1 – La progressività perseguita nei primi anni della Repubblica. L’art. 3 della Costituzione stabilisce che “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Per realizzare gli scopi dell’art. 3 la Costituzione stabilisce che il prelievo fiscale per “concorrere alle spese pubbliche” debba essere distribuito a carico dei cittadini tutti “…in ragione della loro capacità contributiva” e che “Il sistema tributario è informato a criteri di progressività” (art. 53). La Costituzione ha indicato il fine (art. 3) e il mezzo (art. 53).
Due economisti cattolici, Ezio Vanoni e Pasquale Saraceno – nel 1943, con il Codice di Camaldoli – avevano preconizzato quello che si ritrova nell’art. 53 della Costituzione e nei primi anni della Repubblica. La legislazione tributaria sarà infatti informata a quei principi: la riforma del 1951 (Governo De Gasperi, Ministro Vanoni) che introdusse la dichiarazione unica annuale dei redditi e il piano Vanoni per lo sviluppo dell’occupazione e del reddito del 1954 (Pella – Vanoni), sfociati infine nel T.U. delle imposte sul reddito del 1958 (Fanfani- Andreotti). Una legislazione incardinata su due principi chiamati a realizzare le finalità dell’art. 3: la discriminazione quantitativa e la discriminazione qualitativa dei redditi.
I più vecchi ricordano che vi era il calcolo di un’imposta (R.M.) con aliquota proporzionale, ma diversa e decrescente a seconda che si trattasse di redditi di solo capitale (cat. A), oppure di capitale e lavoro e quindi d’impresa (cat. B), di lavoro autonomo (cat. C1) o subordinato (cat. C2). La prima voce diversificava il prelievo a seconda della fonte che lo produceva: la discriminazione qualitativa del reddito. Lo stesso reddito era poi sottoposto a una discriminazione quantitativa ai fini del calcolo dell’imposta complementare progressiva sul reddito. Al T.U. era allegata una tabella con una lunghissima serie continua e crescente di scaglioni di reddito (152 suddivisi in gruppi di cinque) cui corrispondevano altrettante aliquote, riguardanti l’imposta complementare progressiva sul reddito complessivo, molto basse sui redditi più bassi e poi progressivamente sempre più elevate.
L’aliquota più bassa, appena fuori dalla no tax area, di Lit. 240.000 (Euro 123,40 corrispondenti oggi in potere d’acquisto a Euro 3.806,21), era del 2% (Lit. 4.800, Euro 2,47 corrispondenti oggi a Euro 76,19) e saliva progressivamente fino al 50% per un reddito pari a Lit. 500 milioni (oggi corrispondenti, in potere d’acquisto, a Euro 7.965.572,69).
L’imposta progressiva personale era pari all’importo corrispondente alla propria aliquota, detratta l’imposta proporzionale (R.M.) calcolata e corrisposta a parte e diversificata secondo la fonte, in modo tale da non comportare nessun salto o divaricazione ingiusta e irrazionale di imposizione tra uno scaglione di reddito e quello immediatamente superiore. Era un sistema impostato a far crescere linearmente l’aliquota applicata ad ogni tot di reddito dichiarato in più, realizzando, senza salti illogici, la perfetta linearità di crescita dell’imposta al crescere del reddito.
2 – La violazione a tappe forzate della Costituzione. Con il DPR 597/1973 istitutivo dell’IRPEF (Governo Fanfani, Ministro del Tesoro Colombo) le aliquote e i relativi scaglioni scendono a trentadue. La progressività è fortemente compressa, ma niente a che vedere con la rinuncia che caratterizzerà la legislazione dal 1983 in poi. L’esame comparato delle aliquote IRPEF del T.U. del 1958 e del 1974 con quelle sugli stessi scaglioni di reddito, aggiornati a oggi, è la prova dell’insostenibile aumento del prelievo sui redditi bassi e medi a fronte di una forte e continua flessione del prelievo, fino al dimezzamento sui redditi via via più alti. Alcuni esempi chiariscono l’affermazione.
