La crisi del costituzionalismo occidentale e la prova della tenuta dell’approdo europeo

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di Antonio D’Andrea

Occorre prendere atto, sia pur sconcertati e/o dispiaciuti, di certo non particolarmente sorpresi, di una crisi profonda delle relazioni in senso lato di natura geopolitica tra l’attuale Esecutivo statunitense appena insediato (e destinato a durare per i prossimi quattro anni) e segnatamente altri Governi di Stati europei  alcuni dei quali arrivati al capolinea (si voterà in questa settimana in Germania e anche in Francia è oramai chiara la debolezza della maggioranza parlamentare che fa capo a Macron). Soprattutto è evidente l’insofferenza dell’Amministrazione Trump nei confronti dell’Unione Europea per tutto ciò che questa organizzazione sovranazionale ha promosso e realizzato a proposito delle sue politiche (il tema è quello del nostro mercato interno) in rapporto con altri Paesi, a partire proprio dagli Stati Uniti. Si tratta di una tensione neppure troppo camuffata da una impostazione ideologica che sussiste e che pure è da tempo presente in Europa (anche laddove sembrava oramai definitivamente tramontata, si pensi alla Germania  oppure da sempre estranea alle consolidate democrazie dei Paesi scandinavi o a quella dei Paesi bassi) e fa oramai innegabilmente di Trump l’esponente di punta di una visione nazional-liberista con venature di suprematismo dagli sviluppi imprevedibili (a cui non sono estranei forme di integralismo a sfondo religioso e razziale: una specie di  riproposizione del clash of civilizations, ossia lo scontro di civiltà, che aveva alimentato il nazionalismo americano anche dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 sotto l’Amministrazione di Bush Jr), certamente ispirato da un disprezzo per altri “mondi” da mantenere “separati” e da mettere in condizione di non nuocere  all’ “’America first”.

Altre impostazioni ideologiche di segno opposto avrebbero finito per nuocere, secondo Trump, alla prima potenza mondiale insidiata da vicino dalla Cina, il cui declino andrebbe arrestato, secondo la vulgata trumpiana, in primo luogo con politiche protezionistiche (la “storia” dei dazi da rivedere e il rigido controllo per impedire l’afflusso degli immigrati irregolari in particolare dal Centro-America e rimpatriarli nei paesi di origine), così recuperando la guida del mondo ma superando, vorrei dire prima di tutto, una profonda crisi sociale –  più che non la disoccupazione, si registra da un po’ di tempo  una crisi economica legata all’inflazione, con un drastico aumento dei prezzi e un impoverimento della classe media e del potere di acquisto dei salariati legata almeno in parte allo stesso fenomeno migratorio –  che certo ne ha favorito il suo netto successo elettorale!

Insomma. anche negli Stati Uniti è tornato a vincere chi ha promosso quella che al momento resta la suggestione del benessere economico e del riscatto sociale proprio per i tanti “delusi” o “traditi” dai governanti del passato!  Ovviamente nessuna persona di buon senso, pur se privo di elementari conoscenze storiche delle catastrofi causate ovunque si sia impiantato il culto del Capo in grado di agire senza controlli adeguati e funzionanti, dovrebbe sottovalutare il grave pericolo che si annida nella mistica del “comando io perché il popolo è con me e Dio lo vuole”! Allo stesso modo credo che sia più che giustificato confidare nel fatto che proprio la secolare organizzazione costituzionale degli Stati Uniti, nella sua versione schiettamente federale, saprà fare fronte a eventuali eccessi “operativi” (quelli dialettici possono provocare fastidio, ma sono innocui) del Presidente eletto che travolga o vanifichi i presupposti da cui muovono gli ordinamenti democratici di derivazione liberale. Resta tuttavia ben chiaro che la supremazia economica, finanziaria e oramai soprattutto quella tecnologica degli Stati Uniti che si aggiunge a quella militare tradizionalmente riconosciuta in Occidente (a partire dalle vicende belliche in occasione del secondo conflitto mondiale e suggellate con l’adesione alla NATO, oltre che del Canada, di trenta Paesi europei l’ultimo dei quali è la Finlandia), è destinata ad avere come dichiarato obiettivo la Cina, vale a dire una grande potenza mondiale per la quale non hanno valso in passato e neppure adesso valgono le note coordinate democratiche.

