La sentenza “Giudizio Universale” e il “minimo costituzionale” tra Costituzione e CEDU

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di Gianvito Campeggio

In Italia, le sentenze dei giudici devono essere motivate in base al c.d. “minimo costituzionale”. L’espressione è stata coniata a seguito dell’art. 54 del Decreto legge n. 83/2012, con riguardo all’impugnazione in appello, ma è stata fatta propria dalla Corte di cassazione, come traduzione pratica dell’art. 111 c. 6 della Costituzione.

In sostanza, il “minimo costituzionale” implica che le motivazioni giudiziali debbano essere: esplicite e chiare, comprensibili, e non contenere “manifeste e irriducibili contraddittorietà” (cfr. Corte cass., ordinanza n. 19765 del 20 giugno 2022 e sentenza n. 20068 del 13 luglio 2023). L’assenza di questo “minimo” produce nullità della decisione giudiziale.

Ora, se si legge la sentenza del caso climatico “Giudizio Universale”, si apprendono tre passaggi argomentativi della Giudice, secondo cui, nell’ordinamento italiano, non esisterebbe «una obbligazione dello Stato (di natura civile coercibile da parte del singolo) di ridurre le emissioni», dato che «l’interesse invocato… non rientra nel novero degli interessi soggettivi giuridicamente tutelati» e per l’esistenza di «atti, provvedimenti e comportamenti manifestamente espressivi della funzione di indirizzo politico, consistente nella determinazione delle linee fondamentali di sviluppo dell’ordinamento e della politica dello Stato nella delicata e complessa questione, indubbiamente emergenziale, del cambiamento climatico antropogenico».

È tutto chiaro, comprensibile e non irriducibilmente contraddittorio, come da “minimo costituzionale”? Non sembrerebbe. Per rendersene conto, basta porre quattro gruppi di domande alle tre motivazioni della sentenza.

1. l primo gruppo. Davvero in Italia difetta «una obbligazione dello Stato (di natura civile coercibile da parte del singolo) di ridurre le emissioni», quando l’art. 1173 Cod. civ. (espressamente intitolato “fonti – non interessi – delle obbligazioni”), stabilisce che le obbligazioni derivano, oltre che da contratto o fatto illecito, «da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico», in una prospettiva di apertura e integrazione, coerente con gli artt. 10, 11 e 117 c.1 Cost? Dunque gli accordi climatici internazionali, per di più accolti nell’ordinamento italiano con ordine di esecuzione (come nel caso della ratifica dell’UNFCCC e dell’Accordo di Parigi) che li traduce in fonti interne, non sarebbero “atti idonei” a far insorgere obbligazioni? Anche quando prevedono di far agire lo Stato «a beneficio della presente e delle future generazioni» (UNFCCC) e a «tutela e promozione dei diritti umani» (Accordo di Parigi)? E allora a che servirebbero? Forse sarebbero atti produttivi di obbligazioni verso altri ma … non verso gli italiani?

2. Il secondo gruppo. Come si fa a sostenere che «l’interesse invocato … non rientra nel novero degli interessi soggettivi giuridicamente tutelati», in un panorama “multilivello” di diritti fondamentali, che pacificamene includono il diritto alla vita e quello alla salute? In sostanza, vita e salute umana non sarebbero sufficienti a discutere davanti a un giudice di questioni climatiche? Se è così, evidentemente lo si potrebbe fare solo post mortem o in un altro pianeta (ma non nel “pianeta Italia”)?

3. Il terzo gruppo. Se davvero la questione del cambiamento climatico antropogenico è «indubbiamente emergenziale», come si fa a sostenere che non sussistano al suo cospetto «interessi soggettivi giuridicamente tutelati»? Forse che l’emergenza climatica non è un fatto pericoloso o dannoso e quindi ingiusto? Forse che essa non coinciderebbe con un “fatto idoneo” a produrre obblighi? Ma, allora, che razza di emergenza sarebbe? Una emergenza climatica … “non emergenza”, perché problema esclusivamente politico non riguardante la sorte (gli “interessi”) degli esseri umani? Anche qui… con possibili tutele solo post mortem?

