di Alfio Giaccardi
La distinzione tra questioni (meramente) ambientali e questioni (molto più complesse) climatiche sta diventando sempre più chiara, soprattutto grazie alla giurisprudenza europea.
Il punto di svolta è stato tracciato dalla Corte europea dei diritti umani nell’ormai nota sentenza Verein KlimaSeniorinnen. In questa decisione, il giudice di Strasburgo ha puntualizzato diversi concetti, spesso sovrapposti anche nella dottrina italiana (per es. in Zarro, Danno da cambiamento climatico e funzione sociale della responsabilità civile; mentre, correttamente sulla distinzione, Carducci, Cambiamento climatico (diritto costituzionale), Aggiornamento Digesto Utet).
In primo luogo, il diritto climatico identifica una disciplina “speciale” rispetto al diritto ambientale, per quattro ragioni:
– per il suo oggetto, rappresentato dal sistema climatico e non da singole matrici ambientali locali;
– per i contenuti della condotta regolata, riguardante una “due diligence” condizionata, in base agli artt. 2 UNFCCC e Accordo di Parigi, all’eliminazione definitiva e irreversibile delle situazioni di pericolo nel rispetto delle soglie concordate per neutralizzarlo;
– per il metodo, consistente in un approccio precauzionale che serva a promuovere la maggiore ambizione possibile per prevenire ed evitare danni e non solo per regolare rischi (come indicato dall’art. 3 n.3 UNFCCC);
– per le sue finalità tanto ecologiche quanto umane, dovendo essere attuata “a beneficio della presente e delle future generazioni” (come recita l’UNFCCC) e nella promozione dei diritti (Preambolo dell’Accordo di Parigi).
Questa “specialità”, dopo la citata decisione di Strasburgo, dimostra che il diritto climatico non consiste nell’esercizio di poteri “senza diritti”. Ecco perché essa impone al giudice di analizzare la causalità in modo diverso dal diritto ambientale: i nessi causali tra emissioni, riscaldamento globale, cambiamenti climatici ed effetti di questi ultimi, su ecosistemi e persone, vanno ricostruiti secondo le rilevazioni scientifiche dell’IPCC, in quanto solo queste spiegano come funzioni la causalità complessa dell’intero sistema e, di conseguenze, come operino materialmente le catene di effetti e danni, coinvolgenti anche il genere umano e le singole persone. Nel diritto ambientale, invece, si è soliti separare, com’è noto, le valutazioni “ambientali” (sulle sole matrici) da quelle “sanitarie” (sui soggetti umani). Ma “ambientale” e “sanitario” sono la stessa cosa nel sistema climatico.
Esiste, pertanto, una differenza ineludibile tra danni “ambientali” e danni “climatici”: qualsiasi analogia tra i due processi determinerebbe confusione e travisamento dei fatti, con risultati distorti nelle decisioni di tutela dei diritti.
Se queste precisazioni sono state fatte dalla Corte CEDU al fine di chiarire come debba essere svolto il contenzioso climatico nella prospettiva della tutela effettiva dei diritti umani in Europa (tutela effettiva che, proprio in ragione della causalità climatica complessa, non potrà che essere sempre e comunque intertemporale e intergenerazionale), un altro giudice è giunto alle medesime conclusioni, sul fronte dello scrutinio giudiziale delle settoriali valutazioni di impatto ambientale. Si tratta del caso inglese “R (Finch) v Surrey County Council & others [2024] UKSC 20”, deciso il 20 giugno 2024 dalla Corte Suprema del Regno Unito. La domanda, che ci si è posti in questo contenzioso “ambientale” (non “climatico”), è stata la seguente: la valutazione di impatto ambientale può ignorare la causalità climatica, a base di complesse catene di effetti e danni, diversi da quelli sulle singole matrici ambientali?
Il giudice inglese risponde di no, aggiungendo un secondo tassello di chiarimento sulla differenziazione tra questioni “ambientali” e questioni “climatiche”. Ancorché sia corretto constatare che diritto ambientale e diritto climatico coprano ambiti diversi di azione e responsabilità, questo non comporta, come conseguenza, che la disciplina “speciale” del diritto climatico possa essere ignorata da quella ambientale. Ne deriva che le valutazioni ambientali non possono prescindere da quanto previsto dal diritto climatico.
Del resto, la ragione di questa inclusione è molto semplice ed è di carattere biofisico: le singole matrici ambientali – oggetto delle discipline settoriali del diritto ambientale – sono parte integrante, per connessione naturale, del sistema climatico, sicché la tutela delle prime (le singole matrici) dipende dalla tutela dell’intero sistema, come disciplinata dal diritto climatico “speciale”, e gli impatti sulle prime incide inesorabilmente sul sistema.
Ignorare questa dipendenza significherebbe non tutelare alcunché: né quelle singole matrici né il sistema climatico. Anzi, significherebbe danneggiare ulteriormente il sistema climatico.
La sentenza inglese lo spiega molto bene in alcuni paragrafi fondamentali (i nn. 82, 93, 96, 97, 114 e 150): il “vero impatto” di un progetto o di un’opera non può non includere la considerazione dei suoi effetti sul sistema climatico, a maggior ragione se produce emissioni di gas serra; è metodologicamente sbagliato pianificare progetti e opere a livello locale, ignorando l’interazione del locale con il sistema climatico; non esiste alcun principio che proibisca o impedisca di effettuare un’analisi di impatto ambientale nella prospettiva includente i suoi effetti sul sistema climatico, non solo locale; l’interazione locale-globale-locale è un fatto di natura, che non può essere ignorato dalle autorità, che pianificano interventi sull’ambiente, e dai giudici, chiamati a sindacarli; questa interazione di natura impone di considerare i nessi causali nella prospettiva complessa del sistema climatico e non in quella meramente lineare e riduzionistica della singola azione sulla singola matrice ambientale. Di fatto, il ragionamento ricalca la logica a base del principio di diritto europeo DNSH (Do No Significant Harm), che integra appunto le valutazioni di mero impatto ambientale, in funzione delle interazioni del sistema climatico.
In conclusione, si può dire che le due recenti sentenze (CEDU e inglese) rendono finalmente evidente l’importanza di un approccio sistemico, che apra alla conoscenza e comprensione della complessità, qual è quella del sistema climatico. La complessità non è una somma di separate entità, oggetto di regolazione giuridica segmentata e settoriale, ma un insieme di elementi che si condizionano reciprocamente, dove la singola realtà, come quella ambientale, può essere valutata e compresa solo attraverso il tutto (il sistema climatico) e non viceversa.