Nel comunicato-stampa del Consiglio dei ministri del 3 novembre 2023 si legge che il ddl governativo approvato “introduce un meccanismo di legittimazione democratica diretta del Presidente del Consiglio dei ministri, eletto a suffragio universale con apposita votazione popolare che si svolge contestualmente alle elezioni per le Camere, mediante una medesima scheda” (corsivo aggiunto). Nella bozza ufficiosa (ma su carta intestata del Ministero delle riforme) circolata in quei giorni si leggeva: “Le votazioni per l’elezione del Presidente del Consiglio e delle Camere avvengono tramite un’unica scheda elettorale” (art. 3). Nel ddl autorizzato dal Presidente della Repubblica e trasmesso alle Camere il 15 novembre la previsione della “scheda unica” è semplicemente sparita. Ora si prevede soltanto che le Camere e il Presidente del Consiglio siano eletti “contestualmente”. Nessuno ne sentirà la mancanza: la disposizione suscitava notevoli perplessità (si veda ad es. G. Tarli Barbieri), anche perché sembrava adombrare una sorta di votazione “in blocco” (“voto fuso”) di Presidente del Consiglio, Camera e Senato, escludendo ogni possibilità di voto “disgiunto” (e cioè distinto tra i tre organi da eleggere), in palese contrasto tra l’altro con quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza 1/2014 (mi riferisco alla parte della sentenza che censura le liste lunghe e bloccate nella misura in cui “coartano la libertà di scelta degli elettori nell’elezione dei propri rappresentanti in Parlamento, che costituisce una delle principali espressioni della sovranità popolare, e pertanto contraddicono il principio democratico” – cons. in diritto 5.1).
D’altra parte, questa non è neppure l’unica differenza tra bozza e testo ufficiale, Alfonso Celotto ne ha notate altre tre, tra cui anche l’aggiunta di un intero lungo periodo alla proposta di revisione dell’art. 94 (“Qualora il Governo così nominato non ottenga la fiducia e negli altri casi di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio subentrante, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere”). Vale tuttavia la pena notare che la soppressione della scheda unica, a differenza delle altre modifiche, ha un impatto qualitativo molto forte: è un vero e proprio revirement rispetto a un punto non secondario dell’impianto del ddl, laddove le altre o sono revisioni stilistiche o, come nel caso del periodo aggiunto, chiarimenti su ambiguità lasciate aperte dal testo originario (lo stesso comunicato-stampa specificava che “L’eventuale cessazione del mandato del sostituto così individuato determina lo scioglimento delle Camere”). Tant’è vero che la cosa non è passata inosservata da parte di alcuni esponenti della maggioranza di governo che non hanno risparmiato critiche.
Cosa sia successo possiamo solo immaginarlo, visto che nulla trapela da Palazzo Chigi o dal Quirinale, né ovviamente è possibile leggere la delibera del CdM. Se dobbiamo prestar fede al comunicato-stampa, le possibilità sono due: o il Governo ha avuto un ripensamento, o la modifica è avvenuta su pressione del Presidente della Repubblica. In entrambi i casi si sarebbe comunque in presenza di un testo deliberato dal CdM sostanzialmente diverso da quello trasmesso alle Camere. La cosa non ci sorprende più di tanto alla luce della problematica prassi delle approvazioni di DL “salvo intese”. Ma qui il problema è ancora più serio, sia perché l’opzione del “salvo intese” non risulta essere stata esercitata (e quindi eventuali modifiche e integrazioni non sarebbero state autorizzate dal CdM stesso), sia perché si tratta di un importante progetto di riforma costituzionale. Desta preoccupazione che un testo del genere sia stato redatto con così poca cura da richiedere simili aggiustamenti. Ma soprattutto non è ammissibile che su queste vicende regni la più totale opacità e si sottraggano così preziosi elementi per un dibattito pubblico essenziale alla vita democratica del Paese. Non si possono allora sottacere le eventuali responsabilità del Governo e del Presidente della Repubblica, se l’ipotesi della difformità fosse veritiera. Il Governo avrebbe dovuto senz’altro riconvocare un nuovo CdM e deliberare il nuovo testo. Il Presidente non avrebbe dovuto autorizzare la trasmissione di un testo sensibilmente diverso da quello approvato dal CdM.
