Le proposte della destra di una flat-tax sono state criticate con argomenti “costituzionali” ed economici. Non sarebbe rispettato il principio di progressività delle imposte (art. 53.2 Cost.: Cecchinato), ma forse sì, dipende (Boeri, Perotti); non sarebbe sostenibile dal bilancio dello Stato (ibidem).
Il principio di progressività delle imposte è costituzionalmente sancito, ma, come noto, è di assai ardua giustiziabilità (non potendosi applicare alle singole imposte o tasse, bensì al «sistema tributario» complessivamente inteso: art. 53.2 Cost.). Ma anche se fosse giustiziabile, e pur dicendoci molto sull’imperativo dell’equità sociale, ci direbbe poco sulla funzione più profonda che lega l’imposizione fiscale all’autorità statuale.
Il vincolo di bilancio è ancora più fuorviante.
L’imposizione fiscale serve a sostenere la spesa pubblica? Lo Stato ha davvero bisogno di ottenere dalle tasse la moneta con cui pagare stipendi e riparare strade? La Virginia del 1755 emetteva moneta e contemporaneamente le banconote con cui pagarle: i titoli incamerati annualmente con l’imposta personale venivano bruciati dallo Stato (Wray). La moneta europea nelle colonie africane fu introdotta solo grazie alla tassazione (Tcherneva).
Con l’imposizione fiscale (le “tasse”) lo Stato adempie alla principale funzione di ritirare la moneta che esso stesso ha emesso, il cui valore intrinseco è pari a zero (moneta fiat). Senza le tasse, la moneta “pubblica” non potrebbe esistere, posto che tale moneta costituisce un “debito statale”, ossia la promessa che lo Stato fa di estinguere quelli che, per il cittadino, sono i debiti più gravosi di tutti: i debiti verso lo Stato stesso, le tasse, appunto. Queste ultime stanno al vertice della gerarchia dei debiti proprio in virtù della forza pubblica che ne assiste l’esecuzione. Posto che tutti siamo – teoricamente – chiamati a pagare le tasse, quella promessa di estinguere il debito fiscale dei propri cittadini sarà un titolo estremamente “liquido”, ossia cedibile facilmente in modo da circolare liberamente come mezzo di pagamento per qualsiasi transazione ed estinzione di debiti privati. E il titolo più liquido di tutti è “naturalmente” moneta!
Ma il suo valore intrinseco non risiede nella sua natura metallifera (oro o argento), come nella teoria della moneta-merce, o nella sua “scarsità” (che è un surrogato di quella teoria). Risiede in un atto d’imperio dello Stato, inscindibilmente legato al potere impositivo (Ingham).
Tanto più si batte sul tasto dell’iniquità della tassazione e della necessità di combattere la recessione lasciando più soldi nelle tasche dei cittadini, tanto più si falsa l’idea di questo circuito moneta-tassazione, indebolendo l’autorità del soggetto emittente, lo Stato. In uno Stato senza tasse, regnerebbe il “disordine monetario”. L’idea di un cittadino che produce da sé, in quanto attore del mercato “spontaneo”, il proprio reddito, con la sua operosità e ingegno, nonostante gli ostacoli o addirittura le angherie della burocrazia, è un’idea perniciosa, perché oblitera del tutto l’idea della natura pubblica della moneta, senza la quale il reddito privato non avrebbe valore.
Il modello del lavoratore autonomo con partita IVA, cui si vuol far convergere tutti gli altri lavoratori, oltre a creare il non piccolo problema delle false partite IVA e dello sfruttamento del lavoro che ne deriva, è il messaggio delle destre che vale proprio a supportare quella visione anti-statalista di un mercato spontaneo popolato di individui bisognosi solo di laissez-faire. Salvo reclamare sussidi su sussidi durante il lock-down, plateatico gratuito e ampliamento dell’assistenza sanitaria, ovvero un intervento pubblico sui mercati dell’energia fuori controllo.
Le sinistre, sul punto, sono purtroppo afasiche, posto che la loro cultura economica è fondamentalmente marginalista, ossia fondata sulla “naturalità” del mercato (Cesaratto). Cosa che le ha indotte, a suo tempo, a privare lo Stato (non solo quello italiano) della moneta con “insostenibile leggerezza”. La moneta della BCE è un ibrido: essa non risponde pienamente alla logica della moneta pubblica illustrata sopra. Lo conferma il dato che l’emittente (l’UE) non ha il potere di imporre tasse (se non in casi assolutamente eccezionali, visto che è richiesta l’unanimità del Consiglio). Sono i mercati finanziari globali a vincolare l’emissione di euro-moneta. Un simile passo è incomprensibile da parte di chi è consapevole delle esigenze dello Stato sovrano. Lo sapeva il Draghi del Whatever it takes del 2012 e l’ha imparato presto la Lagarde del Pandemic Purchase Programme del 2020, i quali non hanno potuto fare di meglio che aggirare le regole di Maastricht, ossequiandole a parole.
Concentrare, da sinistra, le critiche sulla insostenibilità economica della flat tax («creerebbe una voragine nei conti pubblici»: Boeri-Perotti) non muta la prospettiva individualista del mercato autoregolantesi. L’argomento continua a fondarsi sull’ipotesi fallace di uno Stato che ha bisogno della moneta dei cittadini-contribuenti, di uno Stato che si limita a smistare ricchezze private per poter realizzare quel poco di beni pubblici che la società di mercato gli lascia ancora produrre. La forza dello Stato (in termini di potere di spesa) è qui ridotta alla sommatoria delle tante contribuzioni individuali dei cittadini-contribuenti, colti come individui dispersi. Come con una colletta parrocchiale o paesana per restaurare un campanile o organizzare una sagra. La forza dello Stato è molto di più di una sommatoria di contributi individuali; lo dimostra il fatto che solo lo Stato è in grado di produrre una moneta fiduciaria e che ogni teoria marginalista si sia tenuta ben alla larga dall’indagare a fondo la natura della moneta (Ingham).
Lo Stato è una forza collettiva, il cui segreto efficiente risiede nella fiducia condivisa tra i cittadini che l’emancipazione dai meccanismi più deleteri (forze della natura e nemici, un tempo, oggi irrazionalità dei mercati e conflitto tra capitali) può essere solo collettiva (Somek). Illudere il cittadino dello Stato che può tranquillamente farcela da solo, come ce la fanno i ricchi dell’1% cui da tempo è stato tolto il carico fiscale, è una pericolosa messinscena (Guazzarotti).
Sono sostanzialmente d’accordo con tutti gli argomenti sviluppati che confesso aver studiato molto meno del prof. Guazzarotti. Mi chiedo però dov’è rimasto l’argomento dell’equità fiscale-sociale. Se profitto e reddito non sono prodotti naturali, ma pubblici, come penso anch’io, come definire, giustificare -per es. con Rawls- e onorare i principi di equità e di progressività delle tasse, e come applicare questi principi concretamente alle tasse oggi vigenti? Non basta dire lo Stato è sovrano. Forse c’entra il principio di maggioranza; forse è proprio qua nel principio di maggioranza-sacrosanto anche se più complesso di quanto può sembrare- il nervo del nesso fra democrazia (diritti politici, la libertà di scelta individuale e le regole della scelta collettiva) e economia/fiscalità (diritti patrimoniali; la proprietà, Locke)?