Un sistema a due vertici? Prospettive della riforma sul premierato

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di Francesco Severa¶

L’approccio puntuale alla revisione costituzionale è di certo più coerente con il modello dell’art. 138 Cost. rispetto ai tentativi organici di riforma, quali quelli, ad esempio, del 2006 e del 2016. Insegnava Martines che il principio di rigidità costituzionale impone di limitare l’azione di revisione a quei soli “spazi vuoti” che nel testo costituzionale siano rinvenibili, cioè lì dove nel testo insistono formule aperte o generiche, che lasciano una discrezionalità di intervento alle forze politico-sociali nell’attività di inveramento. Con riguardo alla parte seconda della Costituzione, la revisione è, in sostanza, l’inveramento positivo (formale) di una delle alternative materiali costituzionalmente possibili, meglio costituzionalmente sostenibili. Essa insiste sul medesimo spazio di manovra che Mortati aveva ritagliato per le forze politiche dominanti, che è poi lo spazio di razionalizzazione della forma di governo, affidata appunto ai partiti (almeno in origine). Da ciò si possono ricavare due conseguenti suggestioni: (1) la revisione è una manifestazione di debolezza del sistema politico-partitico, che emerge ogni volta che questo non si sente in grado di controllare le derive materiali dell’ordinamento costituzionale; (2) la revisione introduce elementi di rigidità nel sistema, sottraendo alla politica quel ruolo di ricomposizione dei modelli positivi con la concreta e contingente vita delle istituzioni. Ma la rigidità formale si supera solo con l’elasticità dell’interpretazione politica, tanto che è ben possibile che da quel nuovo dato positivo che si è voluto introdurre si generino prospettive materiali del tutto inaspettate o quanto meno incontrollate. Un po’ come succede al Mefistofele faustiano, che pur desiderando il male, era eternamente costretto ad operare il bene.

Questo discorso, in realtà, ben si può far valere per la proposta di riforma che vorrebbe introdurre nel nostro ordinamento l’elezione diretta (forse meglio dire la “designazione elettorale diretta”) del PdC. Il dato che emerge con particolare evidenza dall’analisi del testo approvato in prima lettura dal Senato lo scorso 18 giugno è proprio il tentativo di correggere (di contenere più che altro) alcune deviazioni materiali (per i promotori vere e proprie derive) nel procedimento di formazione del Governo, affiorate più o meno in quel decennio che va dal 2010 al 2020. Molto la dottrina ha scritto sullo sforzo della Presidenza Napolitano di tenere insieme un quadro politico davvero frammentato, anche facilitando (o forzando) la costituzione di “governi impolitici” (Monti) ovvero di “governi dell’unità” (Letta). Basti ricordare la decisione di individuare al di fuori del Parlamento la figura di sintesi da porre al vertice dell’Esecutivo (Monti che viene nominato Senatore a vita) o anche la designazione del gruppo dei “saggi”, chiamati a definire il programma politico della futura compagine governativa (siamo nel 2013). Ecco, l’intento della presente riforma sembra tutt’altro che genericamente finalizzato ad assicurare la stabilità nel governo del Paese, quanto piuttosto appare orientato a perseguire sì quest’ultimo obiettivo, ma attraverso un contenimento delle prerogative del Quirinale, imponendo alla famosa “fisarmonica” di suonare con il mantice più stretto.

Guardiamo in sintesi con quali previsioni si intende farlo: (1) la designazione tramite elezione diretta del PdC, agganciata all’elezione delle Camere con un meccanismo che assegnerà alle liste collegate al PdC eletto un premio su base nazionale tale da assicurare ad esse la maggioranza in entrambi i rami del Parlamento; (2) il vincolo per il PdR di affidare l’incarico al PdC eletto (l’elezione sostituirà, in sostanza, il solo momento delle consultazioni); (3) la nomina e la revoca dei ministri, che resta prerogativa del PdR, su proposta del PdC eletto; (4) la necessità per il PdC eletto di recarsi alle Camere al fine di ottenere la fiducia per la nuova compagine di governo; (5) il rinnovo dell’incarico per il PdC eletto in caso di una prima sfiducia parlamentare e l’obbligo di scioglimento delle Camere in caso di secondo voto di sfiducia; (6) l’obbligo di dimissioni del PdC in caso di revoca della fiducia da parte del Parlamento e conseguente obbligo di scioglimento delle Camere in capo al PdR; (7) in tutti gli altri casi di dimissioni, la possibilità per il PdC dimissionario di chiedere al Capo dello Stato, entro sette giorni, lo scioglimento delle Camere, a cui quest’ultimo procede come atto dovuto; (8) la norma anti-ribaltone (meglio, anti-Draghi), che impone, nel caso il PdC dimissionario non eserciti la facoltà di scioglimento di cui sopra e comunque per una sola volta, il conferimento dell’incarico allo stesso PdC uscente ovvero a un parlamentare eletto nell’ambito della medesima maggioranza uscita dalle urne; (9) nei casi di decadenza, impedimento permanente o morte, l’obbligo per il PdR di conferire l’incarico a un parlamentare eletto nella lista o nelle liste collegate al PdC; (10) a ciò si aggiunge la cancellazione per il PdR del potere di nomina dei Senatori a vita (una norma pensata per evitare il ripetersi di quanto accaduto con Monti) e la nuova disciplina in tema di controfirma.

