L’Europa disorientata – Erni Levy, il fascismo e la guerra

Print Friendly, PDF & Email

di Claudio Stefano Tani

André Schwarz-Bart (L’ultimo dei giusti, 1959, Editions du Seuil, Parigi, Ed. It. Feltrinelli 1960) ci ha raccontato che il genocidio di un popolo comincia molto prima del suo atto finale. La storia del bambino Erni Levy “morto sei milioni di volte” ad Auschwitz, a Mautausen, a Bergen Belsen e nel resto d’Europa, comincia nel 1185 quando al grido “di Dio lo vuole” la folla si sparge sul sagrato e le anime ebree rendono conto dei loro delitti a quel Dio nel cui nome, impugnando il crocifisso, il vescovo di York “prometteva salva la vita agli ebrei che avessero riconosciuto la Passione di nostro dolcissimo Signore Gesù Cristo”.

1. Il genocidio non è un atto, è un processo storico che non si consuma in una sola epoca. L’olocausto non inizia con le leggi razziali e la notte dei cristalli, non è un atto isolato, ma il culmine di un processo iniziato secoli prima. La particolarità che rende unica la Shoah non è soltanto di essere giunta all’apice dell’evoluzione di un’ideologia della sopraffazione, della distruzione dell’altro, della violenza quotidiana, della predicazione di morte, di una nuova lingua del potere, ovvero al tramonto di una fase storica di cui la brutale amicizia tra Mussolini e Hitler (si legga Frederik William Deakin, La brutale amicizia, 1962, Ed.it. Einaudi 1963, 1990) che ha caratterizzato la storia d’Italia e Germania nella prima metà del novecento, ha rappresentato la più efferata e vigliacca manifestazione.

La Shoah culmina con l’annientamento programmato di un popolo, o etnia o gente, che è la triste esclusiva dei campi tedeschi dove si realizza il principio nazista come motivazione che ha in sé stessa il fine ultimo di rendere accettabile l’annientamento da parte delle stesse vittime, le quali dovevano venire convinte di non poter avere ragioni per ribellarsi e sottrarsi alla morte programmata. Il raggiungimento degli scopi della pianificazione dello sterminio non è attribuibile soltanto all’efficienza della burocrazia te2.desca. La IBM, sin dall’avvento del nazismo, tramite la filiale tedesca DEHOMAG (Edwin Black, L’IBM e l’olocausto, Rizzoli, 2001) e dopo l’invasione tramite le filiali in Austria, Cecoslovacchia e Polonia, quindi dopo  il 1940 attraverso la filiale svizzera, aveva fornito  la tecnologia delle schede perforate per il censimento in tutta Europa degli ebrei, la programmazione dei rastrellamenti e del trasporto ferroviario, del funzionamento delle camere a gas e dei forni crematori;  ogni campo di concentramento aveva il suo programmatore IBM.

Chi ha letto da André Schwarz Bart a Primo Levi sa che era questa l’enormità della tragedia dei campi tedeschi, incomparabile con qualsiasi altra; non con l’odio della rivalità tra popoli generato da odi razziali, guerre o lotte per la sopravvivenza (come ci ha raccontato Lev Tolstoj, Chadzi Murat ed. it. Voland, 2020, sul conflitto tra russi e ceceni) o da ambizioni territoriali e nemmeno, come fu per i gulag staliniani, fondata su motivi inaccettabili o sospetti inventati e indimostrabili per giustificare la persecuzione di supposti “nemici del regime”.

La distorsione della lingua alle finalità del nazifascismo ha svolto un ruolo fondamentale. La lingua del fascismo e del nazismo che ha distrutto l’Europa è stata l’esperienza della distruzione della parola, il veleno di una lingua del potere che, adattata ai tempi, purtroppo ha lasciato il segno profondo nella società e nella politica. Il virus è stato coltivato in Italia e in Germania e le varianti si sono diffuse in tutto il mondo. Il lascito più duraturo del fascismo e del nazismo è l’ideologia della sopraffazione, il rifiuto di riconoscere che la verità e i mezzi per comprenderla non sono monopolio privilegiato di nessuno. Lo scopo finale è quello di farci vivere tutti in un regime di apartheid.

