di Andrea Guazzarotti*
1. Forfettizzare la dignità del lavoro. Due mensilità dell’ultima retribuzione per ogni anno di servizio: a parte i casi più gravi (e più rari), questo vale(va) la dignità del lavoratore ingiustamente violata da un licenziamento illegittimo secondo il Jobs Act del governo Renzi (d.lgs. n. 23 del 2015). Ancora meno vale nelle piccole imprese: precisamente la metà (e comunque non oltre le sei mensilità: art. 9.1, d.lgs. n. 23 del 2015). Ma la dignità, come tutti i diritti dei lavoratori, è double face: per alcuni è un valore intrinseco alla persona, per altri rientra tra i costi d’impresa. E, si sa, l’impresa ha bisogno di programmare in modo efficiente le sue scelte, compresa quella di licenziare illegittimamente i propri dipendenti, e dunque deve calcolare in modo certo i costi della c.d. violazione efficiente delle regole (efficient breach: così si esprime il Law & Economics, una delle matrici del paradigma neoliberista: cfr. Speziale, 2015). Ma il neoliberismo è solo un pensiero egemone affermatosi negli USA con la contro-rivoluzione del capitale degli anni Settanta (D’Eramo, 2020), destinato a infrangersi contro gli alti bastioni di una Costituzione espressamente fondata sul lavoro e sulla dignità della persona; un pensiero egemone contro i cui corollari (la mercificazione del lavoro, in primis) una Costituzione come la nostra era stata concepita. E infatti la Costituzione personalista e lavorista ha reagito, innanzitutto nella sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2018 che ha abbattuto l’automatismo degradante di quel calcolo, consentendo al giudice di valutare l’adeguatezza dell’indennizzo anche alla luce di criteri ulteriori all’anzianità di servizio (numero dei dipendenti, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti, come già previsto dalla l. n. 604/1966 e dall’art. 18 Statuto lav.), pur restando entro la forbice del minimo e massimo di legge (da 6 a 36 mensilità, in virtù della correzione verso l’alto operata dal c.d. Decreto dignità, d.l. n. 87/2018). Stessa cosa la Corte ha fatto nella sent. n. 150 del 2020, in cui veniva in ballo il calcolo dell’indennità nei licenziamenti disciplinari illegittimi per vizi di forma e/o di procedura: per la Corte, non si giustificherebbe una logica diversa e deteriore rispetto ai vizi sostanziali dei licenziamenti, posto che forme e procedure, nel delicatissimo frangente dell’espulsione del lavoratore dall’impresa, «non sono vuote prescrizioni formali, ma concorrono a tutelare la dignità del lavoratore» (§ 7).
2. Costituzione e soggettività neoliberale. E tuttavia, il neoliberismo è un pensiero egemone ed egemonizzante (Cantaro, 2021), capace di insinuarsi nell’immaginario dei cittadini-lavoratori e colonizzarlo, fino a trasformarli in cittadini-rentiers, il cui reddito è meglio garantito dalla rendita e dalla finanza, che non dal lavoro e dal sindacato (Leon, 2016). Dal canto suo, il costituzionalismo vive di immaginari collettivi (Komárek, 2023), non solo della positivizzazione di principi di giustizia iscritti in una costituzione rigida e pluralista. Trasfigurati in norme giuridiche corrazzate, formalmente al vertice della piramide e presidiate dalla formidabile macchina difensiva del giudizio di costituzionalità delle leggi, quei principi restano però dei valori, nati nella coscienza collettiva e bisognosi di coscienza collettiva anche dopo la loro permutazione costituzionale, come ben sapevano i conservatori liberali critici della Costituzione di Weimar. La costituzionalizzazione dei principi di giustizia sociale non può convivere con una concezione meramente normativa di costituzione, ma deve necessariamente affidarsi all’adesione diffusa nella società di quei valori (E. Forsthoff, Il vincolo alla legge ed al diritto (art. 20 comma 3 GG), 1959, ora in Id., Stato di diritto in trasformazione, Milano 1973, p. 236).
