Ad un anno di distanza dal termine del periodo di sospensione del Patto di stabilità e crescita, e a due mesi dalla presentazione della proposta da parte della Commissione del nuovo sistema di regole fiscali (le c.d. fiscal rules) che – per convinzione ampia e diffusa – sarebbe auspicabile adottare dal 2024, le considerazioni e i giudizi che si possono effettuare sono molteplici. Numerose sono state le indicazioni avanzate sul piano economico-finanziario; diverse valutazioni e critiche sono state espresse nella prospettiva del diritto, e anche in chiave politologica – in realtà addirittura geopolitica, viste le tristi vicende dell’ultimo anno – il complesso apparato di vigilanza sulla programmazione di bilancio dei Paesi dell’eurozona ha suscitato ampio confronto. Le vecchie fiscal rules e le nuove che da tanti soggetti – non solo dalla Commissione – sono state congeniate e presentate producono opinioni e prese di posizione che tengono conto di fattori e variabili intrecciati e sovrapposti, tali per cui nessuna regola si dimostra né completamente utile ma neanche del tutto inappropriata, o integralmente dannosa e controproducente.
L’analisi rigorosa di Andrea Guazzarotti ben rappresenta rischi ed incognite insite nella proposta di novembre 2022 della Commissione, e correttamente richiama i passaggi procedurali che secondo i Trattati dovranno essere applicati, con la deprecabile marginalizzazione dell’istituzione democratica – il Parlamento europeo – che più avrebbe titolo a pronunciarsi su regole che si riflettono sul potere di bilancio. A tale analisi sembra opportuno aggiungere alcune considerazioni che possono completare il quadro di insieme, che è più difficile da decifrare – trattandosi dell’esperienza europea, sempre poco decifrabile alla luce delle categorie del diritto interno – di quanto potrebbe sostenersi con la sola analisi del meccanismo che è stato di recente prospettato.
Come giustamente già osservato, uno degli elementi più deludenti che emerge da quel meccanismo è l’assenza della centralizzazione della capacità fiscale. Dopo l’illusione innescata dal Next Generation EU e dal dispositivo finanziario Recovery and Resilience Facility (RRF), che avevano fatto immaginare la possibilità di pervenire ad un bilancio europeo condiviso, e dunque avevano lasciato intravvedere la volontà del sistema europeo di contrarre debito pubblico in maniera congiunta, il dato che ora riporta l’intero dibattito indietro di tre anni è quello del totale silenzio rispetto a questo scenario: se ne era cominciato a discutere all’inizio dell’emergenza sanitaria proprio a fronte dell’approntamento di un sistema di raccolta di risorse sui mercati finanziari effettuato dall’Unione europea con destinazione dei trasferimenti a favore dei singoli Stati membri, prima tra tutti proprio l’Italia. A quanto pare l’esperienza dell’indebitamento affrontato dall’Europa per i singoli sistemi nazionali rimarrà un episodio isolato, e il passaggio di completamento del sistema di governo della materia economica non avrà luogo, almeno a breve termine: perpetuandosi la distorsione di un assetto di “governance” dell’ambito economico-finanziario che lascia a livello nazionale la materia dell’imposizione e del debito pubblico – dunque il versante delle entrate – e mantiene a livello sovranazionale i parametri, le regole e le sanzioni attraverso i quali si tiene sotto controllo il versante delle spese, affinché quest’ultimo non determini situazioni di indebitamento – sempre strettamente nazionali – suscettibili di scatenare il c.d. effetto di “contagio”.
Archiviata la breve stagione della sbornia indotta dalla valanga di risorse del RRF, che i singoli Paesi beneficiari non hanno dovuto personalmente raccogliere sui mercati finanziari perché per tale obiettivo si è spesa l’Unione europea – per la prima volta nella storia, e immaginata da tanti sull’orlo della trasformazione in sistema federale – la proposta della Commissione riporta tutti coi piedi per terra. Ed effettivamente le nuove regole non si prospettano non solo per nulla rivoluzionarie, ma neanche granché razionalizzate rispetto al quadro precedentemente vigente. Tuttavia le preoccupazioni che le medesime possano rappresentare una trappola per gli Stati, che davanti ad esse si troveranno scoperti e indifesi, paiono meno concrete di quanto possa astrattamente dedursi dallo schema di blande variazioni delle vecchie fiscal rules del 3% e del 60%: la linea europea sembra infatti voler sopravvivere e perdurare, continuando ad investire su meccanismi discrezionali di negoziazione tra la Commissione ed i singoli Stati relativamente al percorso di riduzione della spesa e di rientro della dimensione debitoria. Anche la riforma del “patto di bilancio” di un decennio fa, al culmine della crisi dei debiti sovrani – a seguito della quale una Repubblica italiana spaventata dalla troika e desiderosa di riabilitare la propria reputazione verso i creditori aveva messo mano al suo impianto costituzionale – era munita di automatismi e di sanzioni, che di fatto non sono mai stati impiegati. Sostituiti invece da riti di confronto, più o meno amichevoli e più o meno imperniati su dati finanziari, tra i Commissari e i vertici degli esecutivi nazionali, che con ampia discrezionalità hanno trovato – di anno in anno – l’accordo sulla misura del disavanzo e sull’estensione del ricorso al debito. Permettendo a tante economie europee – e sicuramente a quella italiana – di evitare procedure di infrazione che sarebbero state automaticamente da avviare se i regolamenti europei e il Fiscal compact fossero autentiche norme cogenti.