2. Ogni lingua si presta a tutte le esigenze umane, alla ragione e al dubbio, al sentimento, al dialogo e alla comunicazione, al soliloquio e alla preghiera, all’implorazione, al comando e all’esecrazione. La lingua del fascismo e del nazismo, vecchio e nuovo, si presta soltanto al comando e all’esecrazione, all’insulto e all’umiliazione, allo scherno verso i deboli. Victor Kemperer nel suo tragico diario pubblicato nel 1947 nella DDR e postumo nel 1966 nella RFT (Lingua Tertii Imperii – La lingua del Terzo Reich – Taccuino di un filologo, titolo originale LTI, Notizbuch eines Philologen, Ed. It. La Giuntina, 1998) ha spiegato che la LTI è la lingua povera dell’inganno pretesco e del fanatismo di massa, del tribuno che incita una folla che lo saluta con la mano tesa, che vede in ogni altro pensiero un inganno, un complotto contro la propria nullità.

L’erba cattiva scaccia quella buona e oggi sta crescendo la lingua, ammodernata, espressione dell’antitesi tra democrazia e populismo, dell’insofferenza di ogni forma di rappresentanza, sacrificata sull’altare di una governabilità aspirante alla dittatura di leader propugnatori del rifiuto di ogni sistema di mediazione sociale e istituzionale. In fondo, prima degli aspetti già criticati della scrittura caotica e pasticciata del testo di riforma della Costituzione, la questione politica, non soltanto del premierato, ma di tutte le riforme costituzionali ed elettorali degli ultimi decenni, sta tutta in questa aggiornata antitesi tra democrazia e populismo.

3. Anche la storia è sempre usata come un’arma di guerra. Oggi Zelensky e Putin (come evidenzia Benoît Bréville, L’histoire comme arme de guerre, Le Monde diplomatique, n.4, 2024), eccellono in questo gioco. Per il primo le tragedie del XX secolo (la carestia del 1933, il terrore staliniano, le guerre in Afghanistan, in Cecenia e in Siria) evocano l’invasione del suo paese e servono, a seconda dell’uditorio, ad adattare ai suoi scopi la storia altrui (l’attacco a Pearl Harbor davanti al Congresso degli Stati Uniti, la guerra civile e il massacro di Guernica davanti al Parlamento spagnolo, l’invasione della Cecoslovacchia o la primavera di Praga al Parlamento europeo). Putin fa la stessa operazione quando evoca la grande guerra patriottica, attacca gli accordi di Monaco del settembre 1938 quando Regno Unito e Francia si accordarono con la Germania nazista abbandonando al Terzo Reich parte della Cecoslovacchia; ovvero rievoca l’intervento franco-britannico a Suez del 1956, la guerra del Vietnam iniziata negli anni ’60, o quella del Golfo del 1990/1991.

La storia, va da sé, è usata come arma di guerra anche da Israele. Si aggiunge un passato carico di ragioni profonde: il dramma di un’intera civiltà ferita e di intere generazioni sterminate, la questione dell’identità ebraica, che oggi è sotto la pressione di un nazionalismo aggressivo, di un sionismo profetico di natura religiosa che ha soppiantato quello laico, di orientamento laburista  di Ben Gurion, con l’idea che soltanto la Grande Israele potrà risolvere la questione ebraica e che, a prescindere dal segno politico di qualsiasi governo, sfrutta il capitale religioso della diaspora.

La storia viene trascesa nel momento in cui la libertà di ogni singolo ebreo, ovunque si trovi, si identifica con la liberazione globale di tutto il popolo ebraico in una relazione etica in cui nazionalismo e religione si fondono. Con tale assunto è arduo, a volte impraticabile, qualsiasi esercizio della ragione. Quale argomento è razionalmente opponibile non a un singolo governo di destra o di sinistra, ma a una società nel suo complesso convinta del proprio millenario diritto a riconquistare una terra e una patria in Palestina, anche espropriando con la violenza le case e cacciando gli abitanti, quale unico mezzo per cambiare il proprio destino?

