In questo inizio del 2023, dopo ventidue anni dall’introduzione della previsione in Costituzione di un modello di regionalismo c.d. “differenziato”, il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario.
L’approvazione in legge aprirà la strada alla presentazione dell’atto d’iniziativa relativo all’attribuzione di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, che a sua volta condurrà alla conclusione delle diverse intese tra lo Stato e le singole Regioni. E tre Regioni avevano già negli anni recenti avviato il percorso di applicazione di questa opportunità: il disegno di legge non intende che questo lavoro di negoziazione vada perso, cosicché nelle disposizioni transitorie e finali dispone che “l’esame degli atti di iniziativa delle Regioni già presentati al Governo, di cui sia stato avviato il confronto congiunto tra il Governo e la Regione interessata prima della data di entrata in vigore della presente legge, prosegue secondo quanto previsto dalle pertinenti disposizioni della presente legge”. Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna vedono dunque ormai a portata di mano il raggiungimento dell’obiettivo.
Il disegno di legge fa dipendere l’intero processo dalla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (leps) concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale: l’avverbio “subordinatamente” sembra costituire il baluardo dell’eguaglianza, perché rassicura sul fatto che nessuna iniziativa potrà essere intrapresa fintantoché il Presidente del Consiglio dei ministri non avrà provveduto alla definizione dei leps, in quanto forma di parametrazione delle prestazioni, con funzioni di garanzia di uniforme trattamento dei cittadini in qualsiasi porzione del territorio.
Effettivamente a questo argomento ha fatto appello, da tempo, tutta la dottrina che ha preteso che il processo di trasferimento di funzioni avvenga in sintonia con la Costituzione. Per cui ai leps ci si è rivolti affinché il regionalismo differenziato non produca squilibri: dal quadro normativo è infatti deducibile un meccanismo a cascata, che fa dei leps un punto di passaggio ritenuto “obbligato” per un armonico sviluppo del modello. Di fatto non sono individuati come elemento vincolante nell’art. 116. 3, ma ci si arriva per passaggi intermedi: questa disposizione pone l’art. 119 come condizione di attuazione del regionalismo differenziato; a sua volta l’art. 119 Cost. non menziona i leps, limitandosi a prevedere interventi straordinari di finanziamento per “favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona”, ma tale disposizione ha trovato compimento nella legge n. 42/2009, che ha collegato le fonti di entrata degli enti territoriali alla configurazione dei leps. Per finire, il d. lgs. n. 68/2011, di attuazione della legge delega del 2009 con riguardo all’autonomia finanziaria delle Regioni, ha preteso che nei settori della sanità, dell’assistenza, dell’istruzione e del trasporto pubblico locale vada effettuata la ricognizione dei leps.
Così spiegato il contorto percorso che conduce ai leps, il loro ricorrere quasi ossessivo nel disegno di legge è segnale del fatto che siano ormai una formula vuota. I dati consolidati e ben conosciuti sullo stato dei servizi in larghe parti del Paese, dove mancano radicalmente le prestazioni sanitarie, educative e di trasporto, confermano quanto possa dimostrarsi astratto e inutile lo sforzo di elencare attività della Pubblica amministrazione, che non hanno riscontro nella realtà. Dove mancano le condizioni affinché gli apparati pubblici preposti alle infrastrutture ed ai servizi alla persona possano offrire prestazioni ai cittadini, la classificazione di queste ultime con l’intento di fissare le soglie di uniforme erogazione a beneficio di chiunque appare, ormai, un esercizio accademico o di stile, che non ha alcun contatto o riferimento obiettivo con la situazione effettiva.
Anche perché ormai un certo numero di leps esistono. In ambito sanitario sono comparsi nel 2001, e più recentemente in ambito di alcuni servizi sociali ha provveduto la legge di bilancio 2022: con mutevoli modalità di definizione, si può dire che essi operano nell’ambito della non autosufficienza e degli asili nido. Malgrado tale definizione normativa, lo stato di questi servizi, in alcune porzioni del Paese, è prova che ormai i leps sono un pannicello caldo. E lo sono soprattutto nel disegno di legge in esame, anche in considerazione del fatto che questo prevede invarianza finanziaria: l’affermazione “dall’applicazione della presente legge e di ciascuna intesa non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica” esclude scenari di riaggiustamento delle dotazioni. Né a vantaggio dei territori che si candidano all’intesa, né a vantaggio delle istituzioni che manterranno invariata la qualità della loro autonomia.
