La Corte costituzionale interviene sui diritti delle persone trans: cosa cambia?

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di Nicola Posteraro

Le persone non binarie esistono: ce lo conferma al massimo livello la Corte costituzionale, che, con una importante sentenza del 23 luglio 2024 (la n. 143), ha deciso le due questioni di legittimità costituzionale inerenti ai percorsi di affermazione di genere sollevate dal Tribunale di Bolzano (II sezione civile) con ordinanza del 12 gennaio 2024[1].

Con questa pronuncia, il giudice delle leggi, sulla scorta delle evidenze medico-scientifiche e delle esperienze maturate sul punto da altri Paesi[2], ammette espressamente che un individuo, percependo di non appartenere né al sesso femminile, né a quello maschile, possa avvertire l’esigenza di essere riconosciuto in un’identità “altra”. E la conferma non è di poco conto, posto che, in effetti, anche se la psicologia sociale ha ormai acquisito una concezione non binaria dell’identità di genere, sul condiviso presupposto che il genere stesso non sia determinato unicamente dal dato morfologico e cromosomico, ma altresì da fattori sociali e psicologici[3]\, il diritto non si è finora mai preoccupato di intervenire con il fine di riconoscere piena ed effettiva cittadinanza a queste persone.

Se è vero che, come sottolineato dalla stessa Corte, nei confronti di questa realtà si manifesta una sempre più avvertita sensibilità (si pensi alla pratica delle carriere alias, che consente agli interessati di assumere elettivamente, a fini amministrativi interni, anche un’identità non binaria[4]), è altrettanto vero che il nostro ordinamento è rimasto nel tempo (ed è ancora fortemente) ancorato a una logica rigidamente binaria.

Ad avere chiesto l’intervento della Corte costituzionale sulla questione è stato il Tribunale di Bolzano, che si è trovato a dovere decidere di un caso di “rettificazione” anagrafica. In Italia, infatti, come noto, le persone trans che vogliano ottenere dei documenti in linea con il proprio effettivo genere di appartenenza devono per legge rivolgersi a un Tribunale, in modo tale che lo stesso possa attribuire loro, con sentenza, un “sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita”[5].

Nel caso di specie, una persona AFAB (assigned female at birth)[6], riconoscendosi in un genere non binario, seppure incline al polo maschile, adiva il giudice (il Tribunale di Bolzano, appunto) per ottenere dei documenti in cui fosse indicato (non il sesso opposto a quello anagrafico assegnatole alla nascita, ma) un sesso “altro”, diverso da quelli tradizionalmente riconosciuti come assegnabili[7]. Il Tribunale, assumendo che l’attuale legge sull’identità di genere (in particolare, l’art. 1 della l. n. 164 del 1982) non consente di accogliere una domanda di rilascio di documenti su cui fare comparire un genere non binario, chiedeva l’intervento della Corte costituzionale, ritenendo del tutto irragionevole una siffatta preclusione, siccome contrastante con gli artt. 2, 3, 32 e 117, primo comma, della Costituzione (quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo), per la lesione inflitta all’identità, alla salute e al rispetto della vita privata e familiare della persona [8].

Con questa sentenza, la Corte non ha dichiarato l’illegittimità della norma censurata e ha quindi lasciato inalterato l’attuale sistema fondato sul binarismo di genere. In particolare, ha ritenuto inammissibili le questioni sollevate dal Tribunale di Bolzano, siccome eccedenti il “(…) perimetro del [suo] sindacato (…)”. Essa ha riconosciuto però l’esistenza delle persone non binary, come rilevato supra, e ha segnalato al legislatore (da essa definito quale “primo interprete della sensibilità sociale”) l’opportunità di intervenire per evitare che questo mancato riconoscimento giuridico continui a generare una situazione di disagio idonea a condurre a delle disparità di trattamento e a una compromissione del benessere psicofisico di queste persone, ledendone la dignità e la salute. 

Un passo avanti importante, quindi, che legittima una prospettiva che appare del tutto condivisibile: un ordinamento come il nostro, che riconosce centralità al principio personalistico, non può restare impermeabile alle evoluzioni della società, ma deve al contrario preoccuparsi di “normarle” per evitare di ledere valori di libertà e dignità della persona umana.

L’auspicio a questo punto è che il legislatore intervenga al più presto. Certamente, si tratta di un intervento che richiede un impegno importante e meditato: come sottolineato dalla Corte, infatti, l’introduzione di un “terzo genere di stato civile” presuppone un ripensamento legislativo di sistema, visto che i vari settori dell’ordinamento e i numerosi suoi istituti sono al momento regolati da una logica binaria. Si pensi al matrimonio, banalmente, o all’unione civile, negozi riservati rispettivamente a persone di sesso diverso o dello stesso sesso.

