Premierato: il nodo è il Parlamento

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di Fabio Ferrari

Nonostante le rassicurazioni della Presidente del Consiglio Meloni, il progetto di riforma costituzionale comprime senza alcun dubbio i poteri del Capo dello Stato.

Perché le cose stiano così è già stato ben illustrato da più parti (vedi da ultimo Buzzacchi), visto il fondamentale ruolo di ‘supplenza’ che i Presidenti della Repubblica sono stati nel tempo costretti a esercitare, anche loro malgrado, innanzi alle inefficienze della politica.

C’è però un aspetto che sembra opportuno segnalare, e che se possibile aggrava il giudizio sul progetto di riforma.

Il Presidente della Repubblica non ha poteri politici propri, in senso stretto, nel nostro ordinamento. Ogni suo atto, prescrive la Costituzione, deve essere controfirmato dal ministro proponente, che ne assume la responsabilità. Ciò è tanto più vero nella forma di governo, ove nulla può realizzarsi senza l’assenso dell’organo sovrano: il Parlamento.

La retorica dei ‘governi del Presidente’, a cui si è aggiunta qualche discutibile sentenza della Corte costituzionale (n. 200 del 2006 e n. 1 del 2013), ha gradualmente sminuito questo dato formale, fino quasi a smarrirne il tratto decisivo: non vi è e non può esservi alcun governo del Presidente, perché ogni Esecutivo è necessariamente del Parlamento. Che il Capo dello Stato abbia giocato un ruolo decisivo nel propiziare le condizioni per l’avvento di governi più o meno tecnici è certo, ma ciò non dovrebbe consentire di confondere il dato descrittivo con quello prescrittivo, la sostanza con la forma. Presidenziale o meno che sia stata l’origine dei governi, è stato sempre e comunque il Parlamento a formalizzarne la legittimità attraverso il voto di fiducia, come proprio di una Repubblica parlamentare.

Ciò significa che l’apprezzabile flessibilità dell’attuale sistema non esalta le prerogative del Capo dello Stato, ma le chances del Parlamento di uscire da una crisi di governo senza che sia necessario sciogliere le Camere, a meno che proprio questa non sia la volontà dell’organo rappresentativo, a cui niente il Capo dello Stato può opporre (basti ricordare lo scioglimento del 2008 da parte del Presidente Napolitano).

È chiaro che più è debole la politica, come insegna l’immagine della ‘fisarmonica’ di Giuliano Amato, più il ruolo del Presidente si irrobustisce, fino a trasformarsi da alto supervisore a vero e proprio regista. Ma nulla cambia dal punto di vista formale.

Questo aspetto è determinante, poiché stando così le cose, l’attuale progetto di riforma svilisce i poteri del Parlamento (prima ancora delle prerogative del Presidente delle Repubblica), ossia dell’unico, vero, autentico organo sovrano dell’ordinamento, che ben poco potrà fare innanzi alle endemiche crisi di governo che caratterizzano il nostro Paese.

Tocqueville segnalava come non vi sia nulla di più importante della forma in una democrazia, sottolineando però quanto sia difficile farlo comprendere ai cittadini (La democrazia in America, Libro III, Parte IV, Cap. VII). Coglieva nel segno: si è tutti giustamente preoccupati per gli effetti della riforma sul ruolo del Capo dello Stato, ma è anzitutto per un Parlamento già da tempo esanime che si dovrebbe temere.

Il resto è solo un’importante ma inevitabile conseguenza.

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