L’omissione del “Carbon Budget” rende illegittima l’azione della PA

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di Giorgio Trivi

Una recente Sentenza del TAR Lazio (n. 18141/2023) pone interessanti spunti di riflessione in tema di rispetto del principio europeo del non recare danno significativo all’ambiente (c.d. Do No Significant HarmDNSH, su cui si v., per il quadro recente, Barelli, Il principio DNSH e il nuovo criterio DNSH), disciplinato dal Reg. UE n. 852/2020, ai fini della qualificazione dell’ecosostenibilità delle attività economiche, ed esteso alle PA con il Reg. UE n. 241/2021.

Nello specifico, il ricorso promosso lamentava, tra le altre cose, proprio la «violazione e falsa applicazione del principio di prevenzione e della valutazione DNSH (c.d. do no significant harm) di cui all’art. 17 del Reg. UE n. 852/2020».

Il TAR respinge il ricorso, ma si dilunga nella spiegazione della corretta valutazione del principio DNSH.

Nel dettaglio, il Giudice amministrativo fissa tre assunti:

– che la valutazione DNSH deve essere effettuata in «coerenza con la normativa comunitaria» e, più dettagliatamente, in «rigorosa aderenza» sia con il cit. Reg. UE n. 852/2020, che con la Comunicazione della Commissione UE, contenente “Orientamenti tecnici sull’applicazione del principio del non arrecare un danno significativo a norma del regolamento sul dispositivo per la ripresa e la resilienza (2021/C 58/01), e infine con le due Circolari della Ragioneria Generale dello Stato italiano nn. 32/2021 e 33/2022;

– che la valutazione deve consistere in una condotta tecnico-materiale di «monitoraggio» del DNSH «non solo ex ante, cioè prima di iniziare i lavori, ma anche in itinere ed ex post, cioè durante e dopo il loro svolgimento»;

– che l’adempimento della sola valutazione ex ante si traduce in «lacune e omissioni, proprio in violazione del principio DNSH».

Ecco le novità.

Il TAR identifica l’attività di attuazione del principio DNSH in una condotta amministrativa protratta nel tempo, in modo da scongiurare omissioni materiali produttive di danni: il che, praticamente, corrisponde al rispetto del principio del neminem laedere, quale limite esterno alla discrezionalità amministrativa (limite pacificamente ammesso dalla giurisprudenza italiana: da ultimo cfr. Corte di cassazione Sez. III, n 14209/2023) ed elemento determinante per qualificare la pericolosità delle condotte riguardo alle attività formalmente attribuite al potere pubblico (si v., in merito alla distinzione tra attività e condotta della P.A., Mignone, Le attività pericolose).

Questa acquisizione è importante, perché integra il principio di precauzione, come la stessa sentenza in commento riconosce, in termini di «riscontro oggettivo e verificabile» sui «rischi per le persone e l’ambiente».

In effetti, la precauzione amministrativa risulta strutturata su quattro passaggi logici di accertamento: «l’identificazione del pericolo, la caratterizzazione del pericolo, la valutazione dell’esposizione e la caratterizzazione del rischio» (così, sempre TAR Lazio – Sezione di Latina n. 697/2023, su cui Butti, Principio di precauzione e gestione del rischio ambientale). I quattro passaggi compongono, poi, un «processo scientifico che deve necessariamente spettare a esperti della materia».

Rispetto a questo percorso, la condotta sul DNSH risiede nel «monitoraggio» costante, che, di fatto, permette di garantire nel tempo la permanenza di quelle quattro considerazioni precauzionali. Di riflesso, ne deriva che anche il «monitoraggio» non può non corrispondere a un «processo scientifico».

La conclusione è piuttosto importante, se si vanno a leggere le due “Guide operative” della Ragioneria Generale dello Stato, allegate alle Circolari nn. 32/2021 e 33/2022, assunte dal TAR Lazio a parametro interposto della legittimità dell’azione amministrativa.

Le due “Guide”, contenenti istruzioni sul come non recare danno significativo all’ambiente da parte delle pubbliche amministrazioni, contemplano, tra le varie condizioni di «monitoraggio», quella di non «produrre significative emissioni di gas ad effetto serra, tali da non permettere il contenimento dell’innalzamento delle temperature di 1,5°C fino al 2030».

