di Norberto Stavenato
Sono un docente di fisica e ho letto anch’io la sentenza del caso climatico “Giudizio Universale”. In una parola, si tratta di un documento antiscientifico e dai tratti argomentativi paradossalmente negazionistici.
Non solo la decisione confonde cambiamento climatico ed emergenza climatica, ma nega esplicitamente la verità naturale di quest’ultima. Infatti, l’emergenza climatica altro non è che una lenta e dilagante agonia, inesorabile e irreversibile come una metastasi, che colpisce la salute umana in tutte le sue manifestazioni (fisiche, biochimiche, psicologiche) e nella differenziazione di ciascuna singola persona (come inequivocabilmente spiegato dall’IPCC nel suo AR6), per la ragione semplicissima che ciascuna persona detiene un proprio “indice di calore”, diverso dalle altre, perché dipendente dalla propria fisiologia e dai luoghi in cui vive (si v. Romps, Heat Index Extremes, 2024).
Non è dunque vero quello che sembrerebbe presupporre il Tribunale, ovvero che i singoli soggetti (che hanno agito in giudizio) ne risultino indifferenti. È una tesi contro natura; appunto un falso o una negazione antiscientifica. Ho letto che alcuni giuristi parlano, in proposito, di effetto “transindividuale” o “transoggettivo” del cambiamento climatico. È una metafora suggestiva che, però, in fisica non esiste, dato che materia ed energia sono dentro il corpo umano esattamente come dentro il pianeta Terra: sono la stessa cosa; sono il sistema climatico. Dunque, sul piano fisico, nulla è “trans”. Tra l’altro, lo chiarisce lo stesso diritto, visto che l’art. 1 della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico include nel sistema climatico, ovviamente, la biosfera ossia la vita di ciascuno.
Tra gli approcci decisionali ricostruiti dall’IPCC, alla luce delle conoscenze scientifiche disponibili, la sentenza “Giudizio Universale” si ascrive al c.d. “BAU scenario” (Business as Usual). È il tipo di decisione peggiore, perché – appunto – basato sulla presunzione che la realtà non stia precipitando nel baratro e che si possa continuare a ragione e decidere come si è sempre fatto (as Usual), distinguendo l’umano dal sistema climatico (con tanto di metafore “trans”) e, in questo modo, concorrendo colpevolmente al disastro.
Ma davvero l’emergenza climatica è una lenta agonia? Purtroppo sì e non ci sono dubbi. Nelle aule di lezione, per semplificare in che cosa consista l’emergenza climatica, si ricorre generalmente alla seguente metafora, scandita in venti passaggi, che riproduco.
1. Immaginiamo che l’atmosfera sia come una vasca, dentro la quale noi continuiamo a versare acqua (i gas serra antropogenici), e che il pianeta Terra sia il bagno, al cui interno la vasca è posizionata.
2. Lo spazio interno della vasca è occupato da tanti comparti (i singoli Stati con i loro territori) anch’essi – chi più, chi meno – pieni dell’acqua continuamente versata dall’uomo.
3. Per certezza scientifica – identica a quella che ci conferma che la terra è tonda (con buona pace dei negazionisti climatici e dei terrapiattisti) – sappiamo (come si legge dai Rapporti dell’IPCC e dai suoi “Sommari per i decisori politici”) che questa vasca è già colma e che sta per traboccare, allagando tutto e creando pericoli per tutti all’interno del bagno (i determinanti della salute umana e delle altre forme di vita nel pianeta, coinvolti dall’agonia).
4. Questo stato di fatto del bagno descrive la realtà dell’emergenza climatica dell’intero pianeta. Ecco perché, come dovrebbe essere chiaro, l’emergenza non coincide con la vasca, bensì con il bagno in inondazione.
5. In ragione di tale situazione di fatto, gli Stati si sono impegnati non a cooperare, come si legge nella sentenza, ma a ridurre ciascuno il proprio versamento d’acqua nel proprio comparto, interno alla vasca, in ragione delle caratteristiche di quel comparto (esattamente le “circostanze nazionali” o “speciali”, di cui parla per ben dieci volte l’Accordo di Parigi).