a) – un reddito di Lit.1.000.000, pari a Euro 516,35 nel 1958 era tassato, al lordo dell’imposta proporzionale con l’aliquota del 3,17%, scontando un tributo di Lit. 31.700, pari a Euro 16,37; nel 1974 lo stesso reddito, in termini di potere d’acquisto pari a Euro 1.067,30 avrebbe scontato un imposta del 10% pari a Euro 106,73; oggi quel reddito in termini di potere di acquisto sarebbe pari a Euro15.930,93 e con le aliquote Vanoni avrebbe scontato un’imposta di Euro 505,01, con le aliquote del 1974 avrebbe scontato un’imposta del 10% pari Euro 1.593,09 e oggi, secondo le aliquote IRPEF 2023, sconta un tributo del 23% pari a Euro 3.664,11 oltre sette volte superiore rispetto a quella che il fisco avrebbe percetto nel 1958 e due volte e mezzo di quella del 1974;
b) – un reddito di Lit. 2.000.000, pari a Euro 1.032,70 nel 1958 era tassato, al lordo dell’imposta proporzionale, con l’aliquota del 4,12% scontando un tributo di Lit. 82.400, pari a Euro 42,55; lo stesso reddito oggi in termini di potere d’acquisto è pari a Euro 31.754.75, secondo le aliquote Vanoni avrebbe scontato un tributo di Euro 1.308,29, con l’aliquota del 1974 del 13% un tributo di Euro 4.128,11, mentre oggi sconta un’IRPEF di Euro 7.638,5 (3.450,00+25% della parte eccedente 15.000) sei volte più elevata di quello che il fisco avrebbe percetto nel 1958 e quasi il doppio di quella del 1974;
c) – un reddito di Lit. 4.000.000, pari nel 1958 a Euro 2.065,82 era tassato, al lordo dell’imposta proporzionale, con l’aliquota del 5,46% scontando un tributo di Lit. 218.400 pari a Euro 112,79; oggi lo stesso reddito in termini di poter d’acquisto è pari a Euro 56.287,40 e sconterebbe con le aliquote “Vanoni” un’imposta di Euro 3.073,29, nel 1974 avrebbe scontato un tributo del 16% di Euro 9.005,98, mentre oggi, in quanto superiore allo scaglione di Euro 50.000,00, sconterà un’IRPEF pari a Euro 17.103,58 (14.400+43% della parte eccedente 50.000) oltre cinque volte più elevata di quella che il fisco avrebbe percetto nel 1958 e il doppio di quella del 1974;
d) – un reddito di Lit.10.000.000 pari a Euro 5.164,60 nel 1958 era tassato, al lordo dell’imposta proporzionale, con l’aliquota dell’8,11% scontando un tributo di Lit. 811.000, Euro 418,84; oggi un reddito equivalente, in termini di potere d’acquisto pari a Euro 158.775,30, sconterebbe con le aliquote “Vanoni” un’imposta di Euro 12.876.76 e con l’aliquota del 1974 del 31% di Euro 49.220,34 già quadruplicata, mentre oggi sconterà un’imposta del 43% pari a Euro 68.273,37 poco più di cinque volte superiore a quella del 1958 e quasi una volta e mezzo in più di quella del 1974.
e) – un reddito di Lit. 20.000.000 pari a Euro 10.329,13 nel 1958 era tassato, al lordo dell’imposta proporzionale, con l’aliquota dell’11,08%, scontando un tributo di Lit. 2.216.000, Euro 1.144,46; oggi quel reddito, pari in termini di potere d’acquisto a Euro 325.636,15, sconterebbe con le aliquote “Vanoni” un’imposta di Euro 36.080,48, con l’aliquota del 36% del 1974 avrebbe scontato un tributo di Euro 117.229,00, mentre oggi sconterà un’IRPEF del 43% pari a Euro 140.023,54 quattro volte superiore quella che avrebbe scontato con la Vanoni e un quinto circa in più di quella del 1974.
