l “trilemma energetico” e il contenzioso climatico contro ENI

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di Luciana Cardelli

ENI è stata citata in giudizio nel primo contenzioso climatico italiano verso le multinazionali del fossile. L’iniziativa è stata promossa da Greenpeace Italia, ReCommon e alcuni privati ed è stata denominata “La giusta causa”.

In risposta a questa azione, pendente davanti al Tribunale civile di Roma, ENI ha deciso di attivare una nuova pagina di comunicazione pubblica, dedicata a una «operazione di trasparenza e verità», a sua volta intitolata “Eni e la Falsa Causa”. In quest’ultima, vengono sintetizzate e allegate le argomentazioni difensive di ENI, accompagnate da una relazione tecnica.

Scorrendo le pagine del sito, si apprende che la “verità” di ENI «riflette due fatti»:

– «il forte e costante impegno di Eni per la transizione energetica tramite una strategia di decarbonizzazione ideata per far fronte ad una sfida globale, complessa e che richiede il coinvolgimento di tutti gli attori della società, dagli Stati alle aziende passando per i singoli cittadini… che non può essere affrontata – né tantomeno semplificata – con approcci ideologici e superficiali»;

– «un’attività strategica nel settore energetico che, pur avendo un effetto in termini di emissioni di CO2, contribuisce alla tutela della sicurezza energetica e dell’equità energetica, ossia la possibilità per i cittadini di accedere ad energia affidabile, adeguata ed economica».

Che cosa siano gli «approcci ideologici» non viene ulteriormente approfondito, mentre la narrazione si dilunga ampiamente, rinviando anche alle memorie difensive, sul tema della sicurezza degli approvvigionamenti e dell’equità nell’accesso ai servizi energetici, quali fattori di bilanciamento con il pur riconosciuto effetto negativo delle emissioni climalteranti dell’azienda.

Eni, quindi, invoca a “verità” di fatto (e lo dichiara espressamente nella memoria difensiva) il c.d. “trilemma energetico”.

Il “trilemma energetico”, però, non è un fatto. Non è neppure una fonte giuridica, né di Hard né di Soft Law. È semplicemente un’invenzione dei privati, ideata dal World Energy Council: «la più antica comunità energetica indipendente e imparziale, che collega leader, industrie, governi e innovatori in tutto il mondo», secondo la definizione ufficiale, posta ad apertura del suo sito (WEC).

Tale invenzione descrive lo schema operativo di “ottimizzazione” di tre elementi ritenuti determinanti per gli asset aziendali:

– sicurezza degli approvvigionamenti, a garanzia della continuità produttiva;

– equità nell’accesso all’energia, a garanzia della competitività dei costi delle forniture;

– sostenibilità ambientale, per la riduzione delle esternalità negative.

Come si vede, il metodo, pur evocando il bilanciamento, non presenta alcuna “vocazione costituzionale”. Detto altrimenti, esso non si fa carico del problema della tutela dei diritti in una dimensione di pari dignità dei loro contenuti, nella proporzionalità e ragionevolezza di eventuali limitazioni o condizionamenti (quali potrebbero essere gli interessi aziendali di investimento e continuità produttiva).

La constatazione appare significativa, in un contesto di contenzioso climatico dove si discuterà di diritti e responsabilità d’impresa, per almeno cinque ragioni.

a. Innanzitutto, il dispositivo metodologico del “trilemma energetico”, non coincidendo con le tecniche del bilanciamento diffuse e praticate negli ordinamenti liberaldemocratici, non garantisce di per sé la concretizzazione dei diritti da parte dell’azione privata.

