di Giorgio Trivi
Il 21 maggio scorso, il Tribunale Internazionale per il Diritto del Mare (ITLOS) ha emesso all’unanimità il suo parere consultivo (Advisory Opinion) sulle obbligazioni climatiche degli Stati, ai fini della protezione dei mari. Il sito del Tribunale consente di ripercorrere tutta l’articolata, importante vicenda (cfr. Request for an Advisory Opinion submitted by the Commission of Small Island States on Climate Change and International Law).
È il primo tribunale internazionale a esprimersi sulla questione climatica, a poco più di un mese dalle storiche decisioni della Corte Europea dei Diritti Umani in tema di obblighi di mitigazione degli Stati membri (su tali decisioni, si v., da ultimo, il commento di L. Cardelli, Il Carbon Budget tra buona fede e indirizzo politico). La lettura congiunta dei due formanti giurisprudenziali permette di maturare alcune conclusioni definitive, in tema di obbligazioni climatiche; conclusioni destinate a demolire le retoriche delle difese statali nei contenziosi nazionali, fondate principalmente su tre assunti:
– quello, secondo cui la lotta al cambiamento climatico (ora emergenza climatica) si realizzerebbe solo attraverso la cooperazione interstatale e non in altro modo;
– conseguentemente quello, in base al quale l’obbligazione climatica non concretizzerebbe mai un potere-dovere dello Stato per la protezione del sistema climatico nazionale e la tutela sia degli ecosistemi che dei diritti umani, presenti all’interno del suo spazio sovrano;
– quello, ulteriormente conseguente, fondato sulla riduzione dei problemi climatici a questioni “atmosferiche”, come tali anch’esse non controllabili dal singolo Stato (tesi, quest’ultima, particolarmente cara all’Italia e puntualmente rivendicata in sede di procedimenti sanzionatori UE in tema appunto di inquinamento atmosferico, ma altrettanto puntualmente rigettata dalla Corte di giustizia europea: cfr., per esempio, la Causa C-573/19).
Dunque, con buona pace delle difese statali, sia le pronunce CEDU che, ora, l’autorevole Opinione ITLOS, offrono un panorama ben diverso di inquadramento della funzione di mitigazione climatica e lo fanno proprio in termini opposti: di potere-dovere statale di riduzione delle emissioni di gas serra. I punti salienti che si possono rintracciare sono almeno sette:
– la mitigazione climatica è funzione statale di diritto interno e non invece facoltà sovrana di cooperazione meramente internazionale;
– lo spazio di esercizio e controllo di questa funzione di mitigazione coincide con quello di ciascun singolo Stato;
– nei contenuti, invece, la mitigazione consiste in un obbligo di protezione del sistema climatico nazionale, in coerenza, tra l’altro, con il Preambolo e gli artt. 2 e 3 dell’UNFCCC e art. 2 dell’Accordo di Parigi, a tutela sia degli ecosistemi che dei diritti umani;
– infatti, dalla mitigazione climatica dipende la lotta a tutti gli altri degradi ambientali che affliggono il pianeta, a partire dall’inquinamento che, lungi dall’essere un fenomeno solo “atmosferico” è invero l’altra faccia dell’emergenza climatica (come la scienza da tempo va spiegando: cfr. C. Mangia e altri, Crisi climatica e inquinamento atmosferico);
– in quanto funzione statale di diritto interno, essa soggiace ai limiti costituzionali derivanti dalla tutela dei diritti e dell’ambiente;
– e tale tutela esige un dovere di diligenza e buona fede (Due Diligence, nel linguaggio ITLOS) nell’individuare le misure tecniche necessarie a far fronte all’emergenza, grazie anche al ricorso alle conoscenze scientifiche, anche in ordine ai tempi di intervento a garanzia dell’efficacia della salvaguardia di ecosistemi e diritti;
– per cui, la mitigazione climatica non è affatto funzione “politica” tout court, sostanziando invece un’attività decisionale a contenuto finalizzato alla rimozione del pericolo (l’emergenza climatica con i suoi effetti di inquinamento ecosistemico, nei tempi stretti della degenerazione del sistema).