f) – alla fine, salendo di fascia, un reddito di Lit. 500.000.000, pari oggi a Euro 7.965.572,96 con l’aliquota Vanoni sconterebbe un‘IRPEF del 50%, ossia Euro 3.982.786,48, con quella del 1974 pari al 70% sconterebbe un tributo di Euro 5.575.901,07, mentre con le aliquote vigenti sconta un’IRPEF del 43% e quindi di Euro 3.425.196,37 ossia Euro 557.590,11 in meno rispetto all’aliquota Vanoni e circa la metà (Euro 2.150.704,70) in meno rispetto all’aliquota del 1974.
In sintesi. Dopo il DPR 597/1973 istitutivo dell’IRPEF che aveva ridotto gli scaglioni a trentadue con aliquote variabili tra il 10% e il 72%, nel 1983 (Governo Craxi, Ministro Visentini) si attua la svolta decisiva e gli scaglioni si riducono a nove; nel 1998 (Governi Prodi-D’Alema, Ministro Visco) diminuiscono a cinque con l’aliquota più bassa al 18,5%, che nel 2003 (Governo Berlusconi, Ministro Tremonti) sale al 23%.
I redditi superiori a Euro 75.000, oggi pari a Euro 279.900,00 – che nel 1974 avrebbero scontato un’aliquota del 54% in aumento progressivo fino al 65% per i redditi oltre Lit. 500.000.000, pari oggi appunto a quasi otto milioni di Euro – nel 1998 (D’Alema -Visco) beneficiano di un’ulteriore riduzione al 45,5%, per scendere al 43% dal 2005 (Ministro Siniscalco).
L’obbligo di “adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” stabilito dall’art 2 della Costituzione, che l’art. 53 serve a garantire, è stato messo a carico dei ceti meno abbienti e di quelli medi e a favore dei più ricchi.
3- Il disastro dell’iniquità di classe della politica fiscale e l’esplosione del debito pubblico. Dal 1974 al 2018 tutto questo ha prodotto una riduzione del gettito di 146 miliardi di Euro e lo Stato per ovviare al disastro da esso stesso provocato è ricorso ai mercati finanziari, accollandosi, in virtù degli interessi composti, circa 300 miliardi di debito (cfr. Gli effetti delle controriforme fiscali sul nostro debito pubblico, a cura di R. Artifoni, A. De Lellis, F. Gesualdi, reperibile in http://italia.cadtm.org/wp-content/uploads/2018/10/Fisco & Debito1-1.pdf).
Limitatamente all’aspetto che qui interessa, questo è accaduto perché dal 1974 il legislatore ha perseguito tre obiettivi, tutti in contrasto con l’art. 53 della Costituzione: a) aumento delle imposte sui redditi più bassi; b) rinuncia alla progressività con la riduzione degli scaglioni; c) riduzione delle imposte sui redditi più alti. Non siamo di fronte a una generica questione di eccessiva pressione fiscale, ma a un problema molto più serio: lo squilibrio, in danno del sistema costituzionale, del carico fiscale tra i ceti più ricchi e medio alti e i ceti poveri, medio-bassi e medi.
Le leggi importanti, mettendo a rischio la legittimità dello Stato di diritto, ormai le fanno i grandi studi legali, rivestendo con abiti giuridici le idee politiche delle grandi imprese e della grande finanza, con documenti legali lunghi e complessi, in modo che soltanto loro siano in grado di muoversi nel diritto societario, nelle norme fiscali e contabili (cfr. l’analisi di Katharina Pistor, Il Codice del Capitale – Come il diritto crea ricchezza e disuguaglianza, 2021, 163. ss.).
