di Serena Buccino
Esistono linee guida da seguire per una “scuola costituzionalmente orientata”? La vicenda delle ultime settimane, imperniata sull’interlocuzione tra il Ministro dell’Istruzione e del merito e l’Istituto comprensivo del Comune di Pioltello (MI), richiede riflessioni a doppio binario, su un piano normativo prima che istituzionale.
Con delibera n. 14 del 19 maggio 2023, il Consiglio d’Istituto della Scuola “Iqbal Masih” ha incluso, tra le sospensioni delle attività didattiche del calendario scolastico, il giorno coincidente con la festa di fine Ramadan.
Sul punto, è opportuna una prima disamina normativa, necessaria a dipanare i dubbi circa la fondatezza dei supposti profili di illegittimità della delibera. La deroga deliberata dal Consiglio d’istituto si pone in piena coerenza con l’art. 5, comma 2, del D.P.R. 8 marzo 1999 n. 275, recante la facoltà in capo agli istituti scolastici di apportare, nell’esercizio della propria autonomia, degli adattamenti rispetto alla “determinazione del calendario scolastico”, sussumibile, ai sensi dell’art. 138, comma 1, lett. d) del D. Lgs. n. 31 marzo 1998, n. 112, alle funzioni amministrative delle Regioni. Tanto è vero che, con delibera del 20 aprile 2023, la Giunta della Regione Lombardia aveva chiuso il calendario didattico per l’anno scolastico 2023/24 con la consueta chiosa secondo la quale: “Le Istituzioni scolastiche e formative, nel rispetto del monte ore annuale previsto per le singole discipline ed attività obbligatorie, possono disporre gli opportuni adattamenti del Calendario Scolastico d’Istituto – debitamente motivati e deliberati – comunicandoli tempestivamente alle famiglie entro l’avvio delle lezioni.”
A discapito della linearità e della conformità al criterio di competenza dei due provvedimenti, a pochi giorni dalla Pasqua cristiana, il Ministro dell’Istruzione e del merito, On. Valditara, non limitandosi a prendere le distanze dalla scelta adottata dall’Istituto scolastico in parola, paventava un asserito attentato alle radici costituzionali dello Stato italiano e avviava, di conseguenza, un procedimento di verifica delle motivazioni a conforto della determinazione derogatoria, sostenendone la dubbia compatibilità con l’ordinamento. Sulla scorta di simili argomentazioni, altri deputati avrebbero condiviso la preoccupazione del Ministro per il presunto “processo di islamizzazione” che la chiusura scolastica per la fine del Ramadan implicherebbe, a cui si accompagnerebbe, per converso, un arretramento della propria identità nazionale, offendendo così l’assetto valoriale auspicato per l’Italia e per l’Europa.
A fronte di una simile reazione, sia il dirigente dell’Istituto scolastico, sia la sindaca del comune di Pioltello hanno prontamente evidenziato come la scelta fosse giustificata dalla presenza cospicua, pari al 40%, di studenti di religione musulmana (su un totale di circa 1.300 iscritti), i quali, stante l’importanza della ricorrenza in questione, si sarebbero verosimilmente assentati dalle lezioni del giorno 10 aprile 2024, impattando così sull’efficienza dell’offerta formativa. Invero, muovendo dal principio di uguaglianza, potrebbe dirsi che sarebbe stata una scelta di segno opposto – ossia il mantenimento dell’ordinario calendario didattico – a segnare una torsione del principio di ragionevolezza a contrario, stante l’inefficacia, l’inefficienza e/o il cattivo andamento ex art. 97 Cost. dell’amministrazione scolastica, se si fossero effettivamente tenute delle lezioni per classi notevolmente decimate della maggior parte dei discenti.
Il parametro quantitativo fornito come giustificazione dai referenti scolastici, certamente necessario ad integrare le motivazioni a conforto dell’adattamento deliberato dal Consiglio d’Istituto, merita tuttavia di esser letto come uno dei dati di un’interpretazione che dovrebbe essere sistemica e, cioè, improntata a un approccio inclusivo, integrazionista, pluralista, come si addice ad una scuola “costituzionalmente orientata”. D’altro canto, è lo stesso DPR n. 275 del 1999 che, all’art. 3, comma 2, stabilisce che il Piano dell’offerta formativa debba “riflette[re] le esigenze del contesto culturale, sociale ed economico della realtà locale”.
