Ogni norma andrebbe valutata mettendola in relazione all’ambiente nel quale dovrà operare. Si è adoperato il condizionale perché si ha l’impressione che non sempre ci si curi della corretta individuazione di ciò che si intende disciplinare e dell’attitudine dell’ambiente a rispettare quello che si dispone.
Anche quando nella formulazione si seguono i suggerimenti degli esperti (non sempre capita), ci si dovrebbe domandare ugualmente quante possibilità ci siano che la norma sia rispettata. Non sarebbe da escludere che una norma, corretta dal punto di vista tecnico, abbia meno possibilità di essere osservata rispetto ad una che lo sia meno, ma più adatta al livello dei suoi destinatari, portando a risultati migliori. Questa verifica, che è di opportunità, non può essere richiesta a chi segue criteri solo di tecnica normativa.
Il caso della c.d. flat tax può riuscire utile. Se nell’ambiente è diffuso il nero, il limite di reddito, entro il quale è applicabile, finisce con l’essere l’ammontare al di sopra del quale si continuerà a ricorrere al nero: per non perdere il beneficio, si eviterà di superarlo.
Come si è accennato, una norma potrebbe produrre danni se non adatta alle condizioni dell’ambiente, danni evitabili qualora, seppure formalmente meno soddisfacente, incontrasse un consenso maggiore. Anche se questo criterio a prima vista risulta insoddisfacente, sarebbe da seguire, in particolare quando è coinvolta l’amministrazione pubblica. Se fossero richiesti interventi rapidi o tecnicamente complessi, si dovrebbe tenere conto che da un’amministrazione non efficiente ci si potrà aspettare quanto meno una perdita di tempo.
Un certo modo di legiferare può provocare la moltiplicazione delle leggi. Quando sono previste norme strumentali, che arrivano con troppo ritardo o addirittura non arrivano, diventa spesso necessario emetterne di nuove, finendo talvolta con l’essere una giustificazione della disfunzione di fronte all’opinione pubblica. Contemporaneamente può sorgere la necessità di domandarsi se nell’inefficienza hanno trovato la realizzazione interessi diversi da quelli presi in considerazione dalla norma.
Tempo a dietro una legge, per risolvere alcuni problemi, stanziò mezzi finanziari rilevanti. Le prime domande degli interessati furono respinte con motivazioni non convincenti. Quando si cercò di far cambiare l’orientamento, dagli organi responsabili fu risposto, naturalmente in via riservata, che, data la complessità della materia, si era considerato prudente dire di no; se poi gli interessati si fossero rivolti al giudice amministrativo, che probabilmente avrebbe accolto i loro ricorsi, si sarebbero eseguite le sentenze, evitando i rischi di una responsabilità patrimoniale per importi che potevano essere rilevanti.
E’, questo, un segno di quali oggi siano i rapporti tra amministrazione e giudici. La inefficienza della prima talvolta è provocata dagli orientamenti giurisprudenziali, quando sono oscillanti.
Quando, poi, è coinvolta la discrezionalità, le cose si complicano ulteriormente. “Discrezionale”, attribuito al potere, suscita diffidenza nel pubblico che vi associa il pericolo di un esercizio scorretto. Per essere discrezionale, si pensa che il potere possa essere esercitato come si vuole.
Per rendere l’idea, si può dire che il potere è discrezionale quando va esercitato tenendo conto della situazione del momento, che nelle norme non può essere ricondotta in uno schema predeterminato in misura sufficiente. Si rimette all’Amministrazione di scegliere la via che al momento appare la più utile.
Al giudice amministrativo è affidato il controllo sulla motivazione per verificarne la sufficienza a dimostrare la ragionevolezza e la coerenza. Può finire con l’essere coinvolto il merito, non la sola legittimità, quando Il giudice applica criteri che è lui stesso a definire. Si è sostenuto che il controllo sarebbe in ogni caso di natura formale perché il merito è lasciato all’Amministrazione che dovrà riprovvedere; si trascura che si dovrà attenere ai profili ritenuti rilevanti dal Giudice in base ad una valutazione diversa da quella di chi ha provveduto. Nella giurisprudenza si trovano casi singolari: partendo dal difetto di motivazione, il Giudice amministrativo è arrivato a disporre direttamente la nomina di organi di alto grado.