Nella patria del diritto, in materia tributaria, si aggiungono le decine e decine di criptiche circolari dell’Agenzia delle Entrate, decifrabili soltanto dagli iniziati (scritte con un linguaggio volutamente incomprensibile in modo da riservare soltanto a chi le ha scritte l’interpretazione applicativa), una modulistica per la compilazione della dichiarazione dei redditi (in media duecento pagine a doppia colonna ogni anno) espressione dell’indecifrabile forma mentis di redattori lontanissimi da ogni sforzo minimo di trasparenza che dovrebbe aiutare a presidiare il fine di buon andamento e imparzialità nell’endiadi dell’art. 97 della Costituzione, ma che per il legislatore e la p.a. italiani non è neanche un optional.
E’ giusta la condanna morale dell’evasione fiscale perché contrasta la realizzazione dei fini di giustizia sociale dell’art.3. Tuttavia come per ogni fenomeno sociale si deve, prima di tutto, studiarne le cause strutturali. La condanna morale indifferenziata non raggiunge lo scopo se prescinde dalla realtà sociale, risolvendosi a favore dello status quo. E la realtà attuale ci insegna che quando il sistema è capovolto, perché “ideologicamente” impostato sull’ingiustizia fiscale e sulla riduzione della spesa sociale (l’operazione “austerità” coeva alla politica tributaria di sempre più incalzante abbandono del principio dell’art. 53) non solo pagare le tasse non è per niente bello (un po’ di albagia in meno non guasterebbe), ma si distrugge la moralità del contribuente.
Quando l’imposizione fiscale è ingiusta i contribuenti hanno un solo modo per reagire, determinando l’evasione di proporzioni colossali. Tra i più importanti crediti deteriorati vi sono quelli del fisco, spesso connotati ab origine dall’impossibilità di essere onorati. L’evasione fiscale è un fenomeno effetto della “forza delle circostanze” e della perdita di autorità del potere politico che ha ridotto gli affari pubblici al mero esercizio privato di un dominio in danno dei ceti fiscalmente deboli.
Condoni e “rottamazioni” non incidono sull’evasione strutturale, sono manovre di alleggerimento rivolte alla platea diffusa di insolventi per impossibilità della prestazione, a volte temporanea, altre definitiva, a volte non imputabile e altre colpevole. Il risultato inferiore alle attese dipende, oggettivamente, anche dal fatto che tali manovre intervengono su una platea di debitori già stressati dall’ingiustizia del sistema contrastante con il principio di progressività.
Un impianto “ideologico” in contrasto con il principio costituzionale e che, per le ragioni sin qui dette, non è grado di restituire in servizi ciò che percepisce dal tributo, ha bisogno di questi periodici mezzi di regolazione per sopravvivere politicamente e perpetuare la violazione della Costituzione.
Fin qui, in estrema sintesi, sul versante delle entrate. Proviamo a spiegarci sul versante della spesa.
4 – Lo scambio antieconomico della progressività sul prelievo con quella sul costo dei servizi è contro l’art.2 della Costituzione. La scienza delle finanze ha studiato i benefici effetti della progressività essenzialmente sul fronte del prelievo e quindi delle entrate. Sennonché la Costituzione esige anche di finanziare il costo di alcuni servizi essenziali per garantire alcuni diritti, come per esempio il diritto alla salute (art. 32) e quello all’istruzione (artt. 33 e 34). Ciò impone il reperimento di risorse diventate via via sempre più scarse, a causa sia dell’abbandono del sistema fiscale creato da Vanoni e sia della libera circolazione dei capitali, che hanno il brutto vizio di andare dove sono meno tassati e più remunerati.
Dovendo rimediare al danno dell’abbandono del sistema dell’art.53, la politica ha escogitato un furbo espediente che non dovrebbe avere posto nel prelievo delle imposte (intendo “imposte” e non “tasse” nel significato tecnico delle parole), totalmente estraneo al sistema costituzionale e che nella scienza delle finanze è sempre stato studiato come un problema assolutamente diverso.