L’operazione sarà dunque giuridicamente difficile; richiederà un certo sforzo, una certa fatica, una certa attenzione. Non si può però rinunciare a priori a vincere questa sfida, solo perché complicata. Occorre al contrario impegnarsi per garantire tutela piena ed effettiva al diritto fondamentale all’identità di genere delle persone non binarie; le quali continueranno a esistere, fintantoché la legge non interverrà sul punto, solo nella realtà sociale, e non anche in quella giuridica. Con tutto ciò che ne conseguirà sul piano pratico.

Con questa sentenza del 23 luglio la Corte è intervenuta anche su un’altra questione, altrettanto importante: quella inerente alla necessità di ottenere una previa autorizzazione giudiziale per potere effettuare gli interventi chirurgici di affermazione di genere. Nel caso concreto, la persona interessata aveva richiesto al Tribunale (non solo il cambio anagrafico, ma anche) l’autorizzazione a sottoporsi a degli interventi chirurgici di affermazione di genere. In particolare, aveva chiesto che fosse riconosciuto il suo diritto di sottoporsi a ogni intervento chirurgico in senso gino-androide (innanzitutto, la mastectomia). Nel nostro Paese, infatti, chi voglia effettuare degli interventi chirurgici di affermazione di genere, ai sensi dell’art. 31, comma 4, del d.lgs. 150 del 2011, deve ottenere una previa sentenza del giudice che la autorizzi a procedere in questo senso[9].

Il Tribunale di Bolzano ha chiesto alla Corte di valutare la compatibilità di questa prescrizione normativa con gli artt. 2, 3, 32 della Costituzione, ritenendo che la stessa comprima ingiustificatamente l’autodeterminazione individuale e il diritto alla salute e che la scelta di chi voglia sottoporsi a un intervento chirurgico di affermazione di genere non possa essere trattata diversamente da quella assunta da chi debba sottoporsi a qualsiasi intervento chirurgico ugualmente demolitivo e per il quale non sia però richiesta alcuna previa autorizzazione giudiziale (si pensi a una vasectomia)[10].

La Corte, rilevato che la prescrizione normativa non può ritenersi in sé manifestamente irragionevole, siccome rientrante nei poteri discrezionali del legislatore, osserva che la previsione dell’autorizzazione giudiziale “per i trattamenti medico-chirurgici di adeguamento dei caratteri sessuali” non ha eguali nel panorama comparatistico (che evidenzia “semmai una progressiva focalizzazione sull’autodeterminazione individuale”) e non è priva di tratti paternalistici, rispetto a persone maggiorenni e capaci di autodeterminarsi. Essa ritiene che la norma sia irragionevole nel momento in cui prescrive l’autorizzazione al trattamento chirurgico in tutti quei casi in cui il giudice accerti che la persona trans abbia completato il proprio percorso di transizione e possa dunque disporre il rilascio del nuovi documenti: in questa ipotesi, infatti, un eventuale intervento chirurgico avverrebbe comunque dopo la già disposta rettificazione (la quale, come noto, può essere ormai accordata anche qualora la persona interessata a ottenere dei nuovi documenti non abbia ancora effettuato – e non abbia alcuna intenzione di effettuare – un intervento chirurgico di affermazione di genere)[11]. La Corte afferma quindi che l’autorizzazione prevista dalla disposizione censurata ha perduto “ogni ragion d’essere al cospetto di un percorso di transizione già sufficientemente avanzato”[12]

Si legge invero nei commenti di queste prime ore che grazie alla sentenza in commento l’autorizzazione a effettuare gli interventi chirurgici di affermazione di genere oggi non serve più. Una lettura attenta della pronuncia induce in realtà a essere più cauti. Un conto è dire che si può accedere liberamente agli interventi di chirurgia di affermazione di genere in Italia qualora sia stata accolta la domanda di “rettificazione anagrafica”; un altro è dire che si può sempre accedere liberamente ai suddetti interventi, anche qualora la suddetta domanda non sia stata ancora (avanzata, ovvero) accolta. Nella prima prospettiva, è infatti comunque richiesta una previa verifica da parte del giudice, che, all’esito di un accertamento rigoroso (non solo della serietà e univocità dell’intento, ma anche) dell’intervenuta oggettiva transizione dell’identità di genere[13], sia atta ad attestare che la persona abbia effettivamente “completato” il proprio percorso e abbia quindi diritto a riconoscersi nel genere di appartenenza.