Non a caso, presso alcuni paesi a bassa densità demografica di Regioni meridionali, è prassi consolidata la chiusura degli Istituti comprensivi scolastici in occasione, ad esempio, di sagre o festività folkloristiche locali. In tali casi, considerato il potenziale assenteismo di massa, vuoi per motivi di viabilità, vuoi per l’impegno attivo degli studenti nell’organizzazione delle attività di tali giornate, particolarmente sentite a livello locale, le scuole sono solite disporre la sospensione delle attività didattiche, proprio in virtù della discrezionalità derivante dalla loro autonomia. Eppure, nessun rilievo è mai stato mosso alla meritevolezza dei motivi di queste scelte adottate. Deve, dunque, dedursi che diversa è la dignità attribuita alle tradizioni in base alla provenienza delle stesse, confermando un atteggiamento, da un lato, di idiosincrasia verso i costumi allogeni e, dall’altro, di difesa verso le consuetudini interne da preservare.
È a questo punto necessario sottolineare come “le pratiche e l’osservanza dei riti” siano espressamente contemplate dall’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dall’art. 9 CEDU, quale declinazione tipica della libertà di pensiero, di coscienza e di religione, oltre che della libertà di culto costituzionalmente garantita dall’art. 19 Cost.
Inoltre, per quanto concerne l’asserita violazione della competenza regionale da parte del Consiglio d’Istituto, la tenuta dell’argomentazione del Ministro appare fragile. Sul punto, il TAR Veneto (III sez., sent. 330/2009), interrogato sul potere di adattamento e sulle eventuali variazioni delle giornate di vacanza giustificate da specifiche situazioni di carattere locale, ha posto l’accento sulla difficoltà di individuare un criterio certo per reputare se dette variazioni costituiscano “un legittimo adattamento” ovvero una lesione dei poteri organizzativi della Regione. La conclusione cui è giunto il Giudice Amministrativo ha riconosciuto alle istituzioni scolastiche importanti margini discrezionali di discostamento dal calendario fissato a livello regionale, in quanto, fermo restando il puntuale obbligo di motivazione della delibera sugli adattamenti, il solo limite che è possibile dedurre dalle norme de quibus è quello relativo al monte ore annuale di attività didattica – pari a 200 giorni – e alla distribuzione dell’attività didattica in non meno di cinque giorni settimanali.
Altresì, a fornire un ausilio interpretativo guardando al fine della normativa, soccorre l’art. 21, commi 8 e 9, della L. n. 59 del 1997, che, nel delineare le finalità cui l’autonomia scolastica deve essere preordinata, recita: “L’autonomia organizzativa è finalizzata alla realizzazione della flessibilità, della diversificazione, dell’efficienza e dell’efficacia del servizio scolastico, alla integrazione e al miglior utilizzo delle risorse e delle strutture, … al coordinamento con il contesto territoriale. Essa si esplica liberamente, anche mediante superamento dei vincoli in materia di unità oraria della lezione, […] secondo finalità di ottimizzazione delle risorse umane, finanziarie, tecnologiche, materiali e temporali, fermi restando i giorni di attività didattica annuale previsti a livello nazionale […] nel rispetto della libertà di insegnamento, della libertà di scelta educativa da parte delle famiglie e del diritto ad apprendere.”
Ebbene, da tutte queste fonti emerge chiaramente la valorizzazione del legame con il territorio, quale espressione, se si vuole, anche dei principi costituzionali di differenziazione e adeguatezza ex art. 118 Cost., preordinati proprio all’esaltazione, invece che alla penalizzazione, delle peculiarità territoriali.
Altrettanto chiaramente emerge, inoltre, lo spirito pluralistico che dovrebbe animare l’Istituzione scolastica, tanto più se si vuol “scomodare” il tanto delicato quanto scivoloso principio di laicità dello Stato italiano. Il fattore religioso muove, infatti, dalla dimensione personale della spiritualità per esprimersi nei vari ambiti esistenziali e politico-sociali in cui il soggetto è calato. Di qui, la proiezione dallo spazio privato a quello pubblico investe in tutta la sua problematicità la condotta dei pubblici poteri, chiamati a farsi rappresentanti dell’eterogeneità. Se si sposa, infatti, la qualificazione dell’Italia come Stato laico (Corte cost., sent. n. 203/1989), ne discende un vincolo di modellare la condotta degli apparati pubblici ad un ideale di neutralità. Neutralità che, per uno Stato dall’innegabile ed insopprimibile matrice cattolica come l’Italia, non potrà che manifestarsi in un bilanciamento sempre dinamico tra salvaguardia delle radici identitarie e garanzia del pluralismo.
Sennonché, nel momento in cui l’apertura all’espressione religiosa altrui necessita di un arretramento della cultura dominante per porsi sullo stesso piano, incombente diviene il timore della contaminazione derivante dalla sintesi culturale. Di qui, l’equivoco in cui è facile cadere è credere che il processo di secolarizzazione imponga una negazione o ripudio intransigente della propria storia religiosa, quando invece alla logica della dominanza andrebbe sostituita quella della giustapposizione.