Può sembrare un gioco di parole e forse per questo non ha richiamato sinora la giusta attenzione: il controllo sulla discrezionalità non assume anche esso natura discrezionale dal momento che comporta una giudizio su quella altrui?
La distribuzione dei poteri col tempo sembra si sia squilibrata ulteriormente. Magistrati del Consiglio di Stato continuano ad essere chiamati a dirigere uffici legislativi ministeriali o ad essere inseriti, in posizione non defilata, nei gruppi di consulenti dei vertici dello Stato. Il passaggio ad incarichi di rilievo politico è in discussione a proposito della magistratura ordinaria; se ne parla molto meno per quella amministrativa. Si è sentito dire che le due posizioni vanno tenute distinte e che quello che vale per l’una non vale automaticamente per l’altra. Sembra non sia considerato rilevante che i poteri della Magistratura amministrativa hanno una incidenza maggiore sulla gestione della c.d. cosa pubblica e quindi anche sulla realizzazione degli obiettivi di governo che talvolta i membri di quella magistratura hanno contribuito ad elaborare.
Non dovrebbe essere riportato nella normalità che al vertice della magistratura amministrativa pervengano magistrati, di valore professionale indubbio, ma che hanno frequentato a lungo la politica diretta, anche come ministri. Si obietta che la loro correttezza istituzionale è fuori discussione, ma certamente non è fuori discussione che al cittadino comune possa venire qualche dubbio che, seppure infondato, costituisce un danno per le istituzioni.
Il problema non è di soluzione facile e Il momento non sembra il più adatto per affrontarlo. Orientamenti utili, quanto meno per semplificarlo, si potrebbero ricavare dalla giurisprudenza comunitaria.
“…mentre il giudice comunitario esercita un sindacato generale e completo sulla sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 85, n.1, il sindacato che esso esercita sulle valutazioni economiche complesse fatte dalla Commissione si limita necessariamente alla verifica dell’osservanza delle norme di procedura e di motivazione, nonché nella esattezza materiale dei fatti, dell’errore manifesto di valutazione e di sviamento di potere” (Deere c. Commissione, C/7/95, sent.28 maggio 1998, punto 34)”.
Il Giudice, in altre parole, non dovrebbe intervenire su quelle valutazioni della situazione di fatto della quale l’Amministrazione ha conoscenza diretta. Come la Corte di Giustizia non ha avuto difficoltà a individuare i limiti ai suoi poteri, lo stesso potrebbero fare i Giudici italiani: anche per la giurisdizione si dovrebbero ricercare tratti comuni.
Che alcuni canoni stiano sfumando è confermato da alcune minacce di sciopero dei Magistrati. Lo sciopero, se non ci si allontana dalla sua nozione tradizionale, è uno strumento a disposizione del prestatore per tutelarsi nell’ambito del rapporto di lavoro ed i Magistrati, anni a dietro, se ne sono serviti per opporsi ad una minaccia di riduzione dei loro stipendi.
Per la sua natura tecnica, la giustizia deve essere affidata a soggetti appositamente qualificati. Il diritto di sciopero può essere esteso, come pure è stato prospettato, a tutela di pretese sulla qualità del servizio e non sulle condizioni di lavoro? C’è chi ritiene che col tempo il diritto di sciopero avrebbe cambiato la sua fisionomia. Ammesso che sia così, qualche dubbio dovrebbe sorgere quando alla forzatura di un concetto giuridico contribuisce chi dovrebbe applicare il diritto. L’efficacia dal servizio che si presta andrebbe tenuta distinta dalle condizioni del rapporto di prestazione. Solo per rendere meglio l’idea: potrebbero i chirurghi scioperare perché l’ente non ha messo a disposizione gli strumenti più avanzati che consentirebbero interventi d’avanguardia, quando il loro impegno lavorativo è lo stesso?
Sulla qualità del servizio della giustizia dovrebbe essere quanto meno dubbio che i Magistrati possano avere pretese maggiori dei cittadini utenti perché anche essi sono interessati in quanto cittadini e non in quanto prestatori del servizio. I risultati dello sciopero può far pensare che la gran parte, seppure senza dichiararlo, abbia percepito l’incongruenza.
Il settore pubblico attraversa un momento difficile anche in sfere, rimaste defilate fino a poco fa. Sono tornate d’attualità le concessioni balneari. Secondo alcuni si sarebbe messa indebitamente di mezzo l’Unione Europea, allontanando così la questione dal diritto italiano.
