L’ospite

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di Camilla Buzzacchi

Viene detto che la proposta governativa di modifica della forma di governo italiana non incide sulle prerogative del Presidente della Repubblica. Soprattutto l’art. 87, ovvero la disposizione che racchiude gran parte delle attribuzioni di questa istituzione, appare integralmente mantenuto dai ddl di revisione come è attualmente.Ciò legittima l’affermazione secondo la quale il “premierato non toglie poteri al capo dello Stato”, che da mesi viene ripetuta dagli estensori dei progetti e che in particolare il presidente del Consiglio ha tenuto a ribadire in occasione della conferenza stampa di inizio 2024. Anzi, è stato addirittura sostenuto che sia stato “scientificamente scelto di non toccare i poteri del Capo dello Stato”: dunque ci si trova davanti, secondo la visione della parte politica che sta intestandosi la riforma, ad un intervento di rilevanza epocale, dato che mira a trasformare la forma di governo; e tuttavia non ascrivibile alle grandi riforme, che nei primi due decenni di questo secolo sono state “tentate”, con risultati fallimentari.

Proprio a fronte di questi precedenti di insuccesso l’indirizzo più recente è di puntare invece su cambiamenti della Carta che sarebbero minimali, quasi “chirurgici”: tale profilo contenuto pare rassicurare circa l’idoneità a non alterare gli equilibri tra le varie componenti costituzionali, e soprattutto tra Parlamento, Governo e vertice della Repubblica. Come se il numero di disposizioni coinvolte fosse elemento sufficiente per liquidare una riscrittura come un mero aggiustamento di regole, che lascia intatte le scelte delle origini; e come se fosse possibile manipolare un organo, senza che le altre sedi delle funzioni pubbliche non ne risultino condizionate.

Così è sembrato con la revisione del 2020 di riduzione del numero dei membri delle due assemblee parlamentari: in fondo solo due disposizioni sono rimaste coinvolte – gli artt. 56 e 57 – ed è parso dunque che le ripercussioni della riduzione di più di un terzo dei rappresentanti del popolo italiano sia stata un maquillage istituzionale con nessuna conseguenza sul ruolo del soggetto legislativo e sui suoi rapporti con le altre istituzioni. La sua funzionalità è stata evidentemente variata – e solo parzialmente risistemata da alcune decisioni di riequilibrio sul piano dei regolamenti parlamentari – ma tale passaggio non è stato considerato menomativo della posizione del Parlamento rispetto agli altri organi costituzionali.

Così sembra anche ora, a fronte di due proposte di modifica della Carta che riguardano “solo” poche disposizioni: gli artt. 59, 88, 92 e 94 nel caso del ddl n. 935; gli artt. 88, 93, 94 e 95 se verrà approvato il ddl n. 830. In entrambi i casi viene detto che la convinzione della rilevanza delle funzioni di garanzia del Presidente della Repubblica rimane immutata, e la dimostrazione di tale assunto ci viene fornita sottolineando che tutti i c.d. “poteri” del Presidente vanno esenti dall’intervento riformatore. O quasi, se si considera che il ddl governativo chiuderebbe la stagione dei senatori a vita, e dunque eliminerebbe la correlata decisione presidenziale che integra la rappresentanza politica del Senato con figure dotate di una qualità diversa di rappresentatività.

Ma al netto di questa novità, tratto distintivo di entrambe le proposte non è il ridimensionamento numerico delle funzioni presidenziali. Anzi, forse si verificherebbe addirittura il contrario perché, a voler tenere la contabilità delle attribuzioni contemplate, se ne ritroverebbero addirittura due nuove. Infatti, si prevede anzitutto di modificare l’art. 94 disponendo che “nel caso in cui non venga approvata la mozione di fidu­cia al Governo presieduto dal presidente eletto, il Presidente della Repubblica rinnova l’incarico al presidente eletto di formare il Governo”: la ratio, come chiarisce la relazione di accompagnamento del ddl dell’esecutivo, è  di concedere “una se­conda ed ultima possibilità al Presidente del Consiglio di formare un Governo in modo da evitare l’estrema ratio rappresentata dal­l’immediato scioglimento delle Camere”.

Secondariamente il Presidente guadagnerebbe un altro decisivo potere: sempre per effetto dell’art. 94 modificato, il Capo dello Stato potrebbe “conferire l’incarico di formare il Governo al presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al presidente eletto”. In entrambi i casi si tratterebbe di spazi di valutazione e decisione che allargherebbero la sfera di competenza della prima carica dello Stato.

Parrebbe dunque confermato l’intento dichiarato nella medesima relazione di “preservare al mas­simo grado le prerogative del Presidente della Repubblica, che l’esperienza repubbli­cana ha confermato quale figura chiave della forma di governo italiana e dell’unità nazio­nale”. Stando a tali proclami, la “figura chiave” non rischierebbe di presentarsi, il giorno dopo la conclusione dell’iter revisionale, come un semplice complemento di arredo, che solo formalmente accompagnerebbe passaggi istituzionali che invece, sostanzialmente, sarebbero determinati esclusivamente da logiche politiche interne alla coalizione di governo. Nonostante il crescente sospetto che rispetto a tali passaggi istituzionali decisivi il custode della Costituzione non potrebbe più esercitare quel ruolo di “fisarmonica” con il quale più di una presidenza ha potuto indirizzare il sistema politico-istituzionale nella prospettiva della salvaguardia dell’interesse della comunità, le affermazioni di tanti convinti sostenitori del premierato non sembrano lasciare dubbi.