Ma così non sono, rappresentando da sempre forse solo un quadro di riferimento di potenziale applicazione per individuare, nella realtà della dinamica economica dei mercati europei, delle soluzioni di compromesso accettabili per l’Unione e per i singoli Stati. Proprio la distribuzione delle risorse straordinarie del RRF ne è una dimostrazione: per non escludere dall’assegnazione di quei finanziamenti Paesi refrattari al rispetto dello Stato di diritto – o, secondo una diversa terminologia e un diverso senso, del rule of law – l’Unione ha trovato la soluzione in un regolamento dove le condizionalità non si applicano in concomitanza alla violazione dei principi di libertà, ma in presenza di scorrettezze nella gestione del bilancio. Nel caso di questo regolamento del 2020 il diritto è stato formulato in maniera da sanzionare mancanze secondarie, e non quelle che fanno dubitare dell’omogeneità culturale e giuridica della famiglia europea; nel caso della proposta europea di nuove fiscal rules il diritto sarebbe funzionale a creare una cornice di deterrenza o addirittura di minaccia, di cui sia la Commissione che il Consiglio europeo da anni danno segno di voler fare un uso solo virtuale, spostando poi la negoziazione dell’obiettivo di medio termine e del rientro annuale dal debito oltre soglia su altri terreni e con altri metodi.
E al di là della versione finale che le fiscal rules assumeranno, rimane vero che tre disposizioni della Costituzione repubblicana impongono obiettivi quantitativi rigidi: se applicati come suonano, gli artt. 81, 97 e 119 Cost. possono determinare spiacevoli effetti sul piano della spesa sociale, dell’autonomia regionale, della garanzia dei diritti; se non applicati, perché suscettibili di aggiustamenti a seguito di negoziazioni con il livello sovranazionale, continuano ad apparire eccentrici rispetto al resto della Carta fondamentale, e tuttavia esposti ad un uso incerto e imprevedibile a seconda della discrezionalità – che opera all’opposto degli automatismi e delle sanzioni – che tuttora connota l’applicazione del patto di bilancio.
1. Quello che si deve fare sotto costrizione (bilancio ‘comune’ -spese ‘comuni’ coperte da tasse -non debito- ‘comuni’- deciso a monte) si può fare anche per libera scelta. Perché l’Italia non imita gli Stati membri che per loro scelta adottano strategie economiche e finanziarie convergenti e virtuose invece di persistere in politiche volatili, inconsistenti, fallimentari e divergenti? 2. (Nell’UE e negli Stati membri) i centri di potere sono molteplici e le procedure democratiche varie, ma l’ultima istanza democratica sono i popoli e i Parlamenti nazionali e attraverso loro i governi che nel Consiglio europeo ratificano la normativa europea, mentre il Parlamento europeo è solo un’istanza di forma democratica, ma senza potere di rappresentanza democratico forte. In altre parole la sovranità democratica nell’UE non appartiene al popolo europeo (inesistente, ancora in formazione), ma ai popoli nazionali; non è esercitata dal Parlamento europeo, ma dai Parlamenti e Governi nazionali. Bisogna tenerne conto quando si parla di debito e di bilancio comuni. Analisi e discorsi diversi allontanano il paese dal sentiero stretto della verità e delle responsabilità, come ben illustra la polemica recente in materia di immigrazione clandestina e di soccorso a imbarcazioni con migranti in pericolo. L’eterno rimpallo delle responsabilità alle autorità europee riflette soprattutto l’inettitudine la doppiezza il cinismo e il marasma concettuale dei governi, esponenti politici e commentatori italiani.