Il primo passo fu trasfigurare l’inflazione, da tiro alla fune tra lavoratori e datori a tassa occulta che colpisce ciecamente ricchi e poveri, ferendo più i secondi che i primi (Cesaratto, 2019). E, dunque, ben venga la lotta all’inflazione e la riscoperta del vecchio arnese liberale della belle époque: la moneta forte! E con essa, l’esaltazione dell’indipendenza della Banca centrale (Chessa, 2016). Ma quel vincolo esterno non è neutrale: esso spunta le ali al sindacato, ne sterilizza il potere di confliggere con il capitale (Guazzarotti, 2021). Ma le forme restano salve, anche quelle del diritto e del diritto costituzionale, in specie: sciopero, azione e contrattazione collettiva, ecc., restano tutte a disposizione dei lavoratori e sotto il presidio dei giudici. Ed ecco entrare in scena – guarda caso proprio nel momento cruciale della scelta irreversibile per il ‘vincolo esterno’ – il bilanciamento dei diritti e degli interessi costituzionali (Zagrebelsky, 1992), che legittima la soggettività politica della Corte costituzionale: con il bilanciamento, infatti, si varcano le soglie dell’interpretazione per entrare nel mondo della discrezionalità (Bin, 1992). Ma il bilanciamento prende il centro della scena proprio quando un paradigma dà scacco matto a un altro, e forse, più o meno inconsapevolmente, per fare velo a questa sconfitta storica: grazie al bilanciamento, ogni giorno è un nuovo giorno, ogni caso giudiziario un caso a sé, nessun valore è tiranno (C. cost. sentt. n. 35 del 2013 e n. 58 del 2018) e tutti possono venir vendicati dalla giustizia costituzionale che ripristina il pluralismo dei valori, eventualmente riequilibrando ciò che il legislatore (la politica ordinaria) ha squilibrato. La Costituzione non contiene gerarchie a priori di valori, e quelle fissate dal legislatore devono essere transeunti e comunque proporzionate. E i giudici comuni, assieme alla Corte costituzionale, le possono ri-equilibrare: anche se i sindacati sono neutralizzati, i partiti artefici della Costituzione terremotati, i cittadini convertiti all’antipolitica? La Costituzione materiale di Mortati è morta (Zagrebelsky, 1998), viva la Costituzione!
3. La giurisprudenza costituzionale sul Jobs Act. Ma torniamo alla fatidica sentenza della Corte costituzionale sul Jobs Act: la disciplina introdotta nel 2015 altera la posizione dei lavoratori dinanzi a un bene fondamentale come la conservazione del posto di lavoro a fronte di un licenziamento illegittimo sulla base della mera data dell’assunzione (prima o dopo l’entrata in vigore della riforma dell’art. 18 Statuto lav.). Nella stessa impresa convivranno lavoratori garantiti dalla tutela reale (vecchio art. 18) e lavoratori con la mera tutela indennitaria (contratto “a tutele crescenti”). Per la Corte l’elemento temporale può ragionevolmente valere da discrimine, posto che esso è coerente con lo scopo del legislatore neoliberale «di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione» (sent. 194/2018, § 5.4 del Considerato in diritto). Accettando così pianamente la bontà dell’obiettivo perseguito dal Legislatore la Corte finisce, però, per consentire al fine legislativo di assorbire in sé la giustificazione dei mezzi (Giubboni, 2019, p. 13s.). Abbassare così drasticamente le tutele per i lavoratori ‘neoassunti’ (prevalentemente i giovani che entrano nel mercato del lavoro) non avrebbe dovuto imporre un test di proporzionalità completo, ossia, una valutazione circa la congruità dei mezzi al fine, la loro proporzionalità alla luce di alternative meno costose (Fontana, 2018, pp. 468s.)? Invertire la regola (la tutela reintegratoria) con l’eccezione (la forfettizzazione) in modo non congiunturale bensì stabile, per fronteggiare situazioni di crisi occupazionali legate alla situazione contingente, non avrebbe dovuto suggerire alla Corte prospettive diverse (ibidem, p. 470)?
Così, la sentenza resta entro il paradigma neoliberale per cui il mercato del lavoro tenderebbe al pieno impiego se solo venisse liberato dai lacci del diritto del lavoro concepito dal vecchio paradigma: la disoccupazione sarebbe causata dall’eccesso di garanzie contro i licenziamenti illegittimi. E se il presupposto economico fosse del tutto erratico? Era stata proprio l’OCSE, che nel 1994 aveva inaugurato l’indice di rigidità del mercato del lavoro, a smentire nel 2004 l’esistenza di correlazioni dimostrabili tra tasso d’occupazione e facilità di licenziamento (Speziale, 2016). Semmai, le analisi economiche (non mainstream) ci dicono che l’unica correlazione plausibile è quella tra abbassamento delle tutele e abbassamento dei salari (Cavallaro, 2023).