I beni demaniali, come dovrebbe essere noto, sono soggetti all’uso di tutti “e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano” (art.823 c.c.), leggi che naturalmente debbono rispettare la Costituzione. A questi usi, definiti speciali, dovrebbero essere ammessi gli interessati attraverso procedimenti di selezione a tutela dell’uguaglianza che garantisca la parità di trattamento.
Quelle concessioni risalgono nel tempo, alcune anche di molto, ed avevano un termine di scadenza. Con giustificazioni varie molte sono state prorogate ripetutamente senza rinnovare il procedimento di aggiudicazione. Sostenendo che sarebbe fuori luogo dover cambiare orientamento solo perché ce lo chiede l’Europa, si dà per scontato, almeno così sembra, che secondo il diritto italiano tutto sarebbe a posto.
Per la legge italiana l’uso individuale di un bene pubblico non può diventare un diritto del singolo, impedendo il concorso periodico dei possibili interessati. Si tratta di un principio in materia di concessioni che non dovrebbe richiedere commenti ulteriori: valido per tutte le concessioni, non si vede perché non dovrebbe essere applicabile a quelle demaniali. Sembrerebbe che, per il fatto che per lungo tempo il rinnovo dei concorsi è stato evitato, la situazione sarebbe diventata legittima. In pratica, una illegittimità prolungata diventerebbe legittimità. La critica agli argomenti dell’Unione Europea finisce con allontanare l’attenzione dal diritto italiano.
Anche se sono in pochi ad essere d’accordo, sarebbe il caso di parlarne perché, anche in questa materia, andrebbe evitata la formula ricorrente che “la verità è”.
I fatti recenti hanno reso di triste attualità un altro argomento che l’aveva persa. Era oramai accettato quasi da tutti che nel settore immobiliare si dovesse essere meno intransigenti per consentire al maggior numero di persone di avere un’abitazione. I fatti di Ischia hanno confermato la pericolosità di questo modo di pensare, anche se qualcuno ha cominciato a prospettare che la causa non sia stata la violazione delle norme urbanistiche, dimenticando che quelle norme sono di tutela personale, oltre che di disciplina del territorio. Se il territorio fosse stato bonificato, il disastro sarebbe stato evitato, ma è anche vero che i danni sarebbero stati molto minori se si fosse costruito rispettando le disposizioni urbanistiche.
Non si può fare finta di non sapere che il fenomeno non riguarda solo Ischia ma molte altre parti d’Italia, non solo al Sud. Una giustificazione ricorrente è stata che certe violazioni non portavano danno a nessuno. Il principio sarebbe che a ciascuno è rimesso il giudizio se, quello che fa, porta danni agli altri; se non sono prevedibili, può fare quello che vuole.
In caso di violazioni urbanistiche, non solo ad Ischia, si è spesso arrivati al giudicato amministrativo, sulla legittimità dall’ordine di demolizione, o in sede penale, sulla commissione di un reato. I condoni sono stati previsti anche per questi casi e nessuno ha obiettato.
Qualche dubbio non sarebbe stato fuori posto. Può il potere legislativo, con norme apposite, eliminare gli effetti di un giudicato? Che possa rendere consentita un’azione, proibita dalla legge fino ad allora, non è la stessa cosa che neutralizzare un giudicato: in questo caso si incide sul rapporto tra poteri. Che sia consentito, non dovrebbe essere dato per presupposto senza parlarne, considerandolo come scontato. Sarebbe da interpellare la Corte costituzionale, ma sembra che nessuno si sia posto la questione.
Il confronto fra i contenziosi annuali della Germania, della Francia e dell’Italia mette in evidenza quale sia il rapporto tra il cittadino italiano ed il diritto. Diventa così necessario un numero maggiore di magistrati con la conseguenza che, nel tempo dei concorsi per saturare i ruoli, la giustizia rallenta oltre il limite tollerabile e che, a concorsi conclusi, il loro maggior numero ne abbassa il livello medio. Torna di attualità quanto, in tempi migliori, è stato rilevato, val e a dire che una giustizia rapida, anche se meno qualificata, è meglio di una di alta qualità che interviene quando gli interessi delle parti sono scaduti.
Sembra arrivato il momento che di questi argomenti si cominci a parlare senza pregiudizi, e senza sentir dire che “la verità vera è”, dando per scontato che sia profilabile una verità che vera non è.