Questo vuol dire, ad esempio, che:

a) una persona AFAB che voglia effettuare un intervento di mastectomia dovrà comunque ottenere il cambio anagrafico, se vorrà effettuare l’intervento chirurgico suddetto senza sottoporsi al previo scrutinio del giudice;

b) una persona AFAB non binaria sarà costretta a effettuare il su richiamato cambio anagrafico, se vorrà effettuare un intervento chirurgico di affermazione di genere senza rivolgersi previamente al giudice; e quindi che, in questo caso, almeno fintantoché il legislatore non interverrà sulla logica binaria, dovrà necessariamente riconoscersi nel genere opposto a quello correlato al sesso assegnatole alla nascita, aderendo alla suddetta logica binaria. Da questo punto di vista, la decisione assunta dal giudice delle leggi con riguardo alla prima questione limita e circoscrive evidentemente gli effetti della decisione da esso assunta con riguardo alla seconda.

Si dovrà dunque riflettere su cosa praticamente potrà cambiare, ora. Si tratta di una decisione che necessita di essere analizzata con attenzione e con rigore scientifico, per il tramite di un confronto con studiosi e professionisti impegnati nell’approfondimento di queste tematiche. Pare a chi scrive che la pronuncia, letta in questi termini, abbia comunque il merito di elidere (parte) di quello stigma sociale di cui sono vittime le persone trans e di impattare positivamente sul benessere psico-fisico di queste ultime: esse, in tal modo, quantomeno qualora abbiano già ottenuto il cambio anagrafico, sanno ora di non dovere (più) subire una (ulteriore) intromissione di estranei nelle scelte che attengono alla tutela della propria identità.

Inoltre, con una decisione di tal fatta sembra potersi dire che la Corte riconosca che, ad avvenuta e accertata transizione, l’intervento chirurgico di affermazione di genere sia di per sé legittimo, benché demolitivo, proprio siccome atto a garantire il benessere psico-fisico della persona trans che ha già completato il proprio percorso di transizione: il che dovrebbe pure garantire che l’intervento chirurgico effettuato senza previa autorizzazione giudiziale continui a rimanere a carico del SSN.

Si dovrà comunque verificare in concreto come le strutture sanitarie recepiranno questa decisione della Corte: l’auspicio è che non si oppongano ingiustamente a richieste di intervento avanzate da persone trans che non esibiscano una sentenza del giudice atta ad autorizzarle espressamente a effettuare i richiesti interventi. Per evitare questo pericolo, occorre che della pronuncia e dei suoi contenuti sia data una corretta e capillare diffusione.

— Note

[1] Con l’ordinanza, il Tribunale di Bolzano (su cui A. Figone, Identità non binarie: si chiede l’intervento della Corte costituzionale, in IUS Famiglie, luglio 2024) ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso) e dell’art. 31, comma 4, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69). Di questa ordinanza si è discusso nel corso di un seminario di studi organizzato presso l’Università degli Studi di Milano dall’unità milanese del progetto PRIN PNRR 2022 “T.R.A.N.S.”, reperibile al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=pe7bUJVHfTA.

[2] Come si legge in sentenza, per il DSM-5 (quinta revisione del «Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders»), la disforia di genere, oltre che al maschile e al femminile, può attenere a «some alternative gender»; lo stesso per l’incongruenza di genere, classe diagnostica utilizzata dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) nell’ICD-11 (undicesima revisione dell’«International Classification of Diseases»). La Corte evidenzia poi che: a) non pochi ordinamenti europei – da ultimo quello tedesco, con la recente legge sull’autodeterminazione in materia di registrazione del sesso (“Gesetz über die Selbstbestimmung in Bezug auf den Geschlechtseintrag SBGG”) – hanno riconosciuto e disciplinato l’identità non binaria, seppure in forme diversificate; b) la Corte costituzionale belga ha censurato la delimitazione binaria della disciplina legislativa della transizione di genere, stigmatizzando l’ingiustificata disparità di trattamento fra chi sente di appartenere al genere maschile o femminile e chi invece non si identifica in alcuno dei predetti generi (arrêt n° 99/2019 del 19 giugno 2019). Sottolinea, infine, che, per favorire la circolazione dei documenti pubblici tra gli Stati membri, il regolamento (UE) 2016/1191 del Parlamento europeo e del Consiglio del 6 luglio 2016, che promuove la libera circolazione dei cittadini semplificando i requisiti per la presentazione di alcuni documenti pubblici nell’Unione europea e che modifica il regolamento (UE) n. 1024/2012, presenta moduli standard recanti alla voce “sesso” non due diciture, ma tre, “femminile”, “maschile” e “indeterminato”.