Ma non c’è modo di verificarlo quel presupposto economico, di verificare, cioè, quanto siano cresciuti i “nuovi” contratti a tempo indeterminato rispetto all’occupazione precaria, perché le assunzioni promesse dall’allora governo Renzi non si basavano solo sulla (relativa) liberalizzazione dei licenziamenti, ma anche sulla potente droga degli incentivi economici a favore delle imprese che avessero assunto ricorrendo al nuovo contratto “a tutele crescenti”, tanto che quegli incentivi risultavano superiori a quanto il datore avrebbe dovuto pagare per liberarsi del lavoratore neo-assunto con un licenziamento arbitrario entro i primi 3 anni (Cirillo, Fana, Guarascio, 2017).
Passano pochi anni e un altro giudice del lavoro torna all’assalto dei bastioni neoliberali eretti dal Jobs Act. La Corte d’appello di Napoli, forse illusasi che le ficcanti critiche di parte della dottrina al sindacato di ragionevolezza svolto dalla Corte sul criterio temporale discriminante avessero fatto breccia nel discorso egemonico, ripropone una questione analoga, ex art. 3 Cost., sull’arbitraria discriminazione tra lavoratori garantiti dall’art. 18 St. lav., e lavoratori assunti col famigerato “contratto a tutele crescenti”. La questione, stavolta, investiva i licenziamenti collettivi, rispetto ai quali, in effetti, la discriminazione tra lavoratori ‘vecchi’ e ‘nuovi’ entro la stessa impresa appare ancora più stridere con l’eguale dignità del lavoro. Se nel gruppo di lavoratori arbitrariamente ‘esuberati’ con lo stesso atto illegittimo del datore, accanto a quelli licenziabili forfettizzando la violazione di legge ve ne sono alcuni assunti prima della fatidica data del 7 marzo 2015, solo questi ultimi avranno il ‘privilegio’ di poter chiedere e ottenere la reintegra. Per il giudice a quo, «la ragione giustificatrice dello “scopo” perseguito dal legislatore, “di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione” [così la legge delega del Jobs Act], perderebbe significato in una procedura di esubero, nella quale l’individuazione dei lavoratori da licenziare deve basarsi esclusivamente su una puntuale applicazione di omogenei ed oggettivi criteri di scelta, poiché l’affievolimento radicale della sanzione amplificherebbe per tali lavoratori il “rischio” di perdere il lavoro, con un sacrificio irragionevole che si estende anche alla posizione previdenziale.» Ma non bastano le critiche della migliore dottrina a far mutar d’avviso la Corte costituzionale, che nella sent. n. 7 del 2024 ha ritenuto irrilevante la distinzione tra licenziamenti individuali e collettivi ai fini della disciplina delle garanzie del lavoratore, per poi ribadire la non irragionevolezza del fine legislativo (facilitare le assunzioni abbassando i “costi” di licenziamento arbitrario per le imprese) e la congruità a tale fine del criterio temporale adottato dal legislatore neoliberale del Jobs Act, come già fatto nella sent. 194 del 2018 (§ 16 del Considerato in diritto). La Corte stavolta aggiunge che «(a)nche la fissazione di un limite massimo dell’indennizzo risponde, del resto, alla ragione di fondo della legge delega di incentivare le nuove assunzioni con la previsione di conseguenze sanzionatorie certe e prevedibili in caso di licenziamento illegittimo» (§ 18.3). E questo per rafforzare l’indisponibilità della Corte a seguire il Comitato europeo dei diritti sociali che, su ricorso della CGIL, nel 2019 aveva dichiarato l’incompatibilità di quel tetto dell’indennizzo con la Carta sociale europea (§ 13).
