Il Disegno di legge “per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione” (AS n. 615) a fine marzo è giunto in Parlamento… dopo una complessa gestazione che ha visto il Ministro per gli affari regionali Calderoli confrontarsi coi Presidenti delle Regioni nella Conferenza Stato – Regioni, a valle dell’approvazione a dicembre, nella legge di bilancio, di alcune norme relative alla procedura da seguire per la fissazione dei Livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali (art. 1, c.792-804, l. 197/2022). Il Parlamento risulterà l’ultimo a dire la sua sul progetto Calderoli, e probabilmente la sua voce avrà ben poco peso, a giudicare dall’ampia maggioranza di cui gode il Governo Meloni. Sembrerebbe quindi che, dopo lunga attesa, sia veramente giunto il momento in cui l’infelice formulazione inserita nell’art. 116, comma 3, Cost. dalla riforma del Titolo V, sta per trovare attuazione… salvo imprevisti, sempre dietro l’angolo nella politica italiana.
Merita di essere sottolineato come, una volta approvato il disegno di legge, potrà prodursi un’ampia “de-costituzionalizzazione formale” dell’assetto delle competenze stato-regioni per tutte le Regioni coinvolte dal processo di differenziazione. Tali Regioni troveranno le regole del riparto di competenza al di fuori del testo costituzionale, nelle leggi di differenziazione che recepiranno le intese stipulate col Governo. Il Parlamento potrà esprimersi sul testo finale delle intese, dopo un complesso iter procedimentale indicato appunto nel Disegno di legge Calderoli, solo tramite una deliberazione, con un’amputazione quindi dei poteri previsti dall’art. 72 Cost. Le Camere e i loro regolamenti, gli unici cui spetterebbe disegnare iter legis e disciplinare le attribuzioni parlamentari connesse, appaiono le prima vittime di questa operazione.
Una seconda vittima è destinata a restare sul campo, data l’inevitabile progressiva perdita di centralità del testo costituzionale che potrà derivare da questa operazione. Anche nel giudizio di costituzionalità il parametro per valutare la legittimità costituzionale delle leggi regionali non saranno più le norme costituzionali, ma le leggi di differenziazione, mentre il legislatore statale dovrà specificare d’ora in poi (e si spera si ricordi di farlo) quali delle nuove norme che andrà via via a dettare si applicheranno a quali Regioni, andando a verificare i confini delle rispettive competenze nelle diverse leggi di differenziazione, così come tale verifica dovrà fare ogni cittadino che vorrà capire quale norma si applica al caso concreto.
Un rischio ulteriore riguarda poi la futura Legge Calderoli: trattandosi di un disegno di legge ordinaria, una volta approvata, essa avrà una forza “inferiore” rispetto a quella delle singole leggi di differenziazione che, venendo approvate dalle Camere a maggioranza assoluta come richiesto dall’art. 116, comma 3, saranno leggi rinforzate, come tali sottratte a referendum abrogativo e a modifica, se non con la stessa maggioranza e gli stessi adempimenti previsti nel detto comma. Mentre sarà quindi molto difficile modificare le “leggi figlie”, la “legge madre”, la legge Calderoli che disciplinerà il procedimento per la loro approvazione, essendo mera legge ordinaria sarà derogabile ogni volta che il legislatore di turno vorrà farlo. Chi impedirà infatti ad un Governo che avesse fretta, di non prevedere tutti gli adempimenti previsti ora nello schema del ministro Calderoli? E ad esempio di derogare all’art. 7 che prevede la durata di 10 anni della legge di differenziazione e la possibilità di “disporre verifiche su specifici profili o settori di attività oggetto dell’intesa con riferimento alla garanzia del raggiungimento dei livelli essenziali delle prestazioni, nonché il monitoraggio delle stesse”? È questo il motivo per cui nell’ambito della commissione di studio sul regionalismo, nella scorsa legislatura, con altri colleghi avevamo proposto al ministro Boccia l’impiego dello strumento della legge costituzionale per questa importante disciplina, suggerimento oggi rimasto inascoltato.
Come fonte sulla produzione di norme (le leggi di differenziazione), la legge “madre” Calderoli si porrà insomma nella paradossale posizione di essere più debole delle leggi figlie che essa disciplina, al punto che potranno persino cancellarla. Il caos che ne potrà derivare, in termini di certezza del diritto e dell’assetto dei rapporti Stato-Regioni (già discutibilmente gestito in forme “de-costituzionalizzate”, nel sistema delle conferenze) si inizia così a prospettare minaccioso all’orizzonte.
