economico fondamentale (il mercantilismo di stampo tedesco).

Un’importante storico inglese studioso dell’integrazione europea ha cercato di dimostrare come quest’ultima, lungi dall’essere un progetto di progressiva e incrementale federalizzazione tra Stati europei desiderosi di trasformarsi negli Stati Uniti d’Europa, è nata e avanzata come progetto di governi nazionali guidati da due priorità: imbrigliare la Germania e sostenere le preferenze politiche interne, in modo da salvare il modello di Stato-nazione dalla catastrofe della guerra e dalla fine del colonialismo europeo (Milward). Questo quadro, tuttavia, appare coerente con gli sviluppi avutisi fino alla fine della guerra fredda, la riunificazione tedesca e il varo della moneta unica, ove la rete concepita (specie dalla Francia e dalla Commissione Delors) per tenere imbrigliata la Germania al resto della “Vecchia Europa” si è rivelata non solo troppo debole ma convertibile in un volano per la stessa egemonia economica tedesca sul resto dell’Unione. Le radici di questo squilibrio risalgono, invero, alla fine di Bretton Woods, che era poi quel reticolo di istituzioni che consentivano agli USA di usare egemonia verso il resto del Mondo e di assumersene la responsabilità, secondo un modello di capitalismo “embedded”, imbrigliato in regole e istituzioni internazionali (in primis, controllo della circolazione dei capitali) e addomesticato dalle logiche di pieno impiego keynesiane. Dal crollo di quel modello è scaturita l’egemonia irresponsabile degli USA, da cui, a sua volta, è derivata quella tedesca, diversamente irresponsabile.

La retorica del Grossraum Europa e i discorsi sull’egemonia europea della Germania nazista (affermatisi dopo un’iniziale fase “euroscettica” del nazionalsocialismo) erano tali da rendere impronunciabile, nella Germania federale del Secondo dopoguerra, la parola “egemonia” (Streeck). Un tabù che è perdurato fino ai nostri giorni, nonostante l’evidente ruolo egemonico giocato dalla Germania, specie dopo la riunificazione. Il perpetuarsi di quel tabù, contro ogni evidenza materiale, è equivalso a irresponsabilità, se non soggettiva senz’altro oggettiva. Oggi l’estrema destra tedesca di AfD non osa (ancora) pronunciare la parola “egemonia tedesca”, mentre non disdegna riferimenti alla teoria del Grossraum di Carl Schmitt, per scimmiottare l’invocazione al multipolarismo di Putin e di Xi, non certo per portare acqua al mulino dell’europeismo antiegemonico delle Carte dei diritti e della solidarietà europea, bensì per accodarsi alle critiche strumentali all’universalismo dei diritti umani (Pfahl-Traughber; Janzen). In questo trovando pieno sostegno nella nuova amministrazione Trump. Quest’ultima è soltanto l’espressione più estremizzata di una tendenza statunitense iniziata già all’inizio del Duemila che ha visto gli USA reagire all’aumento di potenza di Cina, India, ecc., nelle istituzioni multilaterali (WTO in primis) ricorrendo al boicottaggio di queste stesse istituzioni e del multilateralismo tout court, preferendo ricorrere alla logica del divide et impera, ossia ricorrendo a negoziazioni bilaterali con i singoli Stati, specie i più deboli. Sostenere prima la Brexit e, attraverso AfD, un’eventuale Germanexit, sembra l’applicazione all’UE di tale strategia.

