Ci si può rivolgere a un giudice per fermare l’emergenza climatica? Oppure questo significa stravolgere il ruolo delle istituzioni democratiche, attribuendo al giudice una funzione “creativa” che non gli spetterebbe? Esiste un giudice naturale per salvarsi dalla catastrofe? Ma salvarsi dalla catastrofe attraverso l’accesso al giudice davvero significherebbe abilitarlo alla “creatività”?
Com’è noto, questi interrogativi attraversano ormai l’intero dibattito mondiale sul contenzioso climatico (le c.d. “Climate Change Litigations”) e sono presenti anche in Italia (cfr. Louvin e Guarna Assanti).
Invero, per rispondere alla domanda se esista un giudice naturale per salvarsi dalla catastrofe, bisognerebbe prioritariamente tener conto della biforcazione dei contenziosi climatici in due tronconi: quelli “strategici”, aventi per oggetto esclusivamente la noluntas decidendi dello Stato nel rimuovere la situazione di pericolo dell’emergenza; quelli “comuni”, riguardanti un qualsiasi thema decidendum dove il richiamo all’emergenza climatica costituisce un argomento ma non il fatto dedotto in giudizio. Solo nel primo caso, il giudice naturale dell’emergenza climatica è ben identificato e non può che coincidere con quello civile di piena cognizione, normativa e fattuale, della responsabilità extracontrattuale sul pericolo.
La dottrina italiana, a oggi, non ha approfondito la distinzione, complici anche due peculiarità da non sottovalutare.
In primo luogo, essa discute il tema generale dell’acceso al giudice in assenza di precedenti giudiziali specificamente riguardanti l’emergenza climatica. Allo stato, esiste solo una recente Ordinanza della Corte di cassazione, la n. 5022/2021, in cui comunque si riconosce che il “nucleo ineliminabile costitutivo della dignità personale” deve essere garantito dallo Stato nei casi di grave rischio derivante dal cambiamento climatico, dato che “tutti gli Stati sono vincolati ad assicurare agli individui condizioni di vita che rendano possibile la piena esplicazione del diritto alla vita, nella sua più ampia declinazione, anche a prescindere dall’esistenza di un pericolo attuale per la sopravvivenza”. Tale indirizzo, tra l’altro, si inserisce nell’alveo di quella giurisprudenza costituzionale (decisioni nn. 202/1991, 418/1992, 127/1995, 399/1996, 361/2003, 59/2006, 58/2018) che constata come la condizione di esposizione a un pericolo determini comunque l’insorgenza di un obbligo non irrazionale di neminem laedere in capo a chi ha il potere-dovere di porre fine alla minaccia. In ogni caso, un precedente di responsabilità extracontrattuale per noluntas decidendi sull’emergenza climatica ancora non c’è (ma cfr. Bagni per il pendente c.d. “Giudizio Universale”).
In secondo luogo, la dottrina italiana sembra inquadrare la questione giuridica dell’emergenza climatica quasi sempre – salvo alcune eccezioni (cfr. Pisanò e ivi dottrina) – senza considerare non solo la specifica complessità fattuale del disastro in corso (che si aggrava di giorno in giorno: cfr. UNDRR, Climate action and disaster risck reduction), ma anche le caratteristiche epistemiche delle scienze che lo studiano (sulla cui rilevanza per il giurista, cfr. Vineis e Kahn).
Il tutto, di conseguenza, si riduce a esposizioni generalizzanti se non addirittura generiche, in particolare allorquando si affronta il delicato rapporto tra scienza, diritto e politica, sintetizzato dalla fallacia argomentativa che la scienza (quale?) non possa tradursi in predizioni (di che natura?) e indurre i giudici a “creare” diritto (in che senso?) sostituendosi a decisioni legittimate democraticamente (sulla ricorrenza di salti logici e fallacie argomentative nel discutere il ruolo “creativo” dei giudici di fronte alla scienza, si v. Poli; Cevolani e Crupi; Lamorgese).