Non sembrano, anche se invece recenti dichiarazioni del presidente del Senato, oggetto di riflessioni in questa Rivista, sono state esattamente di tenore opposto, lamentando che il Presidente della Repubblica si trovi oggi in grado di esercitare “poteri più grandi di quelli che originariamente la Carta prevedeva e trovando rassicurante che “un’elezione diretta del presidente del Consiglio potrebbe ridimensionare l’utilizzo costante di questi ulteriori poteri: ridimensionarli non eliminarli”.

Difficile allora stabilire se da parte degli estensori delle proposte l’autentica percezione nei confronti dell’organo di garanzia sia di apprezzamento o di intralcio; e se la volontà sia di volerne mantenere il ruolo – e non solo la presenza – o di perseguirne l’esautoramento. Quest’ultimo risultato da conseguire senza “smontare” il complesso delle attribuzioni presidenziali, ma piuttosto lasciando il Capo dello Stato tranquillamente accomodato dov’è, senza che però possa interferire con il mandato del premier e della sua maggioranza: i quali sono chiamati ad assicurare l’obiettivo della “governabilità del sistema” e l’avvento di “una democrazia di investitura” – così promette sempre la stessa relazione, e si tratta di finalità che ormai presentano elementi quasi di trascendenza – e non possono trovarsi ostacolati nell’impresa.

Elementi utili per fornire qualche prima risposta al dilemma potrebbero arrivare da quanto il Governo deciderà di accogliere con riferimento ai rilievi espressi dal Presidente della Repubblica in merito alla legge annuale per il mercato e la concorrenza 2022, in occasione della relativa promulgazione. Ai due Presidenti di assemblea e alla Presidenza del Governo il Capo dello Stato ha rivolto un richiamo teso a evidenziare “i profili di contrasto con il diritto europeo” e manifestando l’aspettativa di un’adozione a breve di “indispensabili ulteriori iniziative di Governo e Parlamento”.

La fisarmonica del Presidente aveva del resto suonato le medesime note quasi un anno fa, allorché aveva denunciato la criticità delle scelte assunte dalla maggioranza governativa con il decreto milleproroghe del 2022 in tema di concessioni balneari, a cui vari contributi di questa Rivista hanno già rivolto l’analisi: la lettera presidenziale di alcuni giorni fa si riallaccia proprio a quell’appunto. Essa ricorda che il ripetuto rifiuto a conformarsi a giurisprudenza sovranazionale e nazionale, che ha affermato con chiarezza quali adempimenti il diritto europeo chieda agli Stati membri in tema di circolazione dei servizi e libertà di stabilimento, era già stato «oggetto di una mia precedente lettera del 24 febbraio 2023, inviata ai presidenti delle Camere e al presidente del Consiglio dei ministri, ove evidenziavo i profili di contrasto di quella disciplina con il diritto europeo e, quindi, con il dettato costituzionale».

Un altro episodio recente è stato quello della normativa riguardante il divieto di commercializzazione delle carni coltivate, la cui promulgazione lo scorso 1 dicembre è stata accompagnata da un invito al Governo a conformarsi a eventuali osservazioni che potrà formulare la Commissione europea a seguito della procedura di notifica, nel quadro della salvaguardia della circolazione delle merci.

Governo e Parlamento sono dunque chiamati a dimostrare già da ora se il Presidente della Repubblica è da considerarsi l’organo con specifiche prerogative funzionali alla custodia della cornice costituzionale – e di quella europea, che ad essa è assimilata – cosicché i suoi richiami non possano che essere presi in seria considerazioni e tradotti in misure anche contraddittorie rispetto a passi adottati dalla maggioranza governativa, e nelle sue corde per ragioni ideologiche ed elettorali; o è da ritenersi un ospite a cui si continua a garantire la permanenza nel perimetro istituzionale purché non disturbi il conducente, chiamato al sommo compito di assicurare la “governabilità del sistema”.

Il Ministero delle infrastrutture ha già dato un segnale difficilmente equivoco con il decreto n. 389 del 18 dicembre 2023: gli importi dei canoni delle concessioni demaniali marittime sono stati ridotti del 4,5% rispetto al 2023, andando così direttamente a produrre l’effetto di abbassare ulteriormente il gettito che quei beni pubblici garantiscono alla collettività. Ma indirettamente palesando il persistente proposito di disconoscere che i canoni di quelle concessioni sono destinati ad essere definiti da gare competitive quando l’ordinamento si conformerà al diritto europeo, come indicato dal Presidente della Repubblica.

Il presidente del Consiglio ha da parte sua dichiarato che “ovviamente l’appello del Presidente non rimarrà inascoltato”: dall’effettivo riassetto della disciplina delle concessioni, che Governo e Parlamento adotteranno rispetto a tale indicazione presidenziale, risulterà più manifesta la schietta intenzione delle proposte di revisione. E si saprà se il futuro per il Presidente della Repubblica è di “figura chiave della forma di governo italiana e dell’unità nazio­nale” – con tutti i “poteri” che devono poter essere esercitati perché l’alterazione della forma di governo non diventi anche alterazione della forma di Stato – o se si prefigura una comoda collocazione di tale istituzione quale ospite tollerato, ma solo a parole ascoltato.

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