di Salvatore Curreri
Uno degli emendamenti presentati dal Governo al testo di riforma costituzionale sul c.d. premierato prevede – almeno mentre scriviamo – che il Presidente del Consiglio direttamente eletto, per difendersi da colpi di mano della sua maggioranza, in caso di dimissioni volontarie possa entro sette giorni proporre ed ottenere dal Presidente della Repubblica lo scioglimento delle Camere (automatico invece in caso di approvazione di mozione di sfiducia). Se non esercita tale facoltà, il Presidente della Repubblica può conferire l’incarico di formare il nuovo Governo per una sola volta o allo stesso Presidente del Consiglio dimissionario oppure ad un altro parlamentare eletto in collegamento con lui.
Tale emendamento, più che sciogliere i dubbi precedenti, ne solleva di altri.
Innanzi tutto, nonostante l’ossessione per i ribaltoni, nulla mi pare impedirebbe quelli ad opera dello stesso Presidente del Consiglio eletto, che potrebbe essere riconfermato tale pur cambiando maggioranza, in stile Conte II. Se infatti un partito decidesse di uscire dalla maggioranza di governo, il Presidente del Consiglio potrebbe dimettersi e, anziché chiedere e ottenere lo scioglimento delle Camere, vedersi riconfermato l’incarico dal Presidente della Repubblica anche se a capo di una maggioranza parlamentare di segno politico diverso da quella per cui è stato eletto.
Ma soprattutto – ci si chiede – nel caso di voto contrario su una questione di fiducia le dimissioni del Presidente del Consiglio sono volontarie, con conseguente possibile scioglimento delle Camere, oppure obbligatorie?
Per la volontarietà delle dimissioni si è schierata la ministra Casellati, in ciò sostenuta da alcuni costituzionalisti, secondo cui “che un governo si debba dimettere sulla mancata fiducia su un singolo atto non è scritto neanche nella Costituzione vigente, dove si parla solo di dimissioni in caso di mozione di sfiducia” al quinto comma dell’articolo 94”. Anzi tale articolo, al comma precedente, afferma espressamente che “il voto contrario di una o di entrambe le Camere su una proposta del Governo non importa obbligo di dimissioni”. Di conseguenza, se il Governo fosse battuto su una questione di fiducia (come accadde a Prodi nel 1998 e nel 2008) il Presidente del Consiglio eletto non avrebbe alcun obbligo giuridico di dimettersi. Piuttosto le sue dimissioni sarebbe frutto di una valutazione discrezionale della situazione politica venutasi a determinare, per cui rientrerebbero nell’ipotesi di dimissioni volontarie a seguito delle quali egli potrebbe chiedere ed ottenere lo scioglimento delle Camere e la convocazione di nuove elezioni.
Si potrebbe fin d’ora replicare che il Governo ha una concezione un po’ strabica del rapporto di fiducia, i cui sviluppi non producono effetti sempre identici. Così all’inizio si richiede al Presidente del Consiglio, benché eletto direttamente, di avere la fiducia iniziale delle Camere, salvo concedergli, in caso di voto contrario, una seconda chance (al contrario della Spagna, con lo stesso quorum!) non si sa se per accanimento terapeutico o perché tutto sommato si ritiene il primo voto delle Camere non così importante, sfregiandone così la dignità istituzionale. E così anche la bocciatura di una questione di fiducia verrebbe degradata a mero incidente di percorso, sulle cui ripercussioni in ordine al rapporto di fiducia il Presidente del Consiglio non sarebbe tenuto a trarne le conseguenze.
Eppure la stragrande maggioranza della dottrina, specie parlamentarista (tra gli altri Barile, Manzella, Mazzoni Honorati, Cicconetti, Lippolis, Mannino, Gianniti-Lupo, Lasorella) ha sempre ritenuto che il Governo ha l’obbligo giuridico, e non solo politico, di dimettersi in caso di voto contrario sulla questione di fiducia posta per molte e convincenti ragioni.