Invece che dal lato del prelievo si è deciso di praticare la progressività dal lato del costo dei servizi, ossia dal lato della spesa. Il risultato è stato che tutti (dai più ricchi ai meno poveri e salvo alcune fasce di esenzione) dobbiamo pagare per chiedere di essere curati, per mandare i figli a scuola e all’università, così come per usufruire di qualsiasi altro servizio (il servizio giustizia per esempio) che dovrebbe essere istituzionalmente ed essenzialmente gratuito se il prelievo fiscale fosse realmente progressivo ed efficace, o al massimo dovrebbe avere un costo indifferenziato per tutti.
Allora è scesa in campo la “fabbrica del consenso” per manipolare il cittadino medio, eccitando la sua istintiva avversione al prelievo fiscale diretto, avvertito come più gravoso e ingiusto di un prelievo che si è costretti a pagare soltanto quando ci si ammala (tutti speriamo di non ammalarci mai), o quando mandiamo i figli all’università. Contemporaneamente il sistema ha generalizzato ed enfatizzato l’immagine del cittadino criminale evasore per distogliere l’attenzione dall’ingiustizia di un sistema fiscale sempre più regressivo e per questo motivo incapace di restituire in servizi e rispetto dell’art. 2 (…dovere inderogabile di solidarietà…) e dell’art. 3 (…rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale…) quello che ha percepito con il prelievo.
I privatizzatori sono investitori nel fallimento dello Stato sociale, fanno vero e proprio terrorismo. Dicono, per esempio, che la sanità privata è più efficiente di quella pubblica, difendendo i loro ricchi interessi, vogliono farci credere che l’assistenza sanitaria universale è responsabile dell’aumento della pressione fiscale e della minore qualità delle prestazioni mediche (cfr. P. Krugman, Discutere con gli Zombie, 2020, 53 ss.). Così ha vinto la politica che fa gravare il costo dei servizi essenziali non sulla fiscalità generale ma su chi ne usufruisce. Il diritto alle cure (art. 32) è garantito soltanto a chi può esigerlo e il diritto ai gradi più alti degli studi non ai “capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi” (art. 34), ma soltanto se la famiglia può sostenerne i costi.
Questo accade perché la progressività sul fronte delle entrate, prevista dalla Costituzione e teorizzata dalla scienza delle finanze quale strumento diretto di finanza pubblica al servizio degli scopi di regolazione economica e sociale. è stata via via sostituita con la progressività sul lato opposto, provando a recuperare il costo del servizio da chi ne usufruisce, un po’ più elevato per i soggetti fiscalmente più ricchi e un po’ meno per quelli meno capienti, fino all’esenzione per i poverissimi.
Provo a spiegarmi. Prendiamo il ticket sanitario: esclusi, va da sé, i poverissimi, con il ticket non si attua una distinzione tra ricchi e poveri in funzione redistributiva della ricchezza e quindi di equità sociale, ma tra cittadini (ricchi o poveri) che si ammalano e quelli (ricchi o poveri) che non si ammalano. Il gettito prodotto dal ticket dipende dalla diffusione della morbilità tra i ceti sociali e non dalla loro ricchezza. Nell’istruzione si distingue tra ricchi e meno poveri che possono pagare per mandare i figli all’università e poveri che non possono mandare i figli all’università. Chi può pagherà un’assicurazione sanitaria, o attingerà ai risparmi per pagare l’università.
La progressività sul fronte del recupero della spesa pubblica nei servizi essenziali, é manifestamente ingiusta, irrazionale e soprattutto antieconomica, perché non si può pretendere di far dipendere dalla casualità della composizione dell’utenza un effetto redistributivo realizzabile soltanto se praticato sul fronte delle entrate e del prelievo fiscale diretto. Quando i servizi pubblici essenziali finiscono per soggiacere alle logiche del mercato, diventando beni acquisibili soltanto da chi ha i mezzi, va da sé che al danno del cittadino che non può accedervi, si aggiunge il danno per lo Stato a causa della diminuzione del gettito. Tra parentesi, lo scrivente non ha dati sul costo di gestione del sistema del ticket sanitario, ma non mi meraviglierei se in alcuni contesti superasse le entrate.
