di Roberto Bin
Il giudice del lavoro di Milano è stato protagonista qualche mese fa di un caso emblematico, che ha fatto parlare la stampa. È la vicenda di un receptionist impiegato in un istituto bancario, ma non dipendente della banca: il suo servizio era stato appaltato all’esterno a una serie di imprese succedutesi nel tempo, da ultimo a una cooperativa. Nella successione degli appalti lo stipendio del lavoratore era stato progressivamente ridotto, quasi dimezzato: probabilmente era grazie a questo tipo di “risparmio” che la cooperativa aveva battuto la concorrenza e si era aggiudicata l’appalto.
Caso raro? No, è quello che avviene regolarmente per tutti i servizi “esternalizzati” tanto da imprese private, quanto da tutti gli enti pubblici: ospedali, università, enti locali, ecc. È il mercato! Sono tutte zone che stanno fuori da quell’area che il presidente di Confindustria vanta essere tutta presieduta dai contratti!
Al nostro receptionist, per un lavoro a tempo pieno, veniva corrisposto uno stipendio mensile netto di € 685,25, corrispondente ad una paga oraria di € 3,96. La cosa più interessante è che questa era la paga prevista da un Contratto collettivo di lavoro («Servizi Fiduciari»), sottoscritto solo da alcuni sindacati nazionali, ma proprio da quelli più rappresentativi.
Il giudice del lavoro milanese ritiene che una retribuzione così bassa violi l’art. 36 Cost., che prescrive che «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Questa è una delle pochissime occasioni in cui la Costituzione cita la «dignità» tanto spesso richiamata dai suoi interpreti (l’altra è contenuta nell’art. 3, che, enunciando il principio di eguaglianza, assicurando a tutti «pari dignità sociale»). Ma di applicazione diretta dell’art. 36 da parte dei giudici del lavoro non è affatto la prima volta.
Era accaduto soprattutto nei primi anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione (1948), quando ancora non era in funzione la Corte costituzionale (1956): spesso i giudici del lavoro davano applicazione diretta all’art. 36 Cost., con conseguente annullamento di contratti individuali di lavoro in cui si prevedeva un trattamento economico troppo basso. Questa interpretazione della norma contenuta nell’art. 36 ebbe l’avallo anche della Corte costituzionale (sent. 156/1971). Ma a quei tempi erano i grandi contratti collettivi nazionali di lavoro a costituire il riferimento sicuro per individuare il livello di compenso “dignitoso” nei comparti sprovvisti di tutela sindacale. Invece, la sentenza di oggi giunge a dichiarare l’illegittimità, per contrasto con l’art. 36 Cost., dello stesso contratto nazionale di comparto, a cui i sindacati nazionali hanno aderito in tempo di evidente grave debolezza contrattuale, accettando livelli stipendiali indecorosi e senza riuscire mai a rinnovarlo.
Ma il giudice milanese non si inventa una nuova retribuzione dignitosa. Ragiona su quella che è la “soglia di povertà”, sotto la quale un lavoro a tempo pieno (40 ore settimanali) non può scendere senza violare la Costituzione. Per esempio l’ISTAT – il servizio statistico nazionale – ha fissato in 839,70 per il 2020 l’indice di povertà assoluta: perciò il giudice prende a riferimento altri contratti nazionali per lavori comparabili e alla fine applica quello che fissa una retribuzione che sembra accettabile (è il CCNL per i servizi di vigilanza e custodia in ambito commerciale): e così la paga mensile raggiunge € 888,84. Non molti, ma almeno un po’ sopra la soglia di povertà assoluta.
L’aspetto più rilevante di questa sentenza, ciò che la distacca nettamente dai precedenti degli anni ’50 sopra ricordati, è che essa non va in soccorso di lavoratori privi di ogni tutela sindacale, che non hanno cioè un contratto collettivo che assicuri loro una retribuzione dignitosa: è proprio il CCNL che viene loro applicato a risultare indecoroso e dover quindi essere annullato perché contrario all’art. 36 Cost. Molto è cambiato nel mondo del lavoro, evidentemente, ma la tutela costituzionale è rimasta ferma.
Si può non provare irritazione quando si sente pontificare che la questione del salario minimo è troppo complessa per essere fissata per legge e che sarebbe meglio rafforzare la contrattazione? E’ un ragionamento che parte da una premessa sbagliata: che per qualche ragione “tecnica” sia compatibile con l’art. 36 Cost. che ad una persona che vive del suo lavoro venga corrisposto un salario inferiore alla soglia di povertà: che, cioè, pur avendo un lavoro a tempo pieno, non guadagni abbastanza per una vita “libera e dignitosa“.
Qui non si tratta dei milioni di persone che hanno solo lavori a termine, sono disoccupati o inattivi disponibili al lavoro. Sono persone che hanno la “fortuna” di un lavoro a tempo indeterminato, ma sono retribuiti sotto il limite della decenza, per cui devono ammazzarsi di straordinari per raggiungere la soglia di sopravvivenza. E sono persone che stanno fuori dal campo visivo delle imprese socie di confindustria e delle amministrazioni pubbliche, i cui conti sono sani e prosperi perché hanno “esternalizzato” tutti i costi dei servizi di cui pure godono: dalle pulizie alla vigilanza, dalle forniture ai trasporti. E che perciò possono tranquillamente dichiarare che la battaglia per il salario minimo non li riguarda!
La vignetta è ovviamente di Altan
Un’osservazione strettamente giuridica.
La l. 26 aprile 1930, n. 877 dispose l’adesione dell’Italia alla Convenzione di Ginevra del 6 giugno 1928, promossa dall’Organizzazione internazionale del lavoro, concernente la fissazione di salari minimi per i lavoratori dipendenti da imprese per le quali non esiste un sistema efficace di determinazione delle retribuzioni mediante contratto collettivo o dove i salari sono eccezionalmente bassi.
L’ordine di esecuzione della Convenzione posto dalla l. 877/1930 è rimasto vano. Da oltre 90 anni l’Italia è inadempiente al suo obbligo internazionale, né è stata data attuazione all’art. 39, ultimo comma, della Costituzione repubblicana sull’efficacia erga omnes della contrattazione collettiva.