La relazione illustrativa è chiara a riguardo: “per le singole Regioni che non siano parte dell’intesa, sono garantiti l’invarianza finanziaria nonché il finanziamento delle iniziative finalizzate ad attuare le previsioni di cui all’articolo 119, terzo e quinto comma, della Costituzione, concernenti, rispettivamente, la perequazione ordinaria e gli interventi speciali. Le intese, in ogni caso, non possono pregiudicare l’entità delle risorse da destinare a ciascuna delle altre Regioni”. Quanto enunciato è senz’altro un ostacolo ad un calo delle risorse assegnabili alle Regioni, che non perseguiranno la differenziazione. Ma è allo stesso tempo un sicuro freno ad interventi di correzione, a favore delle medesime, che si rivelassero necessari dopo la variazione della geometria delle competenze delle Regioni ordinarie: nessun sostegno è immaginabile per sanità, istruzione e altre materie fondate sui leps, nel caso in cui occorresse colmare i divari che verosimilmente si manifesteranno.
Per cui, superato ormai l’inganno dei leps, c’è da mettere in conto che sempre più i cittadini delle Regioni, dove istruzione, sanità, assistenza sociale e infrastrutture di collegamento sono inconsistenti e non aprono a scenari di vita dignitosi, si rivolgano ai territori dove i servizi hanno una ben diversa consistenza, e sono idonei a soddisfare aspettative e bisogni. Sono prevalentemente i territori che, dopo avere costruito nei decenni sistemi amministrativi di apprezzabile riuscita, grazie ad un finanziamento dello Stato parametrato sui fabbisogni nazionali, ritengono ora di poter assumere in esclusiva le relative competenze e di poter negoziare un assetto delle risorse – parametrato sui fabbisogni del loro territorio – che renda ancora più efficace il servizio offerto.
Giunti a questo punto, non resta che augurarsi che tale assetto di risorse sia quello della spesa storica, che si è sempre detto incoerente e da superare, ma che non risulta espressamente precluso dal disegno di legge: con buona pace della prospettiva di attuazione dell’art. 119 Cost., declinata in termini di costi e fabbisogni standard rispetto a leps fissati dal livello nazionale. Si potrà così assicurare un sistema nel quale le Regioni con autonomia accresciuta – sulla carta, al momento, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna – potranno erogare ad un sempre maggior numero di italiani quell’insieme di prestazioni che, in tante parti del Paese, mancano. Sarà forse questa la via per garantire l’eguaglianza: via del resto non nuova, dal momento che il fenomeno è conosciuto e praticato da tempo. Ma difficilmente possono esserci alternative ad una sua assunzione a sistema, una volta che la differenziazione di competenze avrà istituzionalizzato e legittimato la disparità di capacità amministrativa delle diverse realtà del Paese.
Buongiorno alla professoressa Buzzacchi, agli editorialisti ed a tutti i lettori di questo sito informativo, solo per ricordarVi che il referendum del 2001 circa la “promulgazione” della legge sulle modifiche al cd. “titolo quinto” ottenne a favore poco più del 20% dei SI…quello del 2020 sulla cd. “riduzione dei seggi in Parlamento ottenne circa il 35%…entrambe comunque nette minoranze approvative mentre l’art.138C. sancisce testualmente che: “La legge sottoposta a referendum NON è promulgata se NON è approvata dalla maggioranza dei voti validi”.
Tale lapidaria formula venne mutuata da quella più volte citata nell’emendamento dell’Onorevole Perassi del 3 dic.1947 : “La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti VALIDAMENTE ESPRESSI”…,le ultime due parole vennero condensate in “VALIDI” dai Redattori del testo definitivo per evitare equivoci conflitti con l’art.75C.; ma, come i fatti hanno dimostrato, e per ben due volte,…
Saluti e cordialità e.Bargellini.