di Salvatore Curreri
1. Uno dei problemi, anche qui sollevato, suscitati dalla proposta di riforma costituzionale sul c.d. premierato riguarda il voto degli italiani all’estero. Problema innanzi tutto rilevante sotto il profilo politico giacché, per quanto gli italiani all’estero che votano siano di solito pochi in termini sia assoluti (1,25 milioni nelle ultime politiche), sia percentuali rispetto agli aventi diritto (appena il 26,36% dei 4,7 milioni di elettori della circoscrizione Estero), il loro voto potrebbe comunque rivelarsi decisivo ai fini dell’esito del voto. Un epilogo giudicato intollerabile, specie da quanti, in modo più o meno esplicito, non hanno mai smesso di esprimere le loro riserve circa l’opportunità delle riforme costituzionali d’inizio secolo che hanno consentito a costoro di votare senza tornare in Patria.
Anche sotto il profilo giuridico il tema è estremamente delicato, poiché impone di bilanciare il principio costituzionale dell’eguaglianza del voto, sancito dall’art. 48.2 Cost., con le successive disposizioni riguardanti l’istituzione della circoscrizione Estero (art. 48.3) e l’assegnazione dei relativi seggi (artt. 56.4 e, implicitamente, 57.4 Cost.). Il che solleva, come vedremo, tutta una serie di questioni di non facile e immediata risoluzione.
2. Com’è noto, oggi gli italiani residenti all’estero che ne fanno espressa richiesta possono votare per corrispondenza eleggendo nella circoscrizione loro dedicata appena dodici parlamentari (otto deputati e quattro senatori), rispetto ai venti (dodici deputati e otto senatori) inizialmente previsti prima dell’approvazione della legge cost. n. 1/2020 sulla riduzione del numero dei parlamentari. Una diminuzione in termini sia assoluti che percentuali (dal 2,11 al 2%, rispetto al loro totale, con un leggero aumento – dall’1,9 al 2% per la Camera e una sensibile diminuzione – dal 2,53 al 2% – per il Senato). Tale sparuta rappresentanza parlamentare è conseguenza del fatto che, ai sensi degli artt. 56.4 e 57.4 Cost., la circoscrizione Estero è considerata completamente separata dalle circoscrizioni elettorali nazionali per quanto riguarda: sia, al numeratore, il numero dei residenti (gli italiani all’estero non sono inclusi nella popolazione nazionale perché “non abitanti della Repubblica”); sia, al denominatore, il numero dei seggi da eleggere in ciascuna delle due Camere, anche in questo caso prefissato anziché essere incluso nel numero complessivo dei seggi da assegnare. Così, ad esempio, se alla Camera dei deputati, in base al rapporto tra popolazione e seggi (392) nazionali, abbiamo un seggio ogni 117 mila abitanti circa, nella circoscrizione Estero, in base al rapporto tra residenti e seggi (8), abbiamo un seggio ogni 587 mila residenti circa. In definitiva, gli italiani all’estero eleggono molti meno deputati e senatori di quelli cui avrebbero diritto se, ai fini della assegnazione dei seggi spettanti alla loro circoscrizione, il loro numero fosse incluso in quello degli elettori nazionali anziché essere considerato a parte.
La dimensione di “riserva indiana” (Vigevani) in cui gli italiani residenti all’estero sono stati finora confinati verrebbe parzialmente a cessare se la riforma costituzionale sul premierato fosse approvata. Questa, infatti, prevede che alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio eletto sia assegnato un premio su base nazionale che garantisca loro la maggioranza dei seggi in ciascuna delle due Camere (proposto art. 92.3 Cost.). Di conseguenza gli italiani residenti all’estero, alla pari degli altri cittadini, non solo eleggerebbero il Presidente del Consiglio ma, con il loro voto contribuirebbero conseguentemente a determinare la maggioranza alla Camera e al Senato, andando così ben oltre il mero diritto di tribuna (come detto appena il 2% dei seggi totali) loro riservato dalla Costituzione.
3. Per neutralizzare tale effetto, quanti lo ritengono indesiderabile e illegittimo hanno formulato alcune proposte, tutte accomunate dall’obiettivo di sottostimare il voto degli italiani residenti all’estero.
Così, anche a tal fine, chi preferisce all’elezione diretta del Presidente del Consiglio la sua designazione indiretta propone di considerare eletto il Presidente del Consiglio che avrà ottenuto più seggi anziché più voti (più precisamente: collegato al raggruppamento politico che avrà ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi in entrambe le Camere, con eventuale ricorso al ballottaggio). In tal modo, infatti, il voto degli italiani residenti all’estero inciderebbe sull’esito delle elezioni nella misura ridotta dei seggi loro assegnati. Si tratta di una soluzione che, salvo quanto si dirà dopo, potrebbe risolvere il problema ma che, com’è noto, non trova il consenso dell’attuale maggioranza, la quale considera l’elezione diretta un punto irrinunciabile della sua proposta di riforma, al fine di evitare possibili “ribaltoni” della maggioranza elettorale scaturita dalle urne nonché un probabile protagonismo del Presidente della Repubblica nella gestione delle crisi di governo.