La spinta verticale che la riforma chiaramente introduce tocca inevitabilmente l’equilibrio tra Parlamento e Governo. L’attuale versione dell’art. 92 Cost., proprio in ragione della sua formula asciutta ed essenziale, lascia amplissimo spazio alla mediazione politica nel delineare il giusto rapporto tra necessario pluralismo della rappresentanza e inevitabile sintesi del Governo, da costruire caso per caso, esigenza istituzionale per esigenza istituzionale. Al contrario, l’elezione diretta del PdC schiaccerà sul momento elettorale entrambe queste esigenze contrapposte, senza la possibilità (o almeno rendendola molto difficile) di discostarsi nel tempo dal risultato del voto, che di per sé però non ha profondità temporale e resta istantaneo e contingente (ne parlava già Caravita in un suo scritto del 1993). Questo schiacciamento avviene evidentemente a discapito di una certa funzione esercitata dal Capo dello Stato, cioè di quel suo ruolo di promotore della formazione della maggioranza governativa e ancor più di risolutore delle crisi di governo: un ruolo che si è materialmente inverato nello “spazio di manovra” lasciato dalla formula così essenziale dell’art. 92. Siamo davvero sicuri, però, che, tra le pieghe del testo di riforma, non si faccia viva una seconda verticalizzazione? Cioè che alla fine, tolto al PdR il ruolo di “arbitro”, non si stia ritagliando per lo stesso una funzione del tutto diversa e astrattamente assai più incisiva, perché propriamente anti-maggioritaria? Proviamo a ragionare su alcuni elementi della proposta di revisione e sulle possibili letture materiali di questi.

  1. Una fiducia “dialettica”. Già abbiamo sottolineato come la riforma non preveda propriamente l’elezione diretta del nuovo PdC, ma la sua sola diretta designazione elettorale (a discapito delle consultazioni), tanto che il potere di incarico del PdR rimane pressoché intatto (anche se in parte vincolato), con tutto ciò che da questo deriva. In particolare, restando in capo al Quirinale la nomina (e la revoca) dei ministri proposti dal PdC eletto, la riforma non sembra limitare le prassi emerse con riguardo al potere del Capo dello Stato di sindacare i nomi suggeriti, soprattutto con riferimento ad alcuni ministeri sensibili, quali quello dell’economia o della giustizia (si ricordino il caso Savona o il caso Gratteri). Mentre quindi il PdR sarà tenuto a conferire l’incarico di formare il governo alla personalità che sia uscita vincitrice dalle elezioni, la composizione dell’esecutivo rimarrebbe invece affidata a una non troppo inedita dialettica tra PdC eletto, che i ministri propone, e PdR, che i ministri nomina; in questo senso, il passaggio fiduciario innanzi alle Camere muterebbe il suo significato. Non varrebbe più come approvazione formale del nuovo esecutivo e come conseguente consacrazione della maggioranza a questo collegata (questi sarebbero dati già acquisiti con le elezioni), ma al contrario rappresenterebbe (in maniera davvero innovativa) uno strumento di indiretta valutazione parlamentare sulle eventuali scelte ostative messe in campo dal PdR con riguardo, ad esempio, al nome di un particolare ministro. Poniamo il caso di un PdC eletto e di un PdR di differente estrazione politica; non sarebbe certo difficile il verificarsi della seguente ipotesi: il PdC eletto potrebbe, almeno in prima battuta, usare la sua forte maggioranza parlamentare per bocciare la composizione suggerita (o comunque imposta) dal Capo dello Stato e così riaprire la dialettica con il Quirinale forte di un voto negativo espresso dal Parlamento. Questo perché la Costituzione, difronte ad un primo voto di fiducia negativo, imporrebbe comunque al PdR di reincaricare lo stesso PdC eletto. Il secondo passaggio fiduciario sarebbe però più complicato per la maggioranza, perché una eventuale nuova bocciatura della compagine di governo comporterebbe lo scioglimento dovuto delle Camere: ove, dunque, il PdR decidesse di rimanere fermo sulle sue scelte ostative, la nuova maggioranza si troverebbe nella condizione di approvarle con la fiducia ove volesse evitare le nuove elezioni. Nella sostanza, la nuova riforma ritaglia per il Capo dello Stato lo spazio per un’azione concretamente anti-maggioritaria, con il rischio di acuire una certa conflittualità tra i due vertici.
  2. Una nuova disciplina della controfirma. Il superamento del ruolo propriamente da “arbitro” del PdR, emerge anche dal testo del nuovo art. 89. In sostanza, la nuova disposizione sottrae all’obbligo di controfirma la nomina del PdC, la nomina dei giudici della Corte costituzionale, la concessione della grazia e la commutazione delle pene, il decreto di indizione delle elezioni e dei referendum, i messaggi alle Camere e il rinvio delle leggi. Alcuni commentatori hanno sottolineato come il nuovo testo non faccia altro che adeguare il testo della Carta alle prassi emerse negli anni e alla giurisprudenza della Consulta. Sta di fatto che la riforma crea un nucleo, non certo irrilevante, di funzioni che il PdR eserciterà con piena responsabilità politica. Guardando soprattutto ai messaggi alle Camere e al potere di rinvio, ciò implicherà che l’azione del PdR, solitamente finalizzata a far emergere e a sanzionare le “stonature” costituzionali dell’azione di Parlamento e Governo, potrebbe benissimo essere ispirata a valutazioni di natura più propriamente politica, magari in ragione della personalità del singolo presidente ovvero della sua contraria estrazione rispetto alla contingente maggioranza.

