Il tempo è galantuomo. Alla fine, è successo ciò di cui vari settori della dottrina costituzionalistica avvertivano: in democrazia, non c’è alcuna garanzia di “stabilità”, soprattutto se dietro a questa etichetta si immagina che il popolo voti sempre e comunque per quei partiti o candidati che nella narrazione generale dovrebbero incarnare tale concetto.
La seconda tornata delle elezioni legislative francesi – celebrata domenica 19 giugno per l’assegnazione dei collegi uninominali a doppio turno – ha decretato la fine del c.d. “fait majoritaire” (la cui morte già si era intravista nel 2012, con la fronda interna alla maggioranza di François Hollande: v. Kerléo, 2017; Derosier, 2015) e ha aperto una nuova fase della V Repubblica, tutta da scoprire. Occorre segnalare, in continuità con la storia dal 1958, che nessun Presidente rieletto ha avuto una maggioranza conforme per tutta la durata dei due mandati: Emmanuel Macron ha dovuto inchinarsi a questa tradizione.
In un’Assemblea Nazionale estremamente frammentata, l’attuale campo presidenziale ha ottenuto la maggioranza relativa, ma quasi quaranta seggi lo separano dalla maggioranza assoluta, mentre i due principali partiti di opposizione considerati estremi (a destra e a sinistra) entrano in forza nelle sale del Palais Bourbon, con delegazioni nemmeno immaginabili sino a pochi anni fa. Il Rassemblement National di Marine Le Pen ha conquistato 89 seggi (contro gli 8 precedenti), mentre La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon porta all’Assemblea 75 deputati (a fronte dei 17 uscenti).
La situazione è particolarmente imbrogliata, perché se lo schieramento macroniano non è in grado di esprimere la maggioranza assoluta, è impensabile che le forze di opposizione possano federarsi in funzione anti-presidenziale, vista la distanza siderale che intercorre tra la France Insoumise e il Rassemblement national.
Ma a complicare il quadro c’è di più: la maggioranza relativa dei seggi non è stata ottenuta dal partito di riferimento di Emmanuel Macron (La République en marche), ma da una coalizione di tre forze. Insomma, se anche si riuscisse ad allargare l’attuale maggioranza, forse il Governo dovrà appoggiarsi su un’alleanza di quattro o cinque forze parlamentari, una cosa ben diversa dall’inizio del 2017 quando LREM aveva da sola più della maggioranza assoluta dei seggi, pur condividendo il Governo con il Mouvement démocrate (MoDem) di François Bayrou.
Ecco, dunque, che a Parigi si scoprono ritualità e prassi ormai dimenticate, che invece da questo lato delle Alpi abbiamo ben presenti: la Francia si fonda su un sistema parlamentaristico, ancorché qualificato come “negativo” (v. Le Divellec, 2020).
Il Presidente Macron ha infatti dovuto indire delle consultazioni con le forze politiche per verificare quali sono i margini di manovra per costituire un Governo che abbia almeno una “maggioranza di programma”. Per prendere tempo, all’Eliseo sono state rifiutate le dimissioni che la Prima Ministra Borne ha rassegnato, come è da tradizione, a seguito dell’elezione legislativa. Per la prima volta dopo molto tempo, però, le dimissioni non erano meramente cerimoniali, ma certificavano la sconfitta di una parte politica, che ha peraltro visto esclusi dall’Assemblea alcuni ministri del Governo, che dovranno – in forza di un’imposizione del Presidente Macron – abbandonare il loro incarico. Dunque, malgrado il temporeggiamento ed il simbolico rifiuto delle dimissioni – come a riaffermare che l’autorità del Capo dello Stato è sufficiente a dare copertura al Governo, almeno per il momento – si imporrà come minimo un significativo rimpasto e, una volta formatasi l’Assemblea, la mozione di sfiducia è dietro l’angolo, sia che il Primo ministro enunci il suo programma o formuli una dichiarazione di politica generale su cui impegnare la responsabilità del Governo (art. 49, comma primo, secondo una prassi costantemente seguita anche nella V Repubblica), sia che i gruppi parlamentari agiscano in autonomia con una mozione di censura per mettere in difficoltà il Presidente.
E sarà interessante scoprire se le coalizioni politiche che si sono presentate con candidati comuni alle legislative – la Nouvelle Union populaire écologique et sociale – NUPES, a sinistra, ma anche i Repubblicani hanno al loro interno, anche se meno evidenti, varie anime legate a movimenti collaterali associati al partito – si manterranno sulla stessa linea o subiranno le scissioni di coloro che sono più sensibili alle sirene governative. Anche di questo, dall’Italia potremmo fornire “ottimi” esempi di coalizioni elettorali frantumatesi in corso d’opera.
Ma non è tutto: rischia di tornare in auge il potere di scioglimento anticipato (conosciuto in Francia con la dizione di “droit de dissolution”) che, dopo la riforma del calendario elettorale, sembrava condannato all’oblio. Per un anno, tale potere non sarà esercitabile (art. 12, ultimo comma, della Costituzione), ma a partire dal giugno 2023, chissà che non appaia molto attraente per un Presidente che, al suo secondo mandato, dovrà cedere il passo almeno per un quinquennio, dato il divieto di terza elezione consecutiva. Certo, si tratta di una decisione molto rischiosa, perché profondamente incisiva a livello di sistema: il ritorno dello scioglimento anticipato comporterebbe il disallineamento elettorale fra il mandato presidenziale e la legislatura, con un sostanziale ritorno alla situazione precedente la riforma del 2000.