Nel contesto italiano, queste conclusioni producono almeno due conseguente significative.
La prima è di carattere fattuale, prima ancora che normativo. Se è vero che la funzione di mitigazione climatica serve anche a incidere sulle diverse forme di inquinamento degli ecosistemi, allora essa funzione è comunque sindacabile dal giudice, visto che un giudice “naturale” in materia di inquinamento esiste ed è quello civile, ai fini anche della tutela del diritto alla salute (in tal senso, si veda l’importante decisione della Corte di cassazione SS.UU. 5668/2022).
La seconda, invece, è di natura esclusivamente normativa e più strettamente costituzionale. Una parte minoritaria della dottrina italiana, seguita – com’è noto – dal Tribunale civile di Roma nel caso climatico “Giudizio Universale”, ha sostenuto la tesi, enunciata ma mai dimostrata, della insindacabilità giudiziale della mitigazione climatica, per tre ragioni:
– perché la mitigazione consisterebbe comunque nell’«esercizio del potere legislativo in materia di regolazione delle emissioni»,
– perché dunque esisterebbero «fonti legislative di primo e di secondo livello in materia di riduzione delle emissioni»,
– perché, consequenzialmente, l’intervento giudiziale si tradurrebbe nell’«annullamento di una serie di fonti, di primo e secondo grado» (i virgolettati si leggono in G. Puleio, L’obbligazione climatica degli Stati nel sistema CEDU, e si ritrovano, riprodotti quasi alla lettera, nella citata sentenza “Giudizio Universale”).
La tesi non solo non trova riscontro nel sistema normativo italiano, dato che non esiste né fonte primaria né fonte secondaria in “materia di riduzione delle emissioni” (tant’è che né la dottrina né il Tribunale di Roma provvedono a fornirne documentazione), ma addirittura è smentita dall’art. 35, c. 2 lett. c), del D.lgs. 300/1999, come modificato dal D.l. 22/2021, convertito con modificazioni dalla l. 55/2021. In tale disposizione, si statuisce che al Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE) sono attribuite le funzioni e i compiti, spettanti allo Stato, relativi alle seguenti “materie”:
– politiche per il contrasto dei cambiamenti climatici;
– pianificazione in materia di emissioni;
– difesa e assetto del territorio con riferimento ai valori naturali e ambientali.
La legge dunque esiste, ma non in “materia di riduzioni delle emissioni”, bensì in “materia” di attribuzione ministeriale delle funzioni pubbliche di mitigazione, in coerenza, evidentemente, con gli artt. 23, 95 e 97 della Costituzione. E questa legge, dopo le pronunce CEDU e l’Opinione ITLOS, non potrà non essere interpretata in base agli inquadramenti giuridici, da quei Giudici fornite (si v., per il rapporto tra giudici comuni, interpretazioni CEDU e altre interpretazioni di diritto internazionale, le decisioni, tra le tante, della Corte costituzionale 7/2024, 182/2021, 43/2028, 68/2017).
Ecco, allora, che, alla luce proprio degli inquadramenti definiti dalle decisioni CEDU e ITLOS, la suddetta funzione di mitigazione, soggiacendo alla Due Diligence basata sulla scienza a beneficio degli ecosistemi e dei diritti, anche in Italia, invece di essere interpretata come attività (presuntivamente legislativa) “libera nei fini e nei modi”, dovrà essere rubricata in termini di potere-dovere di protezione del sistema climatico nazionale, tra l’altro esattamente come già avviene per la “materia” dell’inquinamento, con tanto di possibilità di tutela giudiziale verso lo Stato e le sue articolazioni organiche (e sarebbe assurdo ammettere siffatta conclusione per la “materia” dell’inquinamento, per poi negarla nella “materia” delle emissioni climalteranti, che dell’inquinamento sono, come ci dicono ITLOS e scienza, l’altra faccia della stessa medaglia).