b. In secondo luogo, il “trilemma” non è mai indicato come integrativo o sostitutivo neppure della c.d. Due Diligence, ovvero di quell’insieme di condotte aziendali, disciplinate da diverse fonti soprattutto di soft law, a tutela sempre dei diritti umani: si pensi, per tutte, alle “Linee guida” ONU e OCSE (sul tema, cfr. OECD, The role of sustainability initiatives in mandatory due diligence, 2022)

c. Nel diritto europeo, poi, qualsiasi applicazione del “trilemma energetico” deve comunque fare i conti con le c.d. “garanzie minime di salvaguardia”, introdotte dall’art. 18 del Regolamento UE n. 2020/852 e, ora, ulteriormente specificate dalla Comunicazione della Commissione C/2023/3719, in nome sempre dei diritti umani e fondamentali, rivenienti sia dal diritto internazionale sia dalla Carta di Nizza-Strasburgo (alla luce, tra l’altro, dei Considerando 6 e 9 del Regolamento UE n. 2021/1119).

d. A livello di fonti di diritto italiano, inoltre, questo “trilemma” non funge da causa di giustificazione rispetto al neminem laedere (di cui all’art. 2043 del Codice civile), dato che quest’ultimo è stato eretto dalla Corte costituzionale non solo a «norma giuridica secondaria» che si integra con l’art. 32 Cost. «norma giuridica primaria» con «valore precettivo» non derogabile (così la Sent. n. 184/1986 con giurisprudenza successiva immutata), ma persino a tassello del «quadro dei valori su cui è costruito lo Stato di diritto» (Sent. n. 16/1992).

e. Infine oggi, dopo la riforma degli artt. 9 e 41 della Costituzione, la sua invocazione non può sottrarsi allo scrutinio di conformità costituzionale.

Insomma, il “trilemma energetico” potrà fungere pure da “verità”, ma non certo in termini giuridici e – ancor meno – costituzionali. Si diceva, però, che esso non funge neanche da “verità” fattuale. Vediamo perché.

A spiegarcelo soccorre l’IPCC, il Panel Intergovernativo dell’ONU sui Cambiamenti Climatici. Nei suoi Report di valutazione delle conoscenze scientifiche, infatti, è riportata la formula BAU Scenario (letteralmente “Business as Usual Scenario”), per descrivere pratiche di compromesso energetico “a-temporali” perché ripetitive di uno “scenario consueto” (usual), fondato sulla (scientificamente falsa) presunzione che il futuro del sistema climatico, ancorché alterato dalle emissioni antropogeniche, resterà uguale al presente o comunque senza peggioramenti in accelerazione, da prevenire urgentemente.

Alla prova dei fatti, è stata proprio l’ostinazione per il BAU Scenario, con tanto di “trilemma energetico” al suo fianco, ad aver condotto all’emergenza climatica.

È questa la “verità” scientifica, resa pubblica dopo il 2018 dallo Special Report Global Warming of 1,5°C, sempre dell’IPCC (ma sul complesso tema della “verità” nelle questioni climatica, si v. M. Carducci, Il diritto alla verità climatica, 2023).

L’emergenza climatica è una situazione di pericolo condizionata dai differenti tempi di interazione e accelerazione delle diverse sfere del sistema climatico (cfr. T. Lenton et al., Climate tipping points — too risky to bet against, 2019-2020). Questi tempi, che sono naturali, non possono essere appiattiti ai tempi “artificiali” di un’azienda, preoccupata del suo “trilemma”.

La decisione finale della COP28, la Conferenza delle Parti attuativa dell’Accordo di Parigi sul clima, lo ha chiarito una buona volta per tutte, consacrando l’ineluttabilità dell’abbandono, rapido e urgente, dell’energia fossile, prima che sia “troppo tardi” (cfr. UNFCCC, COP28 Agreement Signals “Beginning of the End” of the Fossil Fuel Era). E il “troppo tardi”, come ormai ben noto e dichiarato sempre alla COP28, è scandito dall’esaurimento del “Carbon Budget” residuo (il totale delle emissioni climalteranti ancora a disposizione delle attività umane, senza che si destabilizzi irrimediabilmente il sistema climatico).

Ecco allora che l’unica “verità” che ENI, come tutti gli altri (cittadini, imprese, Stati), deve considerare è il “Carbon Budget” residuo; con la conclusione che, se proprio al “trilemma energetico” non si vuol rinunciare, lo stesso sarà predicabile e praticabile esclusivamente nella “riserva del possibile” della sua compatibilità con quel “Budget”.

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