4. In alternativa, si propone di “sottopesare” il voto degli italiani residenti all’estero, attribuendogli un valore inferiore ad uno, in funzione dell’attuale rapporto intercorrente tra il numero di costoro e il numero complessivo dei seggi della circoscrizione Estero. In pratica – si sostiene – poiché il voto degli italiani residenti all’estero è sottorappresentato, dato che eleggono appena un quarto dei parlamentari cui avrebbero diritto in base alla loro consistenza numerica, il loro voto per il Presidente del Consiglio dovrebbe conseguentemente valere per un quarto, cioè 0,25. In altri termini il voto per il candidato Presidente del Consiglio di un italiano residente in Patria equivarrebbe a quattro voti degli italiani residenti all’estero.
Mi sembra una conclusione assolutamente inaccettabile sotto il profilo costituzionale perché pretenderebbe di tramutare l’attuale diseguaglianza del voto degli italiani residenti all’estero “in arrivo”, cioè in relazione al diritto dei cittadini di poter concorrere a parità di condizioni al risultato finale del voto (output), in un futura diseguaglianza del voto “in partenza” (Luciani), violando così il principio, sancito dall’art. 48.2 Cost., per cui ogni cittadino ha diritto a che il proprio voto, all’atto della sua espressione (input) sia pari agli altri: un uomo un voto, a nessuno nessun voto; a nessuno più di un voto; a nessuno meno di un voto.
4.1 La Corte costituzionale fin dalla sentenza n. 43 del 1961 ha affermato che “l’esigenza sancita dall’art. 48 Cost., che il voto… deve essere anche eguale, riflette l’espressione del voto, nel senso che ad essa i cittadini addivengano in condizioni di perfetta parità, non essendo ammesso né il voto multiplo, né il voto plurimo. Ciascun voto, quindi, nella competizione elettorale, contribuisce potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi…”. Il principio di eguaglianza del voto è dunque diretto «ad assicurare la parità di condizione dei cittadini nel momento in cui il voto viene espresso, senza riguardare le fasi anteriori o successive a tale momento» (v. sentenza n. 173/2005 ed i precedenti da questa richiamati). Il principio di eguaglianza, però, “non si estende, altresì, al risultato concreto della manifestazione di volontà dell’elettore. Risultato che dipende, invece, esclusivamente dal sistema che il legislatore ordinario, non avendo la Costituzione disposto al riguardo, ha adottato per le elezioni politiche e amministrative, in relazione alle mutevoli esigenze che si ricollegano alle consultazioni popolari” (sempre sentenza n. 43/1961), pena altrimenti l’incostituzionalità di qualunque formula elettorale diversa dal proporzionale puro.
Non pare dunque si possa far leva sulle in certa misura ineliminabili distorsioni che si producono nell’output elettorale, in questo caso tra elettori e seggi assegnati, per giustificare violazioni nell’input, attribuendo al voto di una certa categoria di cittadini un valore numerico non eguale ma inferiore a uno.
4.2 Diverse furono le ragioni che indussero il legislatore costituzionale a dare agli italiani residenti all’estero, rispetto agli altri concittadini, una rappresentanza parlamentare specifica (Fusaro), numericamente fissa, proporzionalmente inferiore e di natura separata (si rammenti che il testo originario dell’art. 8.1.b) legge 459/2001, prima della modifica del 2017, prevedeva che i candidati della circoscrizione Estero dovevano essere residenti ed elettori nella relativa ripartizione): il timore altrimenti di un eccessivo aumento del numero dei parlamentari; il non essere gli italiani all’estero soggetti all’obbligo di concorrere alla spese pubbliche (art. 53 Cost.), salvo eventualmente per gli immobili posseduti nel territorio italiano; il numero incerto di elettori, visto che gli italiani residenti all’estero possono pur sempre optare – per quanto sia raro – per il voto nel Comune nelle cui liste elettorali sono iscritti; l’elevato astensionismo (per quanto il gap con il dato nazionale vada riducendosi), visto che ad esempio nelle ultime politiche ha votato l’appena 26,6% degli aventi diritto; infine, e forse soprattutto, il timore che il voto non presidiato per corrispondenza avrebbe potuto non essere personale, libero e segreto come invece richiesto dall’art. 48.2 Cost. (cui il successivo terzo comma di fatto deroga).