L’enunciato non è chiarissimo, ma non per questo è privo di significato, non solo perché collegabile alla definizione di mitigazione climatica, di cui all’art. 2 del Reg. UE n. 852/2020 (ovvero «il processo di mantenere l’aumento della temperatura media mondiale ben al di sotto di 2°C e di proseguire gli sforzi volti a limitarlo a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, come stabilito dall’accordo di Parigi»), ma soprattutto perché proprio «il contenimento dell’innalzamento delle temperature di 1,5°C fino al 2030» riflette un «processo scientifico» che non può non spettare ad «esperti della materia».

Ora, gli «esperti della materia», come attestato – tra l’altro con il consenso dei Governi – dai Rapporti dell’IPCC (il Panel Intergovernativo dell’ONU sul Cambiamento Climatico), ci dicono che l’unica modalità di «monitoraggio» del DNSH, con riguardo alle emissioni nel «contenimento dell’innalzamento delle temperature di 1,5°C fino al 2030», è rappresentata dal conteggio del “Carbon Budget” residuo, ovvero della quantità cumulativa di gas serra che può ancora essere immessa in atmosfera senza superare la soglia di temperatura concordata fino al 2030 (cfr. IPCC Focal Point for Italy, Budget di carbonio). Esiste, dunque, un «riscontro oggettivo e verificabile» per il perseguimento del particolare requisito di DNSH, indicato dalle due Circolari della Ragioneria Generale dello Stato in applicazione del Reg. UE n. 852/2020.

Il problema è che le Amministrazioni italiane ignorano del tutto questo parametro oggettivo, a causa del fatto che Governi e Parlamento italiani, a differenza di altri Stati, non hanno mai proceduto alla quantificazione del “Carbon Budget” residuo ai fini del «monitoraggio» del DNSH (cfr. Global Carbon Project).

Siamo al surreale:

– sul fronte economico-finanziario, le PA, «in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico» (art. 97, primo comma, Cost.);

– invece, sul fronte dell’ecosostenibilità, che ora, tra l’altro, dovrebbe procedere «anche nell’interesse delle future generazioni» (art. 9, terzo comma, Cost.), le P.A. agiscono e provvedono senza alcun «riscontro oggettivo e verificabile» sulle emissioni di gas serra, in uno scenario di condotte materiali che tutto possono essere fuorché in «rigorosa aderenza» con le fonti invocate dal TAR Lazio (a partire dalle due Circolari della Ragioneria Generale dello Stato).

Infatti, con l’omissione della quantificazione del “Carbon Budget” residuo, ad essere violato è proprio il diritto europeo, in due direzioni:

– da una parte, l’omissione del “Carbon Budget” residuo, impedendo il «monitoraggio» del DNSH sui gas serra, è foriero di danni o comunque «rischi per le persone e l’ambiente», in violazione non solo del principio di precauzione, ma anche delle c.d. “garanzie minime di salvaguardia” dell’ecosostenibilità, previste dall’art. 18 del Reg. UE n. 852/2020 e chiarite, nella loro portata di tutela effettiva dei diritti, dalla Comunicazione della Commissione 2023/C 211/01 (sulla “interpretazione e sull’attuazione di talune disposizioni giuridiche di cui al regolamento sulla tassonomia dell’UE”), e dello stesso Reg. UE n. 1119/2021 (la “normativa europea sul clima”), dove, ai Considerando nn. 6 e 9, si puntualizza che la mitigazione climatica deve procedere nel rispetto della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e del principio del “non nuocere”;

– dall’altra, l’assenza del “Carbon Budget” residuo vanifica il perseguimento della “neutralità climatica” al 2050, vincolante tutti gli Stati sempre ai sensi del Reg. n. 1119/2021, e questo perché, come spiega il cit. IPCC Focal Point for Italy «le emissioni dovranno essere azzerate [presupposto fattuale della “neutralità climatica”, ndr] prima che il carbon budget sia finito».

Stando così le cose, l’omissione italiana del “Carbon Budget” residuo si profila del tutto incostituzionale: espressione di una discrezionalità manifestamente arbitraria, nel significato attribuito dalla Corte costituzionale alle “scelte” del potere che, tra quelle a disposizione, opta per le meno giustificabili e più dannose (cfr., da ultimo, Corte cost., Sent. n. 73/2023).

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