Bisogna poi notare che, dopo il grande effacement delle elezioni legislative (Le Divellec, 2022) dalla scena politica nel corso della campagna per le presidenziali, la coalizione di sinistra raccolta attorno a Mélenchon ha rilanciato – anche se con etichette capziose, come l’invito ad “eleggere” il Primo ministro (Beaud, 2022) – la centralità dell’elezione parlamentare. Questa strategia ha pagato e il risultato favorevole della NUPES potrebbe aprire ad una nuova visione in cui le forze politiche investono molto di più sulle legislative, soprattutto se si trovano opposte al Presidente eletto. Ciò, del resto, ha favorito anche l’impensabile score del partito di Marine Le Pen, storicamente sempre poco seguito dagli elettori al momento del voto nei collegi.
Nessuno dubita che la posizione di Macron sia assai complicata e, a ben vedere, forse persino più spinosa dei suoi predecessori che dovettero subire la coabitazione. In effetti, un Presidente in coabitazione può giocare la carta del “contropotere”, ergersi a capo dell’opposizione e rallentare – più che impedire radicalmente – le iniziative dell’avversa maggioranza più distanti dal suo sentire (Mitterand si rifiutò di firmare delle ordonnances che avrebbero privatizzato alcune imprese pubbliche; Chirac impedì l’iscrizione all’ordine del giorno del Consiglio dei Ministri di progetti di legge che avrebbero minato l’unità della Repubblica riconoscendo, ad esempio, più autonomia alla Corsica). Un Presidente “minoritario” non ha né il potere di incidere sull’indirizzo politico che gli proviene dall’essere il capo della maggioranza, né l’autorità per contrastare iniziative sgradite. Per giunta, probabilmente non avrà nemmeno il tempo materiale – né certo sarebbe confacente all’autorevolezza e alla dignità del Capo dello Stato trovarlo – per contrattare ogni misura ritenuta saliente.
Quindi, al di là di come si scioglierà il nodo, una ri-parlamentarizzazione (forse parziale, ma non insignificante) del sistema di governo appare quasi obbligata: non solo dovrà riscoprirsi negli emicicli l’essenza della procedura parlamentare, dei suoi tempi e dei suoi compromessi, ma anche il ruolo che – sebbene mai veramente abbandonato – deve esercitare il Primo ministro nella costruzione di un indirizzo da costruire con il Parlamento e non da imporre ad esso. Persino il potere di nomina presidenziale sottoposto al parere obbligatorio delle commissioni assembleari (art. 13, ultimo comma) dovrà, per forza di cose, convertirsi ad una presa in conto degli orientamenti parlamentari, malgrado la tortuosa formulazione del potere di veto delle commissioni (che viene ad esistenza solo con il voto sfavorevole dei tre quinti di ciascuna commissione).
Non dimentichiamo – a contorno – che l’asse macroniano non può nemmeno contare sul supporto del Senato, che in altre epoche di maggioranze risicatissime (come nel caso del Governo Barre III, sotto la presidenza di Valery Giscard d’Estaing) diveniva assai utile come stampella, ad esempio per intavolare l’iter di provvedimenti considerati rilevanti. Il ruolo del Senato, sempre un po’ in ombra nei discorsi di chi guarda Oltralpe, non va dimenticato anche perché è il Parlamento riunito che forma la Haute Cour che può destituire il Presidente della Repubblica (per “manquement à ses devoirs manifestement incompatible avec l’exercice de son mandat”: art. 68. Si tratta di un’ipotesi ovviamente estrema, che peraltro richiede una maggioranza qualificata dei due terzi: al momento, però, il campo schiettamente macroniano non raggiunge la minoranza di blocco.
Dopo le vicende Brexit e la riscoperta della forza del Parlamento, ecco che cade un altro mito comparatistico, di cui in Italia ci siamo serviti per giustificare quel “riformismo tellurico” (Apostoli, 2016) che nasceva dal presupposto dell’inadeguatezza della forma di governo scolpita nella Carta costituzionale.
La Francia e il suo “semi-presidenzialismo” sono stati sempre guardati da un’ampia e trasversale corrente riformistica (da destra a sinistra) come un’evoluzione cui tendere in astratto, senza però che ci si interrogasse sul concreto funzionamento quotidiano delle istituzioni, delle politiche e sull’effettività di queste. Anche qui, un grande effacement c’è stato e ha riguardato la volontà del popolo sovrano, presunta conforme a quella del “capo” (eletto, magari, con un bassissimo consenso iniziale). Giugno 2022 è il mese che ci dimostra, dati alla mano, che la complessità sociale è complessità democratica e che, malgrado tutti i tentativi alchimistici, non può essere costantemente ridotta o semplificata in nome di valori-etichetta quale è la “stabilità”.
E giusto per sgombrare il campo da un dubbio: in Francia nessuno, nemmeno gli sconfitti esponenti della coalizione presidenziale, si sogna di dire che è colpa del sistema elettorale e ne invoca quindi un cambiamento. Più che cambiare regole, o addirittura cambiare popolo, forse è il caso di cambiare politiche. Che giugno 2022 abbia regalato anche all’Italia una qualche lezione?
* Università Ca’ Foscari di Venezia – Université Paris II Panthéon Assas