4.3 Peraltro la possibilità che il peso del voto degli elettori possa dipendere dal numero dei seggi assegnati fu introdotta già con la riforma costituzionale del 1963 quando, nel fissare in trecento quindici il numero dei senatori, si stabilì che tutte le Regioni (tranne la Valle d’Aosta e poi il Molise) ne avessero almeno sette (ora tre), in tal modo sovrarappresentando quelle meno popolose. Il che significa, in pratica, che ad esempio in Basilicata (che elegge 3 senatori) si ha un seggio ogni 192 mila abitanti, mentre in Lombardia (che elegge 31 senatori) si ha un seggio ogni 313 mila. Nel caso della circoscrizione Estero la deroga al canone dell’eguaglianza è stata più vistosa, visto che il legislatore costituzionale ha cristallizzato una volta per tutte, e non solo nel “minimo”, il numero dei parlamentari “esteri” (Chiara).
Il fatto che la stessa Costituzione attribuisca al voto degli elettori delle Regioni meno popolose un peso maggiore può portare a concludere, riprendendo l’esempio appena fatto, che il voto degli elettori lucani per il Presidente del Consiglio dovrebbero percentualmente “pesare” di meno rispetto a quelli lombardi? Evidentemente no, perché la sotto o sovra rappresentazione di parti del territorio nell’attribuzione dei seggi è un effetto ineliminabile della scelta – all’atto di stabilire come eleggere i membri di un’assemblea rappresentativa – di suddividerli in circoscrizioni elettorali, anziché concentrarli in un collegio unico nazionale, così da valorizzare, seppur in termini non esclusivi ex art. 67 Cost., il legame degli eletti con il territorio, in questo caso con le Regioni e le Province autonome di cui si compone la Repubblica.
5. Queste considerazioni ovviamente non valgono, né possono mai valere, quando si tratti di eleggere non un organo collegiale ma una carica monocratica, ipotesi in cui qualsiasi meccanismo di sotto o sovra rappresentazione del voto non può che tradursi nella palese violazione della sua eguaglianza. Nell’elezione diretta, infatti, vengono per loro natura meno quelle distorsioni che, come detto, sono in certa misura ineliminabili in un’assemblea elettiva per cui qualunque alterazione del valore del voto non può che costituire una lesione del principio costituzionale che vuole il voto eguale per tutti. Ciò trova conferma, del resto, nel fatto che il voto degli italiani residenti all’estero non è affatto sottostimato nel suo peso quando si tratta di votare in un referendum abrogativo o costituzionale.
Anzi, sotto questo profilo, la possibilità degli elettori all’estero di eleggere, a pari titolo con gli altri concittadini il (futuro) del Presidente del Consiglio potrebbe contribuire a sanare in parte quella che è stata giudicata (Desantis) l’attuale inaccettabile violazione del principio d’eguaglianza, aggravata dalla riduzione del numero dei parlamentari. Tesi peraltro suffragata dal Rapporto finale della missione di valutazione elettorale dell’Ufficio per le Istituzioni Democratiche e i Diritti dell’Uomo (ODIHR) che, in relazione alle elezioni del 4 marzo 2018, ha rilevato criticamente “la grande discrepanza nel numero di votanti necessari per essere eletti, in particolare per il Senato e per la circoscrizioni estere”, rilevando la necessità di “prendere in considerazione la possibilità di aderire più strettamente alla quota elettorale per tutte le circoscrizioni del paese, comprese quelle estere, in linea con le buone pratiche internazionali in materia di uguaglianza di voto, fatta salva la tutela delle minoranze” (§ V).
Per questo motivo costituirebbe una ancor più grave violazione del principio d’eguaglianza escludere gli italiani all’estero dal voto per il Presidente del Consiglio, riservandolo ai soli italiani residenti nel territorio nazionale.
In ogni caso, la natura del problema impone che esso sia affrontato e risolto in Costituzione, anziché in sede di legge elettorale, poiché si tratterebbe in questo caso di parificare il voto degli italiani residenti all’estero a quello degli altri concittadini, non estendendo quel regime derogatorio che la stessa Costituzione ha previsto esclusivamente per la loro rappresentanza parlamentare.
In conclusione, quindi, il fatto che gli italiani residenti all’estero eleggano un numero estremamente ridotto di deputati e senatori non dovrebbe indurre a ridurre in pari misura percentuale il loro diritto di eleggere direttamente il Presidente del Consiglio e a determinare eventualmente, di conseguenza, la maggioranza parlamentare. Al contrario, il loro pieno diritto in tal senso potrebbe contribuire a farli uscire da quello stato di cittadini di serie B, dove finora il legislatore li ha confinati, con motivazioni forse non più sostenibili sotto il profilo del rispetto del principio d’eguaglianza di voto e della loro pari dignità sociale rispetto agli altri concittadini.