Il Grossraum non era fondato su una Costituzione, bensì su un trattato. Che i destini di UE e Germania siano in qualche modo convergenti è rispecchiato anche dal rebus della loro Costituzione: come l’UE, nonostante si proclami dal lontano 1963 un’entità indipendente e autonoma dal diritto internazionale (Corte di giustizia, Van Gend, 1963) dotata di una propria “carta costituzionale” (Corte di giustizia, Le Vert, 1986), continua a fondarsi su due trattati internazionali, così la Germania continua a fondarsi su un atto volutamente non intitolato “Costituzione/Verfassung” bensì “Legge fondamentale/Grundgesetz”. Come l’UE ha fallito nel darsi una propria Costituzione, con il maldestro tentativo del 2004 naufragato nei referendum olandese e francese del 2005, così la Germania si è sottratta alla promessa costituzionale iscritta nella sua Legge fondamentale (art. 146) di dar vita a un autentico processo costituente all’atto della sua agognata riunificazione. Quest’ultima si fonda, ancor oggi, sul “Trattato di riunificazione” del 1990 (che qualcuno ha cupamente ma lucidamente ribattezzato “Annessione”: Giacchè), che, a sua volta, si basa sul più “burocratico” art. 23 della Legge fondamentale, oggi abrogato, che ne consentiva l’estensione ad “altre parti della Germania”. Un’autentica fase costituente avrebbe avuto “l’effetto simbolico di non far sentire alla popolazione della DDR che qualcosa era stato imposto loro, ma che avevano partecipato alla creazione dell’ordinamento giuridico” dell’intero Paese (Grimm). E’ tutt’altro che certo che tale processo costituente sarebbe bastato, da solo, a scongiurare future spaccature, ma è chiaro che ciò contribuisce oggi ad alimentare quel senso di subalternità nei cittadini tedeschi dell’Est, i quali tendono “a credere che la promessa di uguaglianza della Legge fondamentale non sia stata realizzata” (Lorenz).

La Germania ha, in fondo, rispecchiato quanto avvenuto nelle economie nazionali dell’Europa centrorientale integrate nella sua economia esportatrice: un parallelo e crescente processo di integrazione (economica) esterna e disintegrazione (sociale) interna (Guazzarotti). Integrazione economica esterna sempre più accentuata con l’Eurasia (Cina e Russia) e sempre più debole rispetto all’Europa mediterranea; disintegrazione sociale interna, che dalla linea di faglia Est-Ovest si allarga all’intera società, tramutandosi nella rivolta guidata dalla forza “antisistema” di AfD. Il paradosso è che quest’ultima, mentre rifiuta di riconoscere agli immigrati il ruolo cruciale che spetta loro nella “macchina produttiva” tedesca, è perfettamente consapevole dell’insostituibilità del legame economico con la Russia.

Non sappiamo cosa produrrà questo intreccio di contraddizioni nella politica tedesca dopo le elezioni del 23 febbraio 2025. Ma è chiaro che l’UE ne rifletterà gli andamenti. Come la riforma dell’UE in senso deflattivo del 2011-2013 è stata preceduta dalla revisione costituzionale tedesca del 2009 che ha introdotto il famigerato “Schuldenbremse” (freno al debito), così la revisione (impossibile ma necessaria) dei Trattati europei non potrà che dipendere dall’abrogazione di quella norma costituzionale tedesca. L’amaro paradosso è stato quello per cui il nuovo Patto di stabilità del 2024 ha tradito anni di proposte per l’inversione dello spirito deflattivo del vecchio Patto (voluto sempre dai tedeschi nel 1997) a causa della disperata lotta del (micro) Partito liberale tedesco contro la propria estinzione guidata dal Ministro delle finanze Lindner, poi resosi responsabile delle elezioni anticipate e infine dimessosi dopo la disfatta del suo partito alle ultime elezioni.

Uscire dalla crisi tedesca ed europea “da sinistra” sembra davvero un’utopia. Gli USA di Trump potrebbero rendere pericolosamente concreta la distopia di un’uscita dalla crisi attraverso il riarmo dei Paesi UE, uniti dalla “affratellante” esigenza di economie di scala dell’industria bellica europea. La storia dello Eurofighter, che ha visto per decenni collaborare imprese britanniche e tedesche prima della Brexit potrebbe essere istruttiva.

[*] Articolo (ri)pubblicato con il consenso di fuoricollana.it.

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