Quali rimedi giuridici? Una reazione dovrebbe avere luogo in Parlamento, che è il soggetto tenuto fuori da queste dinamiche presidenzial-governative, e che ha tutto il diritto di discutere un testo formatosi in modo corretto. Non sarebbe innanzitutto fuori luogo una interrogazione parlamentare per appurare se e in cosa il testo approvato in CdM differisca da quello del ddl. Se il sospetto venisse confermato sarebbe allora da considerare la strada del conflitto di attribuzione, anche se si tratterebbe di una strada molto stretta e impervia. Si potrebbe infatti innanzitutto sostenere che le Camere, essendo comunque libere di emendare, non sono state in concreto lese nelle proprie attribuzioni. E però è evidente che un conto è partire da un testo A, un altro da un testo B: il dibattito assume una piega differente per forza di cose e risulta in qualche modo compromesso in partenza. A ben vedere la maggiore difficoltà è data dal fatto che è pressoché impossibile che una Camera in quanto tale promuova il conflitto, dato che equivarrebbe in sostanza alla votazione di una questione pregiudiziale.
Occorre quindi domandarsi seriamente se non sia praticabile il ricorso del singolo parlamentare. Nell’ordinanza della Corte costituzionale 17/2019 si afferma che il singolo parlamentare può promuovere un conflitto ove venga in rilievo il “complesso di attribuzioni inerenti al diritto di parola, di proposta e di voto che gli spettano”. È indubbio che la presentazione di un testo diverso da quello deliberato leda di riflesso anche le prerogative del singolo parlamentare, che è costretto a partecipare a un procedimento legislativo “falsato” da un esercizio scorretto del potere di iniziativa legislativa. E tuttavia la Corte ha anche posto una soglia molto elevata ai fini dell’ammissibilità del conflitto, esigendo “una sostanziale negazione o un’evidente menomazione della funzione costituzionalmente attribuita al ricorrente”. La questione rimane quindi di difficile risoluzione. Due elementi però in questo caso giocano in favore dell’ammissibilità del conflitto promosso dal parlamentare uti singulus: 1) in questa menomazione delle prerogative del parlamentare non sembra avere alcun ruolo l’autonomia delle Camere, che invece nell’ord. 17/2019 ha rappresentato l’argomento cruciale per negare il raggiungimento della “soglia di evidenza”; 2) non sarebbe fuori luogo argomentare nel senso di una sussidiarietà del ricorso del singolo rispetto a quello dell’intera Camera, dove il primo deve essere tendenzialmente ammesso ove il secondo sia nei fatti impraticabile (come nel caso in cui implichi un voto che incida sullo stesso rapporto di fiducia tra Parlamento e Governo).
Da ultimo, oltre al piano strettamente giuridico rimane quello, non meno importante, del dibattito pubblico: qui il ruolo degli studiosi è essenziale e da loro ci si deve attendere particolare rigore nella valutazione di simili vicende.
Desidero far notare che nel comunicato di Palazzo Chigi del 3 novembre 2023 era già diverso il titolo del disegno di legge, nel quale si faceva riferimento alla razionalizzazione del rapporto di fiducia, trascurando il dato elementare che già si è avuta con la Carta del ’47…
Ora, se quello indicato nel comunicato in parola è il testo approvato dal Consiglio dei Ministri, torno qui a chiedermi (ma v., volendo, un mio scritto su Consulta on line del 20 novembre scorso, 1009 ss.) se il testo la cui presentazione è stata autorizzata dal Capo dello Stato è tornato in Consiglio dei Ministri, prima dell’autorizzazione stessa o quanto meno dopo di essa, per una sorta di “ratifica” delle modifiche apportatevi; altrimenti, com’è chiaro il disegno nasce con un vizio di origine insanabile, non potendosi propriamente qualificare quale atto del Governo, ex art. 92 Cost. Altre stranezze possono, poi, volendo, vedersi nel mio commento suddetto.
Ringrazio di cuore il Prof. Ruggeri per il prezioso commento che conferma, anzi aggrava, le perplessità espresse. Non mi ero reso conto di essere arrivato dopo di lui a occuparmi del tema, anche perché la prima stesura risale a pochi giorni dopo la pubblicazione del suo ottimo articolo su Consulta on line, alle cui conclusioni volentieri mi rifaccio e aderisco. Ho dato per scontato che non ci sia stato alcun ritorno in CdM perché questo non risulta da nessun comunicato-stampa (unica fonte pubblica sui lavori del CdM), ma sicuramente anche questa ipotesi non può essere del tutto esclusa (qui torno a sottolineare l’opacità del tutto). Ad ogni modo, sicuramente ciò non è avvenuto prima dell’autorizzazione del Presidente, dato che tra il 3 e il 15 novembre c’è stato solo un CdM, il 6 novembre, della durata di 4 minuti, con cui è stata conferita la cittadinanza italiana a Indi Gregory.