Della necessità di ribadire l’ovvio: la circolare del Ministero dell’Interno su self check-in e key box

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di Giacomo Menegus

Forse allarmate in vista del Giubileo 2025, le autorità di pubblica sicurezza hanno finalmente deciso di parlar chiaro con riferimento alla (pur evidente) illiceità delle varie forme di self check-in praticate diffusamente in molte strutture ricettive e locazioni brevi con l’ausilio di key box, pulsantiere o sistemi da remoto. È il Ministero dell’Interno, Dipartimento della Sicurezza Pubblica, ad adottare una circolare (n. 38138 del 18 novembre 2024), indirizzata ai Prefetti di tutta Italia, che non ammette repliche.

Dopo l’attenzione sollevata sul problema dalle azioni degli attivisti per la casa a Firenze, Roma e Milano, che avevano incollato adesivi e cappelli da Robin Hood su key box e pulsantiere, è parsa evidente la possibilità che i dilaganti “affitti brevi” diano ricetto, oltre che a turisti e pellegrini, a malviventi e terroristi, senza che il passaggio o la permanenza di questi nelle nostre città venga in qualche modo registrato o comunque senza che questi soggetti debbano fare sforzo alcuno per celare o travisare la propria identità.

Secondo una pratica diffusissima, che ha alimentato un vero e proprio business, sempre più di rado l’accoglienza degli ospiti in strutture ricettive e locazioni brevi viene svolta da un addetto o dal titolare di persona. La verifica dei documenti di riconoscimento e delle generalità, necessaria per l’adempimento degli obblighi di cui all’art. 109 T.U.L.P.S., viene infatti svolta a distanza, con mezzi più o meno sofisticati (dalla foto condivisa del documento su WhatsApp all’impiego di appositi software), senza alcun riconoscimento de visu degli ospiti. Per consentire l’accesso alla stanza o alla struttura, viene poi trasmesso un codice numerico da digitare sulla pulsantiera, la porta viene sbloccata da remoto, la chiave lasciata appunto in una key box.

È evidente a qualsiasi persona di buon senso – o perlomeno a chi non abbia un diretto interesse a mantenere in piedi questa pratica – che in questo modo chiunque può trasmettere le generalità o la foto di un documento altrui e soggiornare tranquillamente presso la struttura ricettiva senza che né l’host né le autorità di pubblica sicurezza vengano a conoscenza della sua presenza.

Sotto il profilo dell’organizzazione dell’attività, naturalmente il self check-in consente un notevole alleggerimento degli oneri a carico di chi fa ospitalità (dato che non si è costretti a ricevere gli ospiti di persona, magari spostandosi tra luoghi lontani tra loro o in orari disagevoli), ma anche una certa flessibilità per i soggiornanti per quanto riguarda gli orari di check-in. I vantaggi di questo tipo di accettazione si scontrano però con le esigenze di pubblica sicurezza espresse dall’art. 109 T.U.L.P.S., più di recente estese espressamente anche alle attività di locazione turistica in virtù dell’art. 19-bis del d.l. n. 113/2018 (conv. in l. n. 132/2018). È appunto la ratio dell’art. 109 T.U.L.P.S., ben descritta nella circolare con richiamo alla giurisprudenza costituzionale, ad imporre un riconoscimento de visu degli ospiti. In particolare, nell’ordinanza n. 262 del 2005, la stessa Corte costituzionale ha riconosciuto che «l’obbligo di comunicazione delle generalità delle persone alloggiate imposto dall’art. 109, terzo comma, (…) è volto a consentire all’autorità di polizia la più rapida cognizione dei nominativi degli ospiti dell’albergo al fine di garantire, appunto, la sicurezza pubblica nell’ambito dei compiti d’istituto individuati dall’art. 1 TULPS».

Se svolta da remoto quest’attività di raccolta e trasmissione delle generalità perde tutta la sua utilità, contraddicendo la ratio della norma, dal momento che l’host non è in grado di verificare non solo la corrispondenza tra documenti presentati ed ospiti, ma persino il numero effettivo di questi ultimi. Fanno bene la autorità di p.s. a definire come «pretestuosa e divagante» la tesi avanzata da società operanti nel settore del check-in da remoto, secondo le quali – mancando alcun potere certificativo in capo al privato gestore – quest’ultimo non sarebbe tenuto a svolgere il riconoscimento de visu. Anche qui, è di tutta evidenza che al gestore o all’addetto al check-in nelle strutture ricettive non si chiede certo di certificare l’identità di un soggetto, ma semplicemente di cooperare con le autorità di p.s. per lo svolgimento di compiti di pubblica sicurezza. L’ospite privo di documento o con documento non suo dovrà essere rifiutato, mentre per i casi in cui sorgano dubbi o sospetti resta sempre la strada della segnalazione alle autorità di p.s., che possono eventualmente svolgere gli appositi controlli. Da remoto, tutto ciò è impossibile.

Quanto alla sorte delle key box, starà probabilmente alle amministrazioni comunali e alle soprintendenze provvedere alla loro eventuale rimozione. Sul loro corretto impiego (ormai residuale) e sul ritorno nel solco della legalità delle attività di accettazione degli ospiti supervisioneranno invece le autorità di p.s.

È giusto il caso di segnalare, a chiusa di questa breve nota, che l’obbligo di accogliere gli ospiti in persona figura curiosamente pure tra le (poche) regole che il Comune di Venezia si accinge ad introdurre per le locazioni brevi in città (peraltro con riferimento ad una platea ridotta di operatori, selezionati in modo singolare; ma questa è un’altra storia). All’art. 5 (Obbligo di accoglienza degli ospiti e adempimenti informativi) della proposta di “Regolamento per lo svolgimento di attività di locazione esclusivamente per finalità turistiche per un periodo superiore a 120 giorni anche non consecutivi ad anno solare” si legge infatti che «l’accoglienza degli ospiti deve avvenire esclusivamente di persona»: quasi a testimoniare non solo quanto fosse ormai disatteso tale obbligo, ma pure la scarsa chiarezza sulla relativa vigenza che serpeggiava persino tra gli addetti ai lavori.

Ben venga, dunque, il chiarimento risolutivo del Ministero dell’Interno.

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