Nella guerra a Gaza e i Cisgiordania il problema non è soltanto un governo che usa la guerra per la propria sopravvivenza politica, perché questo accade ovunque, ma è la società israeliana che resiste a qualsiasi autoesame della propria storia, esclusi alcuni intellettuali dentro e fuori Israele, dai più radicali (Ilan Pappé), ai più lucidi (Noam Chomsky), ai più moderati (David Grossman) che hanno molta più influenza all’estero che in Israele.

Non è quindi la rimozione di questo o quel pezzo della scacchiera governativa e neppure la sconfitta elettorale del governo che porterà la pace duratura, se non c’è anche un esame di sé da parte della società israeliana, in un contesto di guerra in cui non è diffamante definire pulizia etnica l’espulsione programmata, manu militari, da un territorio di milioni di persone. In questo lungo periodo storico, di fatto, il più isolato è stato il popolo palestinese e non lo Stato di Israele sotto la protezione delle più grandi potenze, oltre che dell’arsenale militare tra i più potenti.

4. Sull’altro versante della nazione palestinese, chi ha letto Edward Said (da Orientalismo a La questione palestinese) sa bene quale sia stato e sia tuttora caro il prezzo per affrancarsi dal fanatismo religioso, in particolare dal fondamentalismo islamico, anche per gli altri popoli della regione, in una interminabile guerra in cui la libertà della Palestina è stata sempre sacrificata ai progetti delle grandi potenze, alle ambizioni di predominio e agli equilibri tra le autocrazie dell’area.

E’ il prezzo pagato in una lunga storia iniziata prima della nakba del 1948, che l’attuale Governo israeliano vuole portare a compimento definitivo, essendo ormai questo il fine ultimo della guerra a Gaza e in Cisgiordania; una storia in cui nessuna dismisura perpetrata contro la Palestina è stata punita dal diritto internazionale. Sinora l’unico nostos negato è stato quello dei palestinesi. Tutta la politica internazionale ha operato verso i palestinesi in modo da distruggere la società e la nazione più realmente laica della regione.

Il diritto internazionale anche in questa tragedia ha dimostrato la sua impotenza quando si tratta di escludere l’uso della forza. L’idea stessa della sicurezza collettiva mai è stata tradotta in obblighi legali imponibili alle grandi potenze. Soltanto se queste sono d’accordo tra loro, con o senza sicurezza collettiva, non ci sono guerre. Basterebbe questo, che Raymond Aron definì l’imperfezione essenziale del diritto internazionale (Raymond Aron, Pace e guerra tra le nazioni, Ed. Comunità 1983, 817 ss.) per spiegare tutta l’ambiguità e la contraddittorietà del diritto internazionale nella questione israelo-palestinese e perché Israele ha potuto violare sistematicamente tutte le risoluzioni dell’ONU.

5. Per l’Europa il pericolo più grande è costituito dalle spinte irrazionalistiche che l’hanno invasa a cavallo degli anni duemila e che dominano anche riguardo alla guerra e all’enormità dei massacri in corso in Ucraina e a Gaza. I mutamenti intervenuti in Europa hanno provocato fratture politiche fra Stati dominati dalla pulsione all’affermazione della propria sovranità, che ha ostacolato qualsiasi politica comune diversa dalla vendita di armi e munizioni.

Viene in mente Robert Musil (Europa inerme, 1922, Ed. it. Moretti & Vitali, 2015) sulla “bancarotta metafisica” dell’Europa all’indomani della prima guerra mondiale, in balia di una politica e di governi che traducono i crimini in benefici per sé stessi e per le classi dominanti e di una dirigenza politica europea selezionata e strutturata all’esercizio per delega di un enorme potere senza responsabilità. Per dirla più chiara, con le parole di Robert Musil, la politica come viene concepita oggi è quella “dei due tipi dominanti dell’uomo pratico, il commerciante e il politico… che specula al ribasso con gli uomini, che si ispira alla Realpolitik… che non fa leva sulla convinzione, bensì soltanto sulla coercizione e sull’astuzia” (Europa inerme, cit. 35). Gli esiti della crisi all’indomani del 1921 non sono un rituale richiamo.