[3] Così si esprime l’ordinanza di rimessione del Tribunale di Bolzano.

[4] Sul tema, v. A. Pioggia, La carriera alias: identità accademica e genere, in Giornale di diritto amministrativo, 2024, 156 e ss. Il prossimo 11 ottobre, in Unimi, il gruppo di ricerca del progetto T.R.A.N.S. organizzerà un incontro sul tema, mettendo a confronto le esperienze maturate sul punto dalle due Università coinvolte nella ricerca finanziata: Unimi e Unitrento.

[5] Cfr. art. 1, l. n. 164/1982, a mente del quale “La rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali”.

[6] Sull’importanza del linguaggio nella trattazione delle questioni afferenti alle soggettività trans*, segnalo il video di un seminario che l’unità milanese del gruppo di ricerca del progetto PRIN richiamato supra ha organizzato, presso Unimi, nel mese di maggio 2024: https://www.youtube.com/watch?v=7lyUgr8-_Gg.

[7] Si legge in sentenza che la persona interessata a ottenere i nuovi documenti ha assunto durante la frequenza degli studi universitari il prenome maschile di I., “dal quale ormai si sente definita rispetto agli altri”, e si è rivolta alle strutture sanitarie pubbliche, “presso le quali ha ricevuto una diagnosi di disforia o incongruenza di genere, per identificazione non binaria, con propensione alla componente maschile”.

[8] Il Tribunale solleva q.l.c. affermando che l’art. 1 della legge n. 164 del 1982 viola la Costituzione, “nella parte in cui afferma che “la rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali”, anziché prevedere che “la rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita ovvero altro sesso diverso da quello maschile e femminile a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali””. Il giudice a quo precisa che “Sebbene tale disposizione non faccia espresso riferimento alla necessità di ottenere una rettificazione in termini strettamente binari, deve, infatti, ritenersi che l’ordinamento dello stato civile vigente sia informato implicitamente sulla bipartizione di genere “femminile” e “maschile” e che pertanto non sia configurabile una rettificazione anagrafica con attribuzione di un genere terzo”.

[9] Ai sensi del comma 4 dell’art. 31, “[q]uando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato. (…)”.

[10] Il Tribunale di Bolzano dubita “della ragionevolezza del regime autorizzatorio previsto dalla normativa censurata, la quale impone un apprezzamento di natura giudiziale sulla necessità dell’intervento chirurgico che dovrebbe per contro essere demandato in via esclusiva ad una valutazione di natura medica e psicologica”. L’opzione legislativa di condizionare gli interventi chirurgici di adeguamento dei caratteri sessuali all’autorizzazione del tribunale non risponde, nella sua ottica, a necessità e proporzionalità, giacché tempi e costi della procedura giudiziale ostacolano l’affermazione del diritto del paziente che pure abbia ottenuto un’indicazione medica favorevole, dalla quale peraltro difficilmente il giudice potrebbe discostarsi.

[11] La Corte ritiene in particolare che il regime autorizzatorio sia irrazionale, “nella sua rigidità, laddove non si coordina con l’incidenza sul quadro normativo delle sentenze della Corte di cassazione e della Corte costituzionale del 2015”. Come noto, queste pronunce hanno escluso che le modificazioni dei caratteri sessuali richieste dalla legge ai fini della rettificazione anagrafica (cfr. art. 1, l. 164/1982) debbano necessariamente includere un trattamento chirurgico di adeguamento: quest’ultimo è soltanto un “possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico”. E la prospettiva è stata ribadita dal giudice delle leggi con una pronuncia del 2017, in cui si legge che agli effetti della rettificazione è necessario e sufficiente l’accertamento dell’“intervenuta oggettiva transizione dell’identità di genere, emersa nel percorso seguito dalla persona interessata”. Su questo tema, sia consentito rinviare a N. Posteraro, Transessualismo, rettificazione anagrafica del sesso e necessità dell’intervento chirurgico sui caratteri sessuali primari: riflessioni sui problemi irrisolti alla luce della recente giurisprudenza nazionale, in Rivista italiana di medicina legale, 2017, 1349 e ss. e alla bibliografia ivi richiamata.

[12] E in effetti, sottolinea come la giurisprudenza di merito sovente autorizzi l’intervento chirurgico contestualmente alla sentenza di rettificazione, e non prima e in funzione della rettificazione stessa.

[13] Cfr. Corte cost., 20 giugno 2017, n. 140.

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