Con gravissimi effetti di ingiustizia sociale, invece di invertire la rotta e tornare alla progressività dal lato delle entrate, un ceto politico sconsiderato strumentalizza la crisi che egli stesso ha causato per cedere i servizi pubblici essenziali ai privati, che ne fanno sopportare i costi, e i profitti, al cittadino che se capiente ne usufruirà, altrimenti vi rinuncerà. Il trasferimento della progressività dal lato del prelievo a quello del costo dei servizi contrasta apertamente con “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” sanciti dall’art. 2 della Costituzione.
Nell’orizzonte dell’attuale Governo vi è l’”equità orizzontale”, altrimenti detta “limitazione dei disallineamenti nella tassazione” (con la riduzione a tre e in prospettiva sino a due soltanto degli scaglioni e delle aliquote) e tutto finirà con l’ulteriore inasprimento insopportabile per i ceti poveri, medi e medio-bassi e il privilegio per i più ricchi, aggravando una divaricazione sociale già molto pericolosa per la democrazia. Vediamo perché.
5 – Politica di austerità e ingiustizia fiscale – Democrazie a rischio – E se tornassimo ai classici? Alla mia ormai anziana generazione i manuali classici, le cui idee furono preziose dopo la lezione degli anni bui dell’ascesa dei regimi nazifascisti dopo la Grande guerra e la Grande Depressione (dalla quale si uscì con la seconda guerra mondiale), avevano insegnato che per uscire dalle crisi bisognava spendere bene e di più, tassare equamente e ampliare la base monetaria.
E’ finita, invece, che ben prima del fallimento di Lehman-Brothers i manuali classici erano già stati gettati alle ortiche (Paul Krugman, Fuori da questa crisi adesso!, 2012, 213 ss.). Anche in Europa vinceva la politica dei tagli alla spesa sociale, la riduzione delle imposte ai ricchi e l’aumento per i meno abbienti. L’austerità – questa “fatina della fiducia” (Paul Krugman , Discutere con gli zombie, cit.163 ss.) che ha intontito la sinistra – e l’ingiustizia fiscale hanno fatto pagare un prezzo altissimo alla democrazia.
L’austerità del neoliberismo è quanto di più lontano dall’idea del “borghese austero” della letteratura europea del XIX e della prima metà del XX secolo. Quel borghese, convenzionalmente democratico in patria e schiavista nelle colonie, anche quando espressione di quel lato dello spirito animale di un capitalismo pronto a qualsiasi nefandezza pur di fare denaro, in patria, nel contesto di una dura lotta di classe, era un protagonista della crescita sociale, produceva progresso e alleanze tra produttori, non disgregazione sociale come il neoliberismo dei nostri tempi.
L’ austerità neoliberista dei “Chicago boys”, anche nella versione italica, è quella delle “Very Serious People” che hanno imparato che è più facile e conveniente passare dalla lotta alla disoccupazione alla predica del rigore: “sacrifici” per ceti medi e meno abbienti, riduzione dell’imposizione fiscale per i ricchi e riduzione del deficit di bilancio statale con “ortodossi” tagli indiscriminati al welfare a danno di chi ormai non lotta più per migliorare la propria vita, ma soltanto per non peggiorarla.
E’ una politica che ha dimostrato tutta la sua natura fallimentare, e non soltanto socialmente, perché uno Stato non è un’azienda e le risposte politiche sono molto più faticose di quelle individuali. Soprattutto è una politica che ha aperto a esperienze che vanno ben oltre il classico conservatorismo. Per affermarsi l’austerità neoliberista, precostituita all’accentramento della ricchezza, si giova dell’ingiustizia fiscale e ha bisogno di sistemi autoritari e di burocrazie obbedienti per essere gestita. Il segnale del cambiamento e della vittoria politica del neoliberismo a livello mondiale la storia lo aveva dato con il passaggio nodale dell’11 settembre 1973 in Cile.