4. (segue): Imprese minori, dignità minorata. L’altro motivo ispiratore della riforma neoliberale renziana era il superamento del c.d. nanismo delle imprese italiane, che a detta del governo di allora era causato dai limiti al potere di licenziare del datore nelle imprese con più di 15 dipendenti. A distanza di quasi un decennio dalla (contro-)riforma, quel nanismo non è affatto migliorato, anzi! E, tuttavia, il ‘nobile’ intento di fare politiche industriali lasciando mano libera al potere di licenziare dell’imprenditore è intorbidato dal fatto che il Jobs Act, oltre al sedicente incentivo a ingrandire l’impresa assumendo dipendenti facilmente licenziabili, offre contraddittoriamente anche vantaggi ai piccoli imprenditori che volessero restare tali. Il Jobs Act, infatti, rende ancora più ‘a buon mercato’ il licenziamento illegittimo nelle piccole imprese (comprimendo l’indennizzo tra le 3 e le 6 mensilità, rispetto al quadro previgente, ancora applicabile ai vecchi contratti, che per i lavoratori con più anzianità contempla soglie massime ben più generose: art. 8, l. n. 604 del 1966). Il ‘Decreto dignità’ del governo giallo-verde ha reso ancora più intollerabile la disparità di trattamento subita dai lavoratori delle piccole imprese, laddove, mentre elevava la forbice dell’indennità contro i licenziamenti individuali illegittimi nelle imprese maggiori (il delta delle 4-24 mensilità passava a 6-36), lasciava inalterata la forbice indecorosa per le imprese minori (3-6 mensilità). Un’aporia che è tale solo se si dimentica che il titolo completo di quel decreto è «Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese» (v. criticamente Losurdo, 2022, pp. 383s.) e che la Lega era il socio di minoranza di quel governo. Del resto, quel decreto interveniva sul famigerato Jobs Act, acronimo che sta per Jumpstart Our Business Startups Act (“legge per lo sviluppo delle nostre imprese in fase di decollo”: Cavallaro, 2023, cit.).
Dinanzi a questo palese svilimento della dignità dei lavoratori ‘figli di un dio minore’, la Corte costituzionale ha ammonito il legislatore, osservando che: a) quell’«esiguo divario tra un minimo di tre e un massimo di sei mensilità vanifica l’esigenza di adeguarne l’importo alla specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza»; b) la dimensione numerica degli occupati, in presenza dell’innovazione tecnologica e della trasformazione dei processi produttivi, non può più dirsi rispondente all’effettiva capacità economica dell’impresa, così che quel criterio numerico non può più puntellare, sempre e comunque, «l’esigenza di non gravare di costi sproporzionati realtà produttive e organizzative che siano effettivamente inidonee a sostenerli» (sent. n. 183 del 2022, § 5.2). Ma si tratta solo di un’ammonizione da cartellino giallo: mancano – per ora – punti di riferimento nell’ordinamento che possano consentire ai giudici di calcolare autonomamente un indennizzo per questi licenziamenti e, pertanto, alla Corte di demolire l’automatismo legislativo degradante la dignità dei lavoratori. Le questioni di costituzionalità vengono, pertanto, dichiarate inammissibili; e tuttavia la Corte minaccia, non senza contraddizione, di sostituire quei criteri di calcolo con altri più garantisti qualora perduri l’inerzia del Legislatore.
5. La materialità dei diritti e i limiti del bilanciamento. L’opzione neoliberale della estrema frammentazione della disciplina sulle tutele contro i licenziamenti illegittimi ha gradualmente ristretto il margine di operatività della tutela reale, prima con la riforma “Fornero” (l. n. 92/2012), poi con il Jobs Act (l. 183/2014 e d.lgs. 23 del 2015). La Corte costituzionale – è la stessa sent. n. 7 del 2024 a ricordarcelo – ha prima assecondato il moto di progressiva estensione della tutela contro i licenziamenti, alla fine dei c.d. “Trenta gloriosi” (l. 604/1966; l. n. 300/1970, Statuto lav.), per poi venir chiamata a legittimare il moto inverso della contro-riforma neoliberale. Cruciale fu, come noto, la decisione che sdoganò il referendum radicale del 2000 sulla liberalizzazione dei licenziamenti: nella sent. n. 46 del 2000, la Corte non smentì frontalmente la Costituzione materiale del 1948 e il suo programma di progressiva emancipazione del lavoro (Mortati C., Il lavoro nella Costituzione, in Il dir. del lav., 1954, I, pp. 149-212; Luciani, 2011; Zagrebelsky, 2013; Benvenuti, 2009); chiamata a pronunciarsi sull’abrogabilità dell’art. 18 Statuto lav., la Corte riconobbe che quest’ultimo «è indubbiamente manifestazione di quell’indirizzo di progressiva garanzia del diritto al lavoro previsto dagli artt. 