6. Oggi l’accesso alle fonti internazionali offrirebbe la possibilità di una comprensione molto più profonda e bilanciata della storia dell’evoluzione e del punto di arrivo dei rapporti con il resto del mondo. In Italia invece domina l’asfissia del dibattito. Anche di fronte alla tragicità degli avvenimenti (la guerra che dovrebbe dominare ogni pensiero) e alla vastità dei fenomeni globali (emigrazioni, crisi climatica e ambientale) le reazioni che si raccolgono danno il quadro di una classe politica imbarazzante, dedita principalmente ai propri affari, individuali o di gruppo, assorbita delle proprie scoraggianti rivalità, comunque in fuga dalla realtà.

E sì che su ogni argomento la quantità e la varietà di analisi delle fonti internazionali oggi a disposizione e la lettura di qualche libro dovrebbero aiutare a capire le voci che provengono da mondi diversi dal nostro. Prevalgono, al contrario, salvo rare eccezioni, l’approssimazione e le trappole dei luoghi comuni, sostenute dalla tradizione spesso dissimulatrice del giornalismo italiano, lontana dalla cronaca autentica e dalla verità essenziale; ovvero l’imperturbabile distacco, il sapere sterile che garantiscono sempre un’ottima via d’uscita in qualunque circostanza, un portemanteau utile per qualsiasi vestito politico. Vince sempre il pregiudizio che impedisce l’espressione della ragione e dell’intelligenza e alimenta le menzogne convenzionali. Prevale la cultura opinionistica che soffoca la cultura umanistica, scientifica e sociopolitica. I media sono invasi da opinionisti su mandato, in una recita ripetitiva, scomposta, ad uso del populismo ingenuo della “brava gente, ma con poco cervello”, per dirla con Vasilij Grossman (Vita e destino, ed. it. Adelphi, 2022, 71), soverchiata dalle fatiche della vita quotidiana, facilmente manipolabile.

A uscirne profondamente mortificata è proprio quell’identità culturale europea, nell’abbandono di quella storia iniziata alla fine di ottobre del 1647 nella chiesa presbiteriana di Putney, nella periferia di Londra dove cittadini della più vasta estrazione sociale (soldati e ufficiali, artigiani, nobili, contadini, agricoltori e proprietari terrieri) un secolo e mezzo prima dell’89 francese, due secoli prima del ’48 europeo e quasi tre secoli prima della vittoria delle democrazie dopo la seconda guerra mondiale, posero le categorie fondamentali di una società non più basata sul vincolo dinastico, ma su un contratto liberamente stipulato tra cittadini (l’Agreement of the people) e su in ordine costituzionale garantito; il principio della sovranità popolare e del suffragio universale fondato sul valore dell’uguaglianza politica; la giustizia fiscale; la teoria della separazione dei poteri, del primato del legislativo e dell’autonomia del giudiziario.

In poche parole quella “modernità” che oggi in Europa e in Italia è rifiutata dall’interno. In tutta Europa e in Italia, come in ogni democrazia, per dirla con Todorov (I nemici intimi della democrazia, Garzanti, 2012), i nemici più pericolosi non provengono dall’esterno, dai fondamentalismi religiosi e dalle dittature che li esprimono, ma dall’interno, dal populismo e dal liberismo senza freni.

Please follow and like us:
Pin Share
Condividi!

Lascia un commento

Utilizziamo cookie (tecnici, statistici e di profilazione) per consentire e migliorare l’esperienza di navigazione. Proseguendo con la navigazione acconsenti al loro uso in conformità alla nostra cookie policy.  Sei libero di disabilitare i cookie statistici e di profilazione (non quelli tecnici). Abilitandone l’uso, ci aiuti a offrirti una migliore esperienza di navigazione. Cookie policy

Alcuni contenuti non sono disponibili per via delle due preferenze sui cookie!

Questo accade perché la funzionalità/contenuto “%SERVICE_NAME%” impiega cookie che hai scelto di disabilitare. Per porter visualizzare questo contenuto è necessario che tu modifichi le tue preferenze sui cookie: clicca qui per modificare le tue preferenze sui cookie.