Se si passa poi ad esaminare il merito delle competenze che saranno trasferite alle Regioni su loro richiesta, il fantasma che incombe, un vero e proprio “monstrum” dal punto di vista ordinamentale, si fa ancora più spaventoso. Si pensi solo alla pessima idea di affidare alle Regioni una materia infrazionabile per definizione come l’ambiente e l’ecosistema”, o delicata come quella dei “beni culturali”. Ma soprattutto si consideri l’incredibile idea di regionalizzare le “norme generali sull’istruzione”, che non solo l’art. 117.2 vuole ora di esclusiva competenza statale, ma l’art. 33 attribuisce alla Repubblica. Inutile ribadire in questa sede la centralità dell’istruzione per l’unità nazionale e la costruzione della cittadinanza, o lamentare la memoria corta di un legislatore che ha già dimenticato la lezione della pandemia, quando tutti per un lungo attimo sembrarono comprendere l’importanza del sistema nazionale dell’istruzione oltre che del sistema sanitario nazionale.
Com’è noto il cuore e il vero motore di tutta l’operazione è nell’attribuzione alle Regioni che accederanno alla differenziazione di “compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale”. Il disegno di legge Calderoli non prevede alcun argine adeguato ad evitare l’attribuzione a tale norma del significato più ampio: la conservazione sul territorio della Regione del cosiddetto “residuo fiscale”, che deriva dalla sottrazione tra gettito fiscale regionale e quantum della spesa pubblica investita in quella Regione dallo Stato. Un meccanismo con cui non si potrà che ampliare il divario tra nord e sud circa quanto viene speso pro capite dallo Stato per ogni cittadino, (come ampiamente dimostrato tra gli altri negli studi di SVIMEZ).
Venendo all’ultima “vittima” che rischia di restare sul campo, è da ritenere che l’impatto di tutta l’operazione sui divari territoriali e la tutela dei diritti sociali potrà essere devastante. Perché una previsione così pessimistica? Oltre alla norma concernente la compartecipazione regionale al gettito fiscale del territorio, a preoccupare è la determinazione dei LEP che fisseranno il quantum di garanzia dei diritti sul territorio nazionale. Essa è stata affidata a quei DPCM che i cittadini hanno imparato a conoscere durante la pandemia: atti non sindacabili dalla Corte costituzionale, deliberati in tutta scioltezza si potrebbe dire, in questo caso dal Consiglio dei Ministri, in violazione della riserva di legge prevista nell’art. 117.2 lett. m, con un procedimento preparatorio affidato ad una Cabina di regia che prenderà come punto di partenza, tra gli altri, la “spesa storica” dell’ultimo triennio, prevedendo poi un parere parlamentare, senza il quale dopo 45gg si potrà comunque procedere.
Lasciando da parte i noti problemi del SSN, basti citare il dato per cui nel sistema dell’istruzione il tempo pieno e le palestre scolastiche sono di norma assenti in alcune regioni, le stesse nelle quali le cifre sulla dispersione scolastica si impennano, per considerare questo disegno di legge una minaccia per milioni di bambini in Italia.
Paradossalmente, la notizia della nomina di una commissione per la definizione dei LEP, composta da una sessantina di autorevoli studiosi rassicura: nella migliore tradizione, la commissione di studio è il miglior viatico per prendere tempo e poi abbandonare una questione spinosa (che però attende purtroppo da più di vent’anni di essere risolta, con gravi effetti sull’uniforme garanzia dei diritti sociali sul territorio nazionale). Se la previsione fosse sbagliata e si procedesse con tale metodo, andrebbe stigmatizzata la scelta di emarginare le Camere su problemi così delicati e fondamentali, in materia sottoposta a riserva di legge dalla Costituzione. Affidare questa, e magari altre importanti materie, ad una commissione “costituente” di nomina ministeriale, per quanto autorevoli possano esserne i componenti, parrebbe una scelta sicuramente preoccupante e che invita a mantenere alta l’attenzione sui processi in atto.
Mi permetto aggiungere che lascia a dir poco perplessi l’articolo 10, comma 2, del d.d.l. Calderoli laddove, in materia di autonomia differenziata, dispone l’applicazione alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano delle maggiori forme di autonomia previste dall’articolo 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, per l’ovvia ragione che non può una legge ordinaria estendere l’applicazione di una legge costituzionale