Eppure è stato proprio lo Stato italiano, per bocca della sua difesa erariale, a fornire la chiave di volta del problema, lì dove ha ammesso che il principio di precauzione, come norma di diritto positivo, impone al decisore di prediligere, tra quelle possibili, la soluzione che bilancia meglio la “minimizzazione dei rischi” con la “massimizzazione dei benefici”, previa individuazione di una “soglia di pericolo accettabile” offerta dalla “migliore scienza disponibile” (così l’Avvocatura dello Stato in Corte cost. n. 5/2018, p. 8.1 in fatto).
La “migliore scienza disponibile” è sì predittiva, ma in termini di cognizione delle conseguenze dannose dell’agire in base alla norma positiva del principio di precauzione, operando dunque come prognosi della responsabilità del decisore, sia esso politico che giudiziale, la cui discrezionalità sulla tutela effettiva dei diritti non può essere prescissa dai fatti scientifici di accertamento del pericolo e dalle soglie di accettabilità dello stesso.
In altre parole, utilizzare la “migliore scienza disponibile” non significa affatto “creare” norme, bensì applicare correttamente e responsabilmente norme vigenti, a partire dalla precauzione, allo scopo della identificazione della “soglia di pericolo accettabile” nella “minimizzazione dei rischi” per la “massimizzazione dei benefici”.
In questa prospettiva, avallata dalla Corte costituzionale sin dalla sent. n. 127/1990 (secondo il costrutto della c.d. “riserva di scienza”, su cui si v. Servetti), l’accesso al giudice si attiva non come surrettizia produzione (“creazione”) di norme bensì come accertamento scientifico di responsabilità extracontrattuale sulla rimozione del pericolo.
La conclusione, di per sé pacifica nel diritto civile dei casi “ordinari” di pericolo (cfr., tra le ultime, Cass. civ. Sez. VI n. 10488/2022), non può non valere per l’emergenza climatica, tra l’altro riconosciuta e formalizzata, per lo spazio giuridico europeo, dal Parlamento europeo nel 2019.
Opinare l’inverso sarebbe, prima ancora che in contrasto con la suddetta dichiarazione europea, illogico e assurdo: nell’immanenza dell’emergenza climatica, la più disastrosa situazione di pericolo per la vita di tutti nel presente e nel futuro, non ci si potrebbe tutelare, rimettendosi, in nome della democrazia, alla discrezionalità insindacabile di un potere che disporrebbe delle sorti esistenziali dei propri cittadini, protetto da un’immunità giurisdizionale che nessuna Costituzione degli Stati UE, inclusa l’Italia, contempla.
Pertanto, il tema della “creatività” del giudice nel decidere sull’emergenza climatica si deve misurare esattamente con l’argomento posto dall’Avvocatura dello Stato nella citata sent. costituzionale n. 5/2018: in presenza di quella inedita e sconvolgente situazione di pericolo, rappresentata appunto dall’emergenza climatica, qual è la “soglia di pericolo accettabile”, offerta dalla “migliore scienza disponibile” per la “minimizzazione dei rischi” nella “massimizzazione dei benefici”?
Qui entra in gioco la novità trascurata da molti giuristi: nel contesto della UE, la risposta al quesito è normativa, prima ancora che scientifica. È normativa, in quando le fonti sull’emergenza climatica, a partire dalla Convenzione Quadro ONU del 1992 (la UNFCCC) per arrivare all’Accordo di Parigi del 2015, sono state “europeizzate” ossia tradotte in fonti del diritto europeo, direttamente applicabili e vincolanti Stati e cittadini nei termini degli artt. 4 n. 2 lett. e, 191 n. 4, 216 n. 2 TFUE.
Su quelle fonti “europeizzate” si dipana un complesso sistema di vincoli normativi, deputato proprio a qualificare tanto la “soglia di pericolo accettabile” quanto la “minimizzazione dei rischi” nella “massimizzazione dei benefici”.
Se ne offre una sintesi in cinque punti.
