di Giovanni Di Cosimo
Nei giorni scorsi, il progetto Meloni-Nordio sulla separazione delle carriere dei magistrati ha superato in scioltezza lo scoglio iniziale, l’approvazione in prima lettura alla Camera dei deputati. Il ministro della giustizia ha imposto la blindatura del testo governativo che non ha subìto alcuna modifica parlamentare, né nell’esame in commissione né in quello in aula.
Se approvata in via definitiva, la riforma avrà un impatto rilevante sull’organizzazione istituzionale, basta pensare che non si limita ad impedire i passaggi fra la carriera di giudice e quella di pubblico ministero, ma duplica un organo di rilievo costituzionale come il Consiglio superiore della magistratura e istituisce un’Alta Corte disciplinare.
Un buon modo per valutare le riforme istituzionali è interrogarsi sugli obiettivi a cui mirano. L’esperienza insegna che alcune riforme hanno funzionato poco e male proprio perché non c’era chiarezza attorno alle finalità. Per esempio, la riforma del Titolo V relativa al sistema regionale evidenzia una scarsa coerenza fra i fini dichiarati (il disegno di legge D’Alema-Amato parlava addirittura di “trasformazione in senso federalista dell’ordinamento dello Stato”) e i meccanismi introdotti (fra i quali spicca la mancanza di una camera delle regioni tipica dei sistemi federali).
La relazione al progetto Meloni-Nordio dice che la riforma è una conseguenza dell’introduzione del principio del giusto processo. L’obiettivo sarebbe quindi completare il disegno riformatore avviato nel 1999. La previsione dell’art. 111 Cost. che rileva è quella secondo cui “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. I sostenitori della separazione delle carriere sostengono che la “riforma garantisce parità effettiva tra accusa e difesa nel processo penale” (senatrice Bongiorno). Tuttavia, la parità fra accusa e difesa nel processo non dipende, se non in modo molto indiretto, dalle regole ordinamentali; casomai può essere conseguita regolando le funzioni delle parti. La parità fra difesa e accusa nel processo, per la quale contano le funzioni rispettivamente assegnate, non coincide con la parità sul piano ordinamentale.
Questo significa che la chiave di lettura del collegamento fra giusto processo e separazione delle carriere non regge. Ne consegue che è pretestuoso modificare l’assetto ordinamentale, che prevede un solo Consiglio supremo, in nome della parità fra accusa e difesa nel processo. A questo scopo, si può benissimo intervenire con legge modificando i ruoli della difesa e della accusa nel processo.
Come per la riforma del titolo V, anche nel caso della separazione delle carriere il problema è l’incoerenza fra le finalità (la parità nel processo) e le misure (la duplicazione dei consigli). Tuttavia, nel caso della separazione si intuisce un aspetto ulteriore, ossia che le misure sono adeguate rispetto a un fine diverso da quello dichiarato.
C’è, in altre parole, un obiettivo reale della riforma. Questo obiettivo va cercato nella volontà della politica di riequilibrare i pesi con la magistratura, percepita come troppo potente ed esorbitante (Caiazza, ex presidente Camere penali). Da questo punto di vista, la separazione assume un valore simbolico. Non è tanto la misura in sé che interessa ai suoi autori, ma il significato che riveste. Prova ne sia che il legislatore ordinario ha già reso molto difficoltoso il passaggio fra la carriera di giudice, introducendo un regime di fatto vicino alla vera e propria separazione delle carriere. Evidentemente, agli autori non basta che la separazione sia fissata con legge, vogliono scolpirla in Costituzione, passaggio che assumerebbe un ben diverso significato.
Qualsiasi cosa si pensi dell’obiettivo reale, vanno dette almeno due cose. Intanto, che sarebbe opportuno dirlo in trasparenza, anche perché gli elettori un giorno potrebbero essere chiamati ad esprimersi sulla riforma mediante il referendum. Inoltre, che con la separazione delle carriere si rischia che i pubblici ministeri si organizzino nel loro consiglio (della magistratura requirente) secondo logiche corporative e autoreferenziali. Sarebbe un classico caso di eterogenesi dei fini: la riforma mira a indebolire i magistrati, ma finirebbe con il rafforzare la componente dei pubblici ministeri. Il che porta a domandarsi se il passo successivo, oggi recisamente negato, non sarebbe ricondurre il corpo dei pubblici ministeri alle dipendenze del governo.