4 e 35 della Costituzione, che ha portato, nel tempo, ad introdurre temperamenti al potere di recesso del datore di lavoro, secondo garanzie affidate alla discrezionalità del legislatore» (sent. n. 46 del 2000, § 5, corsivi aggiunti). E però quella discrezionalità può anche retrocedere dalla più piena attuazione costituzionale a una meno piena, passando da una garanzia progressiva a una… regressiva dei diritti fondamentali garantiti in Costituzione, primo fra tutti il diritto al lavoro (v., criticamente, F. Modugno, Ancora una «rassegna» sull’ammissibilità dei «referendum» abrogativi, dopo venti anni, in Giur. cost. 2011/3, p. 1823; C. De Fiores, L’incoerente decisione della Corte costituzionale sulla libertà di licenziare, in Giur. it. 2000, c. 1552). Ed è la stessa Corte, non si sa se costernata o sardonica, a segnalarci, 24 anni dopo quella fatidica decisione, che la garanzia della reintegrazione «pareva una conquista irretrattabile di tutela nei confronti dei licenziamenti illegittimi» (sent. n. 7 del 2024, § 4.1). Da un programma di emancipazione del lavoro, la Costituzione si ridimensiona a un insieme di garanzie minime dei diritti dei lavoratori, il cui livello è rimesso in seconda battuta al prudente apprezzamento della stessa Corte (Grosso, 2001, p. 268). La sentenza n. 46 del 2000 giunge dopo che, per tutti gli anni Novanta, era passato il messaggio, basato su dottrine economiche mai suffragate empiricamente, per cui i lavoratori occupati stabilmente erano il principale nemico dei disoccupati, stravolgendo l’idea progressista per cui i primi avrebbero dovuto costituire la componente più avanzata dei salariati sul fronte del conflitto distributivo (Barba, Pivetti, 2016, p. 156).
Nondimeno, le virtù del bilanciamento dei diritti costituzionali consentono alle Corti di barcamenarsi e di non rinnegare il fondamento testuale della propria legittimazione. Il diritto al lavoro, per il «forte coinvolgimento della persona umana», viene ancora definito come «fondamentale» dalla Corte (sent. n. 194 del 2018, § 9.1; n. 7 del 2024, § 18.1). E, tuttavia, all’esito del bilanciamento dei valori sottesi al diritto al lavoro (art. 4 Cost.) e alla libertà d’impresa (art. 41 Cost.) non risulta precluso al legislatore forfettizzare il diritto fondamentale in questione, purché il ristoro monetario sia sufficientemente adeguato e dissuasivo (ibidem). Meglio sarebbe stato palesare che a essere fondamentale è (anche) la libertà d’impresa (nonostante la diversa collocazione e il ben diverso tenore dell’art. 41 Cost.), e che il legislatore neoliberale ha ritenuto nella maggioranza dei casi di licenziamento quest’ultima più fondamentale del diritto al lavoro. Perché la tutela meramente risarcitoria di diritti davvero fondamentali non dovrebbe essere ammessa, quando l’utilità dedotta nell’obbligazione risulti ancora conseguibile attraverso la cooperazione dell’obbligato, al quale non dovrebbe riconoscersi il potere di scegliere se forfettizzare o meno il frutto di una sua decisione arbitraria (Bavaro, 2019, p. 195). «Il recesso si compie per la sola volontà del datore di lavoro, previa monetizzazione del posto di lavoro soppresso; volontà di potenza della ragione aziendale» (ibidem). «Il meta-valore del bilanciamento (…) è la foglia di fico che non fa decidere, che non afferma né nega», che ammalia attraverso l’argomentazione della motivazione, mentre una dottrina dei valori deve risolversi in una decisione (ibidem, p. 184). E quella decisione viene presa secondo una gerarchia di valori frutto di rapporti materiali (ibidem, p. 185; Cavallaro, 2015, p. 76; Losurdo, 2022, cit., p. 387). Rapporti materiali che assai difficilmente potranno venir ribaltati (solo) ricorrendo alla c.d. strategic litigation, fatta di ricorsi sapientemente mirati dinanzi all’autorità giudiziaria o quasi-giudiziaria nazionale, sovranazionale e internazionale. Non quando l’egemonia è passata dall’altra parte, quando il soggetto del conflitto è stato neutralizzato attraverso il vincolo esterno della politica monetaria e dell’iper-liberalizzazione dei capitali. Che, invece, se assistita da quell’egemonia, la strategic litigation i suoi frutti li dà, eccome! Basti pensare a come la Corte di giustizia abbia proattivamente risposto alle sollecitazioni del capitale (almeno dalla fine degli anni Settanta), trasformando le libertà di circolazione (specie dei capitali) in libertà fondamentali investite della missione costituente di far avanzare l’integrazione europea attraverso l’unificazione dei mercati, la deregulation e il “law shopping” (Bin, 2024).
* Contributo già pubblicato su Fuoricollana.it