Innanzi tutto, è vero che la questione di fiducia non è prevista in Costituzione, anzi sembrerebbe da essa esclusa, ma l’articolo 94 disciplina solo il versante parlamentare del rapporto fiduciario, cioè la mozione di fiducia e di sfiducia, non quello governativo. Il silenzio della Costituzione sulla questione di fiducia va interpretato, quindi, non come sua negazione ma come ammissione implicita se è vero che il nostro è un regime parlamentare basato su un rapporto di fiducia equilibrato tra Governo e Parlamento (Elia), e dunque bidirezionale, in cui l’uno deve avere la fiducia dell’altro, e viceversa. Pertanto, così come il Parlamento può verificare la tenuta del rapporto di fiducia con il Governo attraverso la mozione di sfiducia, parimenti anche il Governo può verificare la sussistenza del rapporto di fiducia con il Parlamento tramite la questione di fiducia.
La Costituzione per proteggere il governo dalle imboscate parlamentari del periodo statutario ha opportunamente previsto che esso non ha l’obbligo giuridico di dimettersi in caso di voto parlamentare contrario. Ma ciò non impedisce affatto – né di fatto ha mai impedito – al Governo di decidere, stavolta per sua scelta, di far dipendere il suo destino da una votazione diversa da quella di fiducia o di sfiducia (Galizia). In altri termini, leggendo al contrario l’art. 94.4 Cost. il Governo non è obbligato a dimettersi in caso di voto contrario a meno che sia lui stesso ad obbligarsi giuridicamente in tal senso.
Se quello del Governo fosse solo un obbligo politico, anziché giuridico, non si spiegherebbero, né giustificherebbero, le conseguenze procedurali che derivano dal ricorso alla questione di fiducia e che sono proprie delle votazioni fiduciarie: priorità, indivisibilità, inemendabilità dell’oggetto su cui essa è posta e voto per appello nominale (oggi anche sulle materie su cui si può chiedere lo scrutinio segreto). E sono proprio tali effetti procedurali che hanno sempre indotto (fin dal 1951!) sotto il profilo tecnico, oltreché politico, il Governo a ricorrere a tale istituto. Il fatto che, prima del 1988, il Governo si dimetteva quando, ottenuta la fiducia, veniva battuto sul voto segreto dell’articolo unico di conversione del decreto legge non dimostra certo che si tratti sempre di valutazioni politiche, ed anzi esclude che, al contrario, egli non sia tenuto a dimettersi quando invece il voto sulla questione di fiducia è avverso.
Del resto se a fronte di tali conseguenze procedurali il Governo non mettesse sull’altro piatto della bilancia l’obbligo giuridico di dimissioni questo significherebbe sbilanciare ulteriormente il rapporto con il Parlamento, degradando la questione di fiducia a mera questione di governo, da cui il Governo incasserebbe tutti i vantaggi senza subirne alcuna conseguenza. Visti gli attuali rapporti tra Governo e Parlamento, un esito non auspicabile, né oggi né domani.
Se, quindi, in caso di voto contrario su una questione di fiducia le dimissioni del Presidente del Consiglio sono obbligatorie, e non facoltative, se ne dovrebbe dedurre che gli emendamenti depositati hanno trascurato di prevederne le conseguenze per cui potrebbe accadere che il Presidente del Consiglio impallinato potrebbe essere sostituito non solo da un parlamentare eletto in collegamento con lui ma da chiunque.
È certamente condivisibile l’auspicio che la comunità dei costituzionalisti affronti questo nuovo (decisivo?) tornante nell’infinita strada verso le necessarie riforme istituzionali senza ricadere nelle divisioni passate. Che dopo settant’anni dalla introduzione per prassi della questione di fiducia e cinquanta dalla sua normazione regolamentare, si debba ancora discutere se il Governo sia o no obbligato a dimettersi se sconfitto, magari per rimediare a imprecise formulazioni tanto più inammissibili quando si vuol modificare la Costituzione, dimostra solo una cosa: che purtroppo sta anche venendo meno una grammatica comune.