6. Quindi, è falso che gli Stati, a Parigi, si siano vincolati solo a “cooperare”. È l’esatto opposto: gli Stati si sono impegnati a predisporre e indicare, ciascuno, la quantità d’acqua da “ridurre” nel suo versamento all’interno del proprio comparto della vasca (i c.d. “contributi nazionali” statali).
7. Si tratta di un cambio di metodo fondamentale, omesso il quale non si capisce nulla dell’Accordo di Parigi (come sembra non averlo compreso la sentenza).
8. Per la prima volta, infatti, gli Stati, a Parigi, si dichiarano impegnati a “ridurre” l’acqua versata, ripeto non per “cooperare”, ma per “ridurre” (a casa loro) quattro condizioni fattuali negative che comprometterebbero il loro comparti: rischi ed effetti delle emissioni antropogeniche (ovvero, in metafora, rischi ed effetti del versamento d’acqua); “perdite e danni” connessi al riempimento e trabocco della vasca; “vulnerabilità” verso quegli effetti; necessità di scongiurare interventi solo successivi al traboccamento di vasca, una volta avvenuto, dunque inutili (perché a danno avvenuto) oltre che inevitabilmente più costosi.
9. È la prima volta che un accordo internazionale registra la volontà degli Stati di “ridurre”, oltre alle emissioni (il versamento d’acqua nella vasca) anche gli effetti negativi del suo riempimento e traboccamento nel bagno.
10. Qualsiasi forma di negazionismo climatico omette clamorosamente e colpevolmente questa ineludibile novità.
11. Ovviamente, per verificare se questo “ridurre” i versamenti contribuisca o meno a “ridurre” gli effetti, bisogna fare dei conteggi numerici.
12. Fare conteggi numerici è matematica (il “linguaggio della natura”, scrisse Galilei), non politica, come invece antiscientificamente scrive quel giudice. Se 2 + 2 fa 4, non c’è spazio per sostenere che faccia 3 o 5, per “scelta politica”.
13. Tra l’altro, tutto questo è confermato proprio dagli Stati che, sempre con l’Accordo di Parigi, hanno concordato le basi di calcolo di questa matematica, così decidendo: a) l’aumento del livello dell’acqua nella vasca deve essere contenuto entro un limite quantitativo non valicabile, per non attivare il traboccamento (i famosi limiti di aumento della temperatura tra +1,5°C massimo +2°C); b) tutti gli Stati devono rispettare questo limite quantitativo; c) di conseguenza, i conteggi numerici di ciascuno Stato, per il proprio comparto della vasca (il proprio territorio), devono assumere come base di calcolo quel limite quantitativo invalicabile.
14. Ma come si fa? Invero, è molto semplice: si divide l’area della vasca (l’atmosfera), non ancora coperta dall’acqua versata (le emissioni antropogeniche di gas serra ancora possibili), per i comparti interni alla vasca (gli Stati). Il quoziente indica il massimo d’acqua che ciascuno Stato può ancora versare nel suo comparto della vasca, senza contribuire al traboccamento.
15. Come dovrebbe risultare chiaro, il meccanismo di salvezza non si fonda sulla cooperazione, ma prioritariamente sull’azione individuale di ciascuno Stato. Detto altrimenti, se ogni Stato attende la cooperazione dell’altro, il bagno si allaga; viceversa, se ognuno si fa intanto i suoi bravi calcoli matematici e provvede a ridurre il proprio gettito d’acqua, almeno quel singolo Stato non sarà più responsabile del traboccamento. Insomma, si tratta di un meccanismo fisico simile a quello dei vasi comunicanti: la riduzione totale dipende dalla riduzione di ciascun vaso comunicante, non viceversa. In fisica, non esistono alternative a questa soluzione.
16. L’insieme delle descritte operazioni matematiche è denominato dalla scienza col termine “Carbon Budget” residuo.
17. Gli Stati sono vincolati a questo metodo del “Carbon Budget”? Si e per due ragioni: perché è l’unico metodo conosciuto dalla scienza (e gli Stati, si legge nell’Accordo di Parigi, devono agire “ispirandosi” alle “migliori conoscenze scientifiche”); perché, come accennato al punto 15, in fisica non esistono alternative, se non di arbitraria invenzione puramente politica, dunque antiscientifica.