La laicità istituzionale non esige, infatti, una decontaminazione delle appartenenze dallo spazio pubblico, ma piuttosto un serio impegno a coniare un gergo pluralistico, in cui le diverse identità possano convivere, senza schiacciarsi. In tale prospettiva, apprestare la maggior tutela alla libertà di religione ex artt. 3, 8, 19 Cost. si rivela la più autentica declinazione del principio di eguaglianza sostanziale, quale architrave del costituzionalismo moderno. Così facendo, a fronte di un’eterogeneità di identità pulsanti, “l’uguaglianza autenticamente laica dovrà presentarsi come culturalmente equi-rappresentativa ed equi-responsiva” (M. Ricca).
Ciò premesso, il secondo ordine di riflessioni va svolto sul piano politico-istituzionale. L’uso strumentale e condizionante di argomentazioni religiose appare congeniale a mantenere un approccio politico prudenziale, conservatore e volto, tra le altre cose, a consolidare l’asimmetria religiosa suggellata agli artt. 7 e 8 Cost. Da questo punto di vista, le aule scolastiche si sono da sempre confermate quali arene privilegiate per affrontare le questioni relative alla laicità: dall’annosa querelle sull’esposizione del crocifisso, alla obbligatorietà dell’insegnamento della religione cattolica, alla revoca dell’idoneità di un’insegnante di religione in quanto incinta ma non coniugata (cfr. C. App. Firenze, 29 novembre 2000).
Certamente a rendere la sede scolastica il perno di simili polemiche vi è la piena consapevolezza che essa costituisce una vera e propria officina di produzione culturale, idonea ad innescare i processi di maturazione collettiva, nonché di responsabilizzazione intergenerazionale, profilandosi peraltro quale prima formazione sociale per i bambini dopo il nucleo familiare di appartenenza. Per cui, a rendere politicamente “appetibile” la notizia della chiusura scolastica in occasione della fine del Ramadan – che, a ben vedere, non dovrebbe suonare così scandalosa ai giorni nostri – potrebbe essere il delicatissimo intreccio di temi che possono essere funzionalizzati alle idee politiche dell’attuale maggioranza. Basti pensare alla logica securitaria che da anni governa la politica migratoria, che ci si ostina a fronteggiare con interventi di volta in volta episodici ed emergenziali, prescindendo dalla natura strutturale e permanente del fenomeno. Se a questa si aggiunge il richiamo che può avere la (supposta) esigenza di tutelare i bambini tra le pareti “protette” di un’aula scolastica, si comprendono meglio le suggestioni che possono aver scosso il Ministro dell’istruzione e del merito.
Ciò anche a discapito della solidarietà manifestata dal Presidente della Repubblica, nei confronti dell’Istituto scolastico di Pioltello, proprio mentre nelle aule parlamentari veniva avanzata un’interrogazione nei confronti dell’On. Valditara, per scandagliare ulteriormente i supposti profili di illegittimità delle motivazioni recate dalla nuova delibera del Consiglio d’istituto, confermativa della precedente scelta.
La risposta delle Istituzioni è stata, ancora una volta, di corto respiro. Si è ipotizzato di imporre un tetto massimo del 20% di alunni stranieri per classe, in ragione della “ridotta comprensione dell’italiano”. Anzitutto, tale automatismo appare riduttivo e pregiudizievole, considerato l’elevato numero di stranieri nati in Italia e che qui hanno compiuto interi cicli di istruzione, manchevoli del solo status della cittadinanza italiana. In secondo luogo, trattasi dell’ennesima logica escludente ed autoreferenziale che si sostituirebbe a dinamiche più inclusive. Ancora una volta, cioè, la reazione politica alle sporadiche e timide aperture al pluralismo ideologico-religioso è quella di etichettarle come scandalose forme di “arretramento” e di appellarsi, contestualmente, ad improprie e discutibili interpretazioni dei valori costituzionali, travisati e all’occorrenza riadattati.
In conclusione, affinché la scuola si faccia veicolo dell’impegno all’interculturalismo che lo Stato, in quanto laico, si assume, appare opportuno cominciare a rendere effettiva la portata dell’art. 3, comma 2 Cost., anche attraverso i discostamenti dal (rectius, adattamenti al) calendario scolastico, tarato sulle tradizioni religiose nazionali, dimostrando così non già un regresso, bensì una capacità di leggere la realtà materiale in modo “costituzionalmente orientato”.
È la scuola, d’altronde, la cruna da cui passa il testimone dei valori civici che la Costituzione impone, nonché il campo in cui si gioca la partita del pluralismo o del monismo valoriale, della flessibilità o della rigidità ideologica, della convivenza o dell’intolleranza religiosa.