Il referendum abrogativo è una cosa seria, ma chi lo propone non sempre lo è. E l’astensionismo che ha vanificato i referendum per i quali si è votato ieri lo ha clamorosamente confermato.
La Corte costituzionale ha avuto gioco facile nel bloccare i tre referendum di iniziativa popolare (quelli spacciati sotto gli ingannevoli titoli “eutanasia”, “cannabis” e “responsabilità del giudice”), per il semplice motivo che erano giuridicamente sbagliati e palesemente inammissibili: il referendum abrogativo non può produrre come risultato una norma incostituzionale, la Corte lo aveva affermato già nel 1978; perché allora proporre quesiti chiaramente destinati ad essere cestinati? Per insipienza, per errore tecnico o per poter poi gridare allo scandalo, per delegittimare la Corte costituzionale e agitare le acque del più becero populismo anti-istituzionale? O per sollecitare il parlamento a legiferare – con un uso del tutto strumentale delle istituzioni di “democrazia diretta”?
E che dire dei cinque referendum per cui solo pochi sono andati a votare il 12 giugno? Non si può dimenticare che essi non sono stati promossi dall’iniziativa dei cittadini-elettori, ma da un certo numero di Consigli regionali, tutti a maggioranza di centro-destra. Riguardavano aspetti organizzativi della giustizia, salvo quello che voleva abrogare l’intera legge Severino, “in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi”. In materia di organizzazione giudiziaria le regioni non hanno alcuna voce in capitolo, per cui è davvero difficile capire quale interesse avessero a promuovere la consultazione popolare; la legge Severino invece colpisce anche gli amministratori regionali condannati per gravi reati con sentenza definitiva (in alcuni casi la sospensione dalla carica deriva anche da condanna non definitiva, però): qui forse le regioni hanno qualche interesse, dunque, ma un interesse inconfessabile. Si tratta della difesa del proprio personale politico e del suo rapporto con la giustizia! Dietro alla proposta di questi cinque referendum c’è un preciso indirizzo politico: screditare la magistratura sia per come è organizzata sia – nella legge Severino – per le pronunce che emette dopo regolare processo. SI delegittimano i giudici e il processo, mentre ad essere difesi sono invece personaggi politici che hanno subito provvedimenti giudiziari per gravi reati.
Se così stanno le cose – se invece stanno diversamente sarei felice di essere smentito – l’astensione dal voto mi pare più che giustificata: quasi un dovere civico. Personalmente, contesto il diritto delle regioni di usare il referendum come arma di lotta politica; contesto che il cittadino si possa sentire in colpa se non va a votare per dei referendum che non lo riguardano; contesto che si possa decidere con un si o un no questioni piuttosto complicate che, ne sono sicuro, non erano nella comprensione di buona parte dei consiglieri regionali che hanno votato per la proposta di referendum. Non andare a votare non è solo una risposta nel merito dei referendum, ma è soprattutto un rifiuto di stare al gioco e di un uso così scopertamente strumentale di due valori sacri: la partecipazione popolare e l’autonomia regionale.
L'immagine è tratta da twitter @Ariel48536344