18. Tra l’altro, questo metodo matematico è indicato non solo dall’IPCC ma dagli stessi Stati, attraverso i documenti dell’OCSE (cfr., per esempio, Understanding Countries’ Net-Zero Emissions Targets), che lo suggeriscono persino alle imprese.
19. C’è poi la considerazione che, ovviamente, non tutti gli Stati hanno versato acqua nella vasca per lo stesso tempo e nella medesima quantità (è il tema della c.d. equity e della c.d. giusta transizione). Tuttavia, questo dato non fa venir meno l’analisi matematica dell’agire e soprattutto non abilita ad ometterla. I c.d. “intervalli di equity”, infatti, sono operazioni, anch’esse matematiche, per tracciare un minimo e un massimo di riduzione dell’acqua versabile (le emissioni), ma sempre nel rispetto e dentro il quoziente, ricavato dall’operazione divisoria tra tutti.
20. Questo significa che, se uno Stato non fa questi conteggi o addirittura li effettua discrezionalmente, ossia senza la matematica e in nome solo di “scelte politiche”, esso opera come negazionista climatico e nella premeditata volontà di non voler “evitare” tutto quello che, invece, l’Accordo di Parigi richiede di “evitare” (perdite, danni, effetti negativi, vulnerabilità nei propri territori, non altrove).
Per lo Stato italiano, le informazioni ISPRA ci dicono che questo conteggio non è mai stato effettuato. Non si capisce proprio da dove il giudice abbia potuto ricavare e dichiarare il contrario.
Ma davvero la lenta agonia è in atto e ci riguarda? Certo! Forse abbiamo ancora bisogno di conferme? C’è solo l’imbarazzo della scelta.
Nel 2023, per la prima volta, la vasca ha già traboccato e il bagno è già inondato. Fuor di metafora, si è già verificato il pericolosissimo e dannosissimo Overshoot del limite di 1,5°C. Il Servizio UE Copernicus sui cambiamenti climatici lo ha accertato con riguardo agli ultimi 12 mesi e altrettanto è stato confermato dalla World Meteorological Organization (State of Global Climate 2023).
Siamo in agonia e stiamo precipitando. L’Europa e l’Italia, poi, sono già precipitati: da noi, il trabocco è già in corso da tempo e il bagno è in costante allagamento. Lo dice persino il Governo con il suo Piano di adattamento!
L’ENEA ha certificato che l’area del Mediterraneo è sempre più a rischio a causa del continuo aumento delle emissioni di anidride carbonica (CO2) e di metano (CH4) (cfr. Report dell’Osservatorio Climatico ENEA Madonie-Piano Battaglia, 2024); e, sempre in Europa, la temperatura media degli ultimi cinque anni è stata superiore di 2,2ºC rispetto all’era preindustriale, il che significa che ci stiamo riscaldando due volte più velocemente rispetto al resto del mondo (EEA-CMCC, Report 1/2024: European Climate Risk Assessment). Italia ed Europa sono già entrate nella c.d. “siccità ciclica” (European Drought Risk Atlas).
Solo gli autori della sentenza “Giudizio Universale” sembra che non se ne siano accorti. Anzi, essi scrivono persino che non si deve ascoltare la scienza, ricorrendo alla più bieca delle logiche da “BAU scenario”: decidere ignorando.
Non sono un giurista, ma chiedo ai giuristi: a che serve un diritto che non salva dalla catastrofe? A che serve la scienza, se ne possiamo prescindere? È la fisica che si deve piegare al diritto o viceversa?
Ai miei studenti, intontiti dai social e dalle informazioni approssimative, cerco di insegnare che, senza scienza, c’è spazio solo per il “terrapiattismo della ragione” (E. Boncinelli, A. Calvaruso, L’epoca delle idee cadute dal pero) o per l’egocentrismo sbrigativo delle sensazioni e degli istinti (D. Kahneman, Attention and Effort). Dalle sempre attuali Lettere tra Albert Schweitzer e Albert Einstein, si apprende un grande monito di umiltà, che dovrebbe riguardare tutti noi, giudici inclusi: quando si gioca presuntuosamente con le leggi dalla fisica, si diventa “non umani”; una perdita di umanità, ancor più beffarda e cinica nell’emergenza climatica, visto che ci spinge, con tanto di avallo giuridico, verso la perdita di vivibilità umana sul pianeta.