Gli Stati del Continente europeo, laddove è in stato avanzato il drammatico conflitto bellico tra Russia e Ucraina (la cui risoluzione purché sia diventa perciò “cinicamente” prioritaria) e, in primo luogo, l’Unione Europea, secondo la visione trumpiana, sarebbe bene che facilitino questo disegno geopolitico che ha certamente le sue difficoltà operative di partenza tanto più se gli Stati Uniti continuassero a farsi carico – come in effetti è – in modo concreto e prevalente di sostenere sul piano economico e militare, lontano da Washington, Paesi alleati che su altri piani (quello commerciale in primo luogo) sono concorrenti vivaci e attenti nel definire regole che “penalizzano” soggetti economici, piattaforme tecnologiche e quant’altro, vale a dire interessi considerati strategici per ottenere l’auspicato controllo su scala mondiale di terra, acqua, spazio! Quello che mi pare di poter sottolineare, dopo aver grossolanamente rievocato la premessa ideale alla base del successo di Trump e i nodi che si pongono sul tappeto sul piano delle relazioni internazionali proprio con gli alleati europei in attesa che si definiscano imminenti appuntamenti elettorali alle viste, è l’ulteriore fattore innovativo o, se si vuole, il potenziale effetto moltiplicatore che quella rielezione potrebbe apportare alla crisi che attanaglia da qualche tempo le democrazie occidentali proprio in Europa e che ha finito, come è noto, per rinsecchire la prospettiva unionista ben prima della vittoria di Trump. Con il sopraggiungere in modo nettissimo del suo secondo mandato, dopo la prima non proprio ortodossa interpretazione della sua leadership tuttavia mitigata da un Congresso non in linea con il Presidente a maggior ragione dopo i gravi fatti di Capitol Hill, è sembrata evidente la riprova che il modello del costituzionalismo occidentale, tutto costruito intorno all’equilibrio dei poteri e alla “continenza” della maggioranza di governo che non può tutto e che agisce sotto il controllo per via giurisdizionale del suo operato (c.d. principio di legalità), si aprisse o meglio spalancasse le porte al suo ”ripensamento”.  Nello scacchiere geopolitico gli Stati Uniti “pesano” – è controproducente negarlo – ben più dell’Italia (nella quale si è, se si vuole, sorprendentemente realizzato l’ascesa del centro-destra a trazione meloniana) e dell’Ungheria di Orban e il Presidente statunitense è destinato a “valere” nella sua capacità di incidenza dell’indirizzo politico mondiale ben più di Nigel Farange e dello stesso Primo ministro britannico. È superfluo ricordare perciò che gli Stati Uniti rappresentano, sino a prova del contrario, l’insuperato prototipo di un ordinamento liberale che ha avviato in Occidente persino prima della Rivoluzione francese il superamento dello Stato assoluto! Non è detto, dunque, c’è da augurarselo, che si giunga all’effettivo superamento della democrazia costituzionale così come la conosciamo, ma è evidente che da lì si è alzato forte, come qualcuno non avrebbe immaginato, il vento dell’accentramento del potere politico nelle mani del Capo scelto dal popolo e a cui non si dovrebbero frapporre ostacoli neppure di ordine costituzionale. E, se ci sono, occorre trovare il modo di superarli ignorando o eventualmente anche modificando le regole ordinamentali che sono d’impiccio. Questa in estrema sintesi la dottrina istituzionale promossa da Trump. La missione del Capo scelto dal popolo e voluto da Dio – viene detto senza imbarazzo e con compiacimento – è solo quella di soddisfare gli interessi presenti e futuri della “sua” gente, della “sua” Nazione e, nel caso degli Stati Uniti, di garantirsi che il comando del mondo non cada in mani ostili.

A parte il rigurgito del sovranismo statunitense che preoccupa più di altri perché si tratta della potenza mondiale cui si è finora delegata, in buona parte del mondo occidentale inclusa l’Italia, la tutela per via militare della nostra sicurezza esterna, il frutto avvelenato del nazionalismo veicolato da Trump sul piano ideologico e culturale costringerà inevitabilmente a verificare vieppiù la tenuta di un modello organizzativo sovranazionale quale è proprio l’Unione Europea che integra l’esatto contrario di quella teorizzazione. Nella sua evoluzione, il costituzionalismo occidentale, specie quello europeo, è giunto a teorizzare la stessa promozione dell’universalismo dei diritti e della necessaria riduzione della cifra sovranista degli Stati nel nome di un ordine internazionale basato non sulla sopraffazione dei più forti ma su principi condivisi anche dai più forti che, in effetti, sono stati sottoscritti a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti umani adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. L’Unione Europea, che è un’organizzazione sovranazionale su scala regionale, che ha il suo diritto e persino i suoi giudici, è nata intorno a queste idee guida e se saprà, volendolo, reggere l’urto della involuzione trumpiana potrebbe anche dimostrare il fallimento di una cultura istituzionale asfittica dal respiro corto. Si è comunque all’inizio di una sfida che investe in pieno la democrazia occidentale non solo quella che abbiamo imparato a conoscere osservando al di là dell’Atlantico e che da europei sappiamo benissimo essere fragilissima. Speriamo che questo basti almeno per evitare di imboccare percorsi incerti che in ogni caso ci riporterebbero indietro.

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