Soltanto un cenno all’attualità. MES e PNRR, qualunque sia il giudizio politico sulla loro efficacia e convenienza, non sono soluzioni di passaggio, ma strumenti per consolidare strategie politiche di austerità coerenti con il Patto di stabilità. L’Europa distribuisce denaro, in prestito o a fondo perduto, se si riduce la spesa pubblica, id est il welfare. A parte le non prevedibili, ma decisive condizioni economiche e di mercato dei tempi in cui i prestiti saranno erogati e quelli in cui dovranno essere restituiti, è certo che tutto il peso della restituzione e i rischi sociali, con l’attuale sistema tributario e quello che si preannuncia, saranno riversati sui deboli e sulla spesa sociale.
6 – Il processo tributario funzionale all’illegittimità del sistema normativo del prelievo fiscale. Al Ministero dell’Economia e delle Finanze è affidato il compito di garantire il gettito, non di rendere giustizia. Tuttavia il Ministro (sul quale grava la responsabilità civile, amministrativa e politica ai sensi dell’art. 95 della Costituzione) che nomina i giudici tributari, su conforme parere del Consiglio di Giustizia Tributaria (art.9 d.lgs. n.545/1992), è lo stesso che deve garantire che le entrate tributarie assicurino il pareggio di bilancio, la coerenza con l’ordinamento dell’UE e la sostenibilità del debito pubblico, tenendo conto dell’andamento del ciclo economico (l. cost. n.1/2012).
Il processo tributario “dovrebbe” essere un processo di diritti, ma è ancora costruito apposta come un processo di mero controllo del corretto uso dei criteri impositivi da parte della p.a. Anche dopo la recente riforma (l. n. 130/2022) il suo oggetto è soltanto il tributo reclamato dal fisco nei confronti del “singolo” contribuente e non si occupa d’altro che della fiscalità del “singolo” contribuente e mai della legittimità del sistema normativo di prelievo nel suo complesso.
Tutti ricordiamo che: a) l’antica legge fondamentale sulle giurisdizioni (l. 20 marzo 1865 n. 2248 All. E) all’art.6, terzo comma stabiliva che “nelle controversie relative alle imposte così dirette come indirette, la giurisdizione ordinaria sarà sempre esercitata in prima istanza dai Tribunali di circondario, ed in seconda istanza dalle Corti d’appello”; b) l’art.9, II comma del c.p.c. stabilisce che “Il Tribunale è altresì esclusivamente competente per le cause in materia di imposte e tasse”; c) infine l’art. 110 della Costituzione impone che “spettano al Ministro della giustizia l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”.
Affidare al Ministro delle Finanze “il cui unico scopo è quello di procacciare un’entrata purchessia”, ovvero dietro lo schermo di “norme caotiche, contraddittorie, intrinsecamente e oggettivamente irrazionali … all’opposto di accordare esoneri, franchigie e privilegi” (Falsitta), l’organizzazione e la nomina dei giudici tributari è in contrasto con i principi di indipendenza, imparzialità e terzietà. La preoccupazione di bilanciare il “garantismo” con il rendimento della “macchina fiscale” (Elia) non si risolve con un sistema che non si dà cura dei principi del giusto processo (art.110 Costituzione e art. 6 Convenzione EDU). Parliamo di indipendenza e imparzialità oggettiva; quella soggettiva non è in discussione.
Il fatto che le controversie tributarie, che sono controversie su diritti, siano sottratte alla giurisdizione ordinaria e il processo continui ad essere di annullamento di atti, di mero controllo del corretto uso dei poteri della p.a., è limitativo anche del diritto di cui all’art. 24 della Costituzione che invece garantisce a ogni cittadino, purché via abbia interesse (art.100 c.p.c.), la possibilità di agire in giudizio per il ristoro pieno dei suoi diritti, quale che sia l’origine della lesione e quindi anche se la lesione deriva dal sistema normativo di prelievo in contrasto con l’art.53.