In buona sostanza, la riforma, pur rafforzando il vertice dell’esecutivo e quindi rivestendolo di una fortissima legittimazione di natura elettorale, non sembra annullare il ruolo del PdR, che anzi manterrebbe un potere incisivo sulla composizione del nuovo governo e guadagnerebbe una nuova precisa responsabilità politica nell’esercizio di alcune sue rilevanti funzioni. Va compreso se questi nuovi assetti, immersi nel contesto tutto rinnovato di un sistema in cui il continuum parlamento-governo viene rafforzato e verticalizzato, reggeranno alla tradizionale lettura limitativa del ruolo del Capo dello Stato, arbitro e garante. Invero, sembra possibile che la torsione materiale del nuovo sistema rafforzi la natura anti-maggioritaria della funzione del Quirinale. Un contro-vertice che, soprattutto nel caso sia politicamente distonico rispetto al PdC eletto, sarebbe ancora capace di negare una nomina ministeriale (aprendo una dialettica in cui sarebbe coinvolto perfino il Parlamento che si appresta a votare al fiducia) e che potrebbe interpretare in maniera più incisiva i poteri per cui avrà integrale responsabilità politica (soprattutto il rinvio alle Camere) – e, perché no, anche altri poteri che già oggi la Costituzione gli assegna, come l’autorizzazione alla presentazione dei disegni di legge governativi (art. 87, comma quattro, Cost.). L’incisività di questa proposta di riforma, proprio perché rileggerebbe in forme più assolute il legame tra Presidenza della Repubblica e Governo, ben potrebbe comportare (e, anzi, con un certo grado di certezza lo comporterebbe) un ripensamento nel ruolo della prima in funzione di un controllo più stretto sull’attività del secondo. Sul versante opposto, la legittimazione elettorale del PdC appare insufficiente da sola a dargli dei concreti poteri di controllo su una maggioranza che, per quanto forte, sarà comunque, in prospettiva, composita e non monopartitica.

Tirate le somme, anche alla luce dei possibili sviluppi materiali della proposta di revisione, lo sviluppo verticistico del circuito parlamento-governo, di spiccata natura maggioritaria, è accompagnato dalla conferma di un ruolo forte per il Capo dello Stato. Quest’ultimo si troverebbe certo a scontare una condizione di debolezza rispetto ad un PdC forte della legittimazione elettorale, ma proprio questo scompenso renderebbe accettabile (e forse favorirebbe) una lettura materiale più incisiva e meno imparziale del ruolo del Capo dello Stato. I presupposti ci sono tutti per quella che potrebbe apparire come una doppia verticalizzazione del nostro ordinamento costituzionale, con il serio rischio di generare una forte conflittualità ove quei due vertici, uno pro-maggioritario e uno anti-maggioritario, non si trovino pienamente consonanti, ove pur si ammettesse che possano esserlo fino in fondo.

¶ Assegnista di ricerca in istituzioni di diritto pubblico, Sapienza – Università di Roma

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1 commento su “Un sistema a due vertici? Prospettive della riforma sul premierato”

  1. Quanto al potere d’interdizione di cui il Capo dello Stato ha dato prova di poter disporre (il caso Savona docet) sul versante della scelta del Ministri, si tratta, – a me pare – di vedere se (e fino a che punto) potrà avvalersene in un contesto segnato dalla elezione diretta del Presidente del Consiglio, tanto più che nulla (purtroppo…) esclude che quest’ultimo possa esercitare un’influenza rilevante al momento della elezione dello stesso Capo dello Stato. Insomma, anziché avere un sistema a due vertici – come prospettato da Severa – potremmo averne uno con un vertice solo non soggetto a sostanziale controllo, con grave pregiudizio per la tenuta dell’intero impianto costituzionale.
    Il vero è che, al presente, nulla di sicuro possiamo dire a riguardo delle nuove regolarità della politica che si affermeranno dopo la riforma; possiamo (e dobbiamo), tuttavia, nutrire forti preoccupazioni per la Carta e i suoi valori, tanto più che un Parlamento in stato comatoso potrebbe trovarsi svilito al ruolo di mero esecutore della scelte del Governo (rectius, del Presidente del Consiglio) non solo per ciò che attiene alla elezione del Capo dello Stato ma anche in merito alla composizione degli altri organi di garanzia (Corte costituzionale e C.S.M.)

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