4. Il quarto gruppo. Che cosa sono i «comportamenti manifestamente espressivi della funzione di indirizzo politico»? E che cosa sarebbe la «determinazione delle linee fondamentali di sviluppo dell’ordinamento»? Qui la formulazione giudiziale fa a pugni – oltre che con le teorie repubblicane dell’indirizzo politico – con gli artt. 7, comma 1, e 133 del Codice del processo amministrativo, dai quali è possibile distinguere gli “atti” dalle condotte “mediatamente” riconducibili al potere pubblico (Rosati, I comportamenti mediatamente riconducibili al potere), in continuità con quanto chiarito, una volta per tutte, dal Consiglio di Stato, con la distinzione tra “comportamenti” della pubblica amministrazione, invasivi dei diritti soggettivi del privato, sempre conoscibili dal giudice ordinario anche se lacunosi e omissivi, e “comportamenti” determinati dall’assolvimento di soli adempimenti pubblicistici (Cons. Stato Ad. Plenaria n. 7/2005). Del resto, i comportamenti mediatamente riconducibili al potere pubblico presuppongono evidentemente l’esercizio del potere, sicché essi non possono consistere in omissioni. Per tale motivo, l’art. 34 comma 2 del medesimo Codice processuale amministrativo scandisce che «in nessun caso il giudice [amministrativo] può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”. Al contrario, il giudice civile può pacificamente sindacare e sanzionare omissioni di comportamenti materiali, se produttivi di lesioni di diritti (cfr., di recente, Sezioni Unite dalla Corte di cassazione civile, n. 5668/2023). Stando, invece, alla sentenza romana, tutti i “comportamenti” sarebbero sempre «manifestamente espressivi della funzione di indirizzo politico», perché miranti alla «determinazione delle linee fondamentali di sviluppo dell’ordinamento». Insomma, l’indirizzo politico sarebbe presente ovunque e comunque. Solo da esso, non dalla persona umana e dai suoi diritti, dipenderebbe lo «sviluppo dell’ordinamento». Una ineccepibile lezione di autoritarismo.

C’è da fare un’altra precisazione, che non giova certo alla chiarezza. Leggendo la parte finale della sentenza di “Giudizio Universale”, si apprende comunque che, pur in assenza di “interesse”, gli attori – secondo la Giudice – possono impugnare il PNIEC (il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e Clima, fondamentale per affrontare le questioni climatiche), purché lo facciano davanti al giudice amministrativo. In pratica, si scopre che, sulle questioni climatiche, esisterebbe un interesse legittimo, tale da abilitare l’accesso al giudice solo amministrativo. Detto altrimenti, esisterebbe un interesse, ma … senza diritti soggettivi. Esisterebbe pure un “atto” che, nonostante tutti i «comportamenti manifestamente espressivi della funzione di indirizzo politico», sarebbe sindacabile davanti all’autorità giurisdizionale.

Secondo alcuni Autori, siffatta contraddizione avrebbe comunque una spiegazione, nel senso di riconoscere l’emergenza climatica non come urgenza di sopravvivenza sui beni vitali, bensì solo come interesse di gestione, tutelabile per via amministrativa (cfr. Tropea, Il cigno verde e la separazione dei poteri). 

Tale tesi, tuttavia, è stata definitivamente superata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, soprattutto con la decisione sul caso “Duarte Agostinho e altri c. Portogallo e altri 32 Stati” (39371/20). Il punto centrale, che getta luce sul tema, dimostrando l’incomprensibilità e inconsistenza delle motivazioni del Tribunale italiano, riguarda il modo attraverso cui argomentare l’assenza di responsabilità extracontrattuale dello Stato nella lotta al cambiamento climatico (responsabilità extracontrattuale perché comunque lesiva di diritti CEDU): questa assenza deve essere dimostrata attraverso prove normative, ossia attraverso espliciti richiami a fonti – costituzionali o legislative – che espressamente escludano tale responsabilità di diritto interno.

La Corte lo fa ai fini della verifica dell’esperibilità dei rimedi interni a tutela dei diritti umani presidiati dalla Convenzione. Ma questo è importante, per tre ragioni:

– perché presuppone che le questioni climatiche riguardino comunque diritti CEDU, con buona pace della tesi romana dell’inesistenza, nell’ordinamento italiano, di «interessi soggettivi giuridicamente tutelati»;

– perché integra il “minimo costituzionale” di chiarezza e comprensibilità delle motivazioni giudiziali italiane, nel campo specifico dei contenziosi climatici, con i requisiti di dimostrazione normativa, circa l’esistenza di fonti – o costituzionali o legislative – di esplicita esclusione della responsabilità extracontrattuale statale;

– perché l’esigenza delle deroghe solo legislative e solo espresse è contenuta pure nell’ordinamento italiano, all’art. 2740 Cod. civ., ora rinvigorito dalla lettura CEDU.

Ecco allora che, stando a questo “minimo” CEDU, nell’ordinamento italiano, tra artt. 1173 e 2740 Cod. civ. e art. 28 Cost., fonti – costituzionali o legislative – di esplicita esclusione della responsabilità extracontrattuale statale, in generale e, nello specifico, nella materia climatica, non è dato trovare.

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