I limiti al processo tributario sono anche un mezzo per sottrarre la politica economica a qualsiasi controllo. Il potere politico può sopportare la contestazione sulla corretta applicazione amministrativa, nel singolo caso, del criterio impositivo, ma non la messa in discussione della legittimità costituzionale del sistema normativo su cui si fonda.
La politica farà di tutto e di più per evitare che i vizi e le ingiustizie del sistema imposto ai governati siano messe in discussione dal potere giurisdizionale, soprattutto quando riguardano i vincoli costituzionali entro i quali essa dovrebbe limitare le sue scelte; soprattutto il vincolo imposto dall’art. 53 in funzione dei fini degli articoli 2 e 3 della Costituzione. Un sistema processuale ad hoc serve proprio a scongiurare il rischio della messa in discussione della portata del potere politico impositivo esercitato, negando il diritto del cittadino di contestarlo se travalica i vincoli costituzionali.
7- Giudici e avvocati e processo tributario. La selezione dei giudici tributari dovrebbe essere funzionale per garantire i tutti principi costituzionali fin qui enunciati e che non possono essere affidati a chi faceva del processo tributario un dopolavoro. La riforma ha liberato il processo da alcune figure professionali minori (ragionieri, periti commerciali, consulenti del lavoro) che non avevano niente a che fare con l’esercizio della funzione giurisdizionale, consolidando la presenza di soggetti con alta professionalità, non giuridica ma tecnica, con laurea magistrale in Scienze dell’economia o in Scienze economico-aziendali o titoli equiparati (art. 4 bis, d.lgs. 545/1992 inserito dall’art.1, comma 1 lett.f, l. 130/2022).
Non si diventa giudici o avvocati soltanto perché si indossa una toga, ma è certo che il sistema ha bisogno innanzitutto di giuristi che dominano il diritto costituzionale, il diritto civile e il diritto processuale civile e che hanno fatto dell’imparzialità la loro ragione di vita. E lo stesso vale per l’assistenza tecnica alle parti private. Il ruolo della “difesa tecnica” da parte di un esercente la professione legale, che l’art. 24 della Costituzione vuole garantire, è svalutato nella misura in cui gli avvocati sono ancora confusi, a rischio per i diritti delle parti private, con soggetti totalmente estranei alla cultura della giurisdizione (art. 12, comma 3, d.lgs 546/1992 come sostituito dall’art.9 d.lgs. 156/2015). Questo succede anche per colpa degli avvocati, la maggior parte dei quali, nonostante che il codice civile dedichi un’intera sezione alla materia, non superano la ritrosia a studiare un po’ di ragioneria e acquisire almeno conoscenze di base delle tecniche di contabilità aziendale e di redazione dei bilanci. Certo è che non ci sarà nessun “giusto processo” finché i giudici non saranno giudici e i difensori non saranno avvocati (F. Tesauro, Giusto processo e processo tributario).
8– Si parva licet. Con l’ultimo libro Gustavo Zagrebelsky (Tempi difficili per la Costituzione. Gli smarrimenti dei costituzionalisti) lamenta la perdita di vocazione dei costituzionalisti, i quali si aggrapperebbero alla tecnica giuridica per non interrogarsi sul loro ruolo in tempi convulsi e disorientanti come gli attuali.
Davvero si parva licet. Non le modeste opinioni sopra offerte, ma i meri dati numerici esposti e i fatti nudi e crudi ci dicono che nella materia non è possibile separare il ragionamento sui fatti da quello sui principi. Non serve un raffinato ragionamento sui principi per accorgersi che il sistema normativo è in contrasto “matematico” con il valore precettivo della progressività dell’art. 53 e con il concetto di idoneità soggettiva all’obbligazione di imposta. La tecnica basta e avanza. Se i costituzionalisti, come tutti i giuristi, avvocati e giudici hanno una colpa, è quella di aver lasciato che altri invadessero il loro territorio.