La Corte penale internazionale (CPI) ha emesso un mandato d’arresto per crimini di guerra contro Putin, accusato di aver ordinato o comunque non impedito la deportazione di minori ucraini nei territori occupati dalle forze armate russe (altrettanto è stato fatto nei confronti della Commissaria russa per i diritti dei bambini).
Già fin dall’annuncio dell’apertura delle indagini da parte del Procuratore capo della CPI, avvenuta con straordinario tempismo a soli quattro giorni dall’invasione dell’Ucraina e nonostante le sue traballanti basi giuridiche (la dichiarazione dell’Ucraina del 2014 di accettazione provvisoria della giurisdizione della CPI), apparve chiaro che il processo contro Putin (e i vertici civili e militari della Federazione russa) dinanzi a quest’organo giudiziario internazionale sarebbe stato possibile solo a patto di un radicale mutamento di regime in Russia (Tarfusser).
Sebbene la stampa tenda a presentare il mandato d’arresto internazionale contro Putin e la commissaria russa ai minori come l’equivalente di una condanna, non vi è stato ancora alcun processo né lo Statuto della CPI contempla il giudizio in contumacia. Dunque, prima di accertare le responsabilità penali di Putin, dovrà svolgersi un processo in sua presenza. Non avendo la Russia ratificato lo Statuto della CPI, appare impossibile l’arresto di Putin su suolo russo. Nel futuro, però, la possibilità di Putin di recarsi in Paesi aderenti allo Statuto appare assai limitata, posto che rischierebbe l’arresto, nonostante l’immunità di cui gode in quanto Capo di Stato.
Hans Kelsen, con il suo Peace through Law, nel 1944 aveva profeticamente immaginato un esito del genere, in cui il modello monista dello Stato monopolizzatore della forza sarebbe stato applicato all’ordinamento internazionale, così da permettere non solo la criminalizzazione della guerra (cosa, in parte, già avvenuta con il Trattato di Versailles del 1919 e con il Patto Briand-Kellogg del 1928), ma anche la processabilità dei singoli responsabili dei crimini di guerra e di aggressione bellica, privati dell’immunità legata alle loro cariche statuali.
Ma quel sogno si è davvero realizzato? È davvero a nome della fantomatica “comunità internazionale” che la Corte penale internazionale sta agendo contro Putin? Più della metà dell’umanità vive in giurisdizioni nazionali che quell’autorità non riconoscono, per non aver ratificato lo Statuto della CPI: né la Cina, né l’India, né, soprattutto, gli Stati Uniti. Dunque, con quel mandato d’arresto, sicuramente nessuna capitale europea potrà ospitare eventuali negoziati di pace, mentre potranno farlo Washington, Pechino o, perché no, anche Tel Aviv (non avendo Israele ratificato lo Statuto della CPI).
Dunque, nella condizione geopolitica attuale, l’indagine attivata ultra-tempestivamente dinanzi alla Corte penale internazionale e giunta oggi al mandato d’arresto contro Putin sembra chiaramente svelare la funzione sistemica che può assumere un tale metodo di giurisdizionalizzazione dei conflitti bellici. Può servire a porre la chiara condizione per cui un avversario non è riconosciuto, così impedendo la sospensione e/o la conclusione pacifica del conflitto, e segnalando che l’obiettivo di una parte della “comunità internazionale” è quello della debellatio dell’aggressore, quantomeno nella forma del mutamento di regime.
È questo un obiettivo oggi plausibile? Pensiamo davvero che esista un’opposizione politica in Russia sufficientemente strutturata da mobilitare l’opinione pubblica contro Putin e l’élite politica russa? Non si rischia, più realisticamente, l’escalation militare nel disconoscere così radicalmente le credenziali del nemico aggressore? Un aggressore, fra l’altro, dotato di un arsenale nucleare tra i più pericolosi al mondo. Dunque: fiat iustitia, pereat mundus (Dogliani)?
Non è detto che tale incriminazione comporti un’alterazione radicale degli scenari attualmente in ballo, posto che anche nell’opinione pubblica USA si stava affacciando l’idea di un’impraticabilità di qualsiasi soluzione formale (una pace con riconoscimenti reciproci tra le parti in campo), bensì di una soluzione di fatto, alla coreana (Remnick), con un cessate il fuoco che provvisoriamente tollera l’ingiusta occupazione di una parte dell’Ucraina e dove il “provvisoriamente” è foriero di prolungamenti temporali indefiniti. L’avere dinanzi un Putin incriminato vale a rendere tale opzione l’unica sul campo, in alternativa all’escalation militare.
Dal punto di vista degli Stati europei (dell’UE in particolare), la vicenda può leggersi come l’ennesima deresponsabilizzazione della politica che la giurisdizionalizzazione dei conflitti produce, addirittura dei conflitti armati (A. Cantaro, p. 198). I diritti umani vengono prima di tutto, anche del rischio del conflitto nucleare; dunque, nella impossibilità di agire come soggetto politico-diplomatico unitario nello scenario internazionale, gli Stati dell’UE vengono esonerati dal dilemma se trattare o meno con Putin prima della debellatio della Russia. Non c’è più bisogno di capire se gli elettorati di Italia, Francia o Germania, davvero vogliono che i propri governi subiscano il diktat di Polonia e Paesi baltici in seno alla NATO (di cui l’UE è diventata solo la camera di risonanza), non c’è più bisogno di rischiare conflitti interni alla coalizione dei Paesi europei occidentali. Il potere giudiziario si è espresso. Il potere giudiziario ha l’ultima parola. Nessuno porta la responsabilità politica delle conseguenze degli atti della Corte penale internazionale e, soprattutto, del suo Procuratore capo che accettò il pericoloso gioco di iniziare immediatamente le indagini sul territorio ucraino a pochi giorni dello scoppio della guerra.
Era davvero questo ciò cui pensava Kelsen nel 1944?