- Al primo posto si colloca il criterio metodologico dell’equity, richiamato dagli artt. 3 n. 1 dell’UNFCCC e 2 n. 2 dell’Accordo di Parigi e ripreso ora dal Reg. UE n. 2021/1119. La sua funzione non è quella di individuare la soglia di pericolo accettabile, bensì di garantire nel tempo l’effettività della minimizzazione dei rischi nella massimizzazione dei benefici, in modo da consentire allo Stato la costante progressione nel tempo dei propri risultati di eliminazione dell’emergenza.
- Al secondo posto, si inserisce l’obbligo di contenimento dell’aumento della temperatura globale a non più di 1.5°C rispetto ai livelli preindustriali, formalizzato sempre dal cit. Reg. UE n. 1119. Si tratta del primo vincolo normativo europeo di qualificazione della “soglia di pericolo accettabile”. Da esso si desume che decidere per scenari che superino il limite di +1,5°C non è pericolo accettabile ed è contra legem.
- Seguono poi due obblighi di risultato a scadenza temporale improrogabile (il 2030, per la riduzione delle emissioni di gas serra “almeno” del 55%, e il 2050, per la realizzazione definitiva di attività economiche climaticamente neutre). Essi identificano il secondo e terzo vincolo normativo europeo di qualificazione sempre della “soglia di pericolo accettabile” e sempre in base al cit. Reg. UE n. 1119. La prima soglia traccia un risultato minimo, accettabile nella misura in cui non comprometta comunque la soglia finale, improrogabile e inderogabile, della neutralità climatica al 2050.
- Va poi aggiunto un ulteriore criterio metodologico, integrativo dell’equity, quello del “non recare danno significativo” (DNSH) all’ambiente e alla salute in tutte le attività finanziate dallo Stato, imposto ora dai Regolamenti UE nn. 2020/852 e 2021/241. Esso comporta che i metodi di rimozione della situazione di pericolo, oltre a dover garantire nel tempo l’effettività della minimizzazione dei rischi nella massimizzazione dei benefici, grazie all’equity, debbano comunque offrire sin da subito un contributo sostanziale alla mitigazione climatica e all’ambiente (nei termini scanditi dagli artt. 10 e seg. del cit. Reg. UE n. 852).
- Chiude il cerchio la centralità dei diritti umani in proiezione anche intergenerazionale, da riconoscere e tutelare ma soprattutto promuovere come massimizzazione dei benefici, in conformità con quanto indicato dal Preambolo dell’Accordo di Parigi e dallo stesso diritto UE, attraverso il richiamo alla Carta dei diritti fondamentali di Nizza.
È appena il caso di osservare che questi punti di diritto euro-unitario sull’accettabilità della soglia di pericolo incidono sulla portata applicativa dei riformati artt. 9 e 41 della Costituzione, riempendone i contenuti di facere nell’adempimento costituzionale e soddisfacendo altresì la riserva di legge tanto generale dell’art. 23 Cost., per la imposizione legale di prestazioni dentro lo Stato, quanto specifica dell’ultimo comma dell’art. 41 Cost. per la regolazione delle attività economiche.
Ma quale risultato pratico produce il rispetto di questi vincoli normativi nella rimozione del pericolo dell’emergenza climatica? Detto in termini ancor più rigorosi: quale minimizzazione dei rischi si consegue con questi vincoli?
Qui entra in gioco la conoscenza offerta dalla “migliore scienza disponibile”, non a caso evocata, in via generale, dall’art. 191 n. 3 TFUE, ma soprattutto, in via specifica per la mitigazione climatica, dall’art. 4 n. 1 dell’Accordo di Parigi e dall’art. 3 n. 4 del cit. Reg. UE n. 1119.
La minimizzazione dei rischi consiste nella riduzione delle morti umane. Ormai il nesso tra emergenza climatica e morte è scientificamente acclarato.
Siamo destinati a superare la soglia di 1,5ºC entro il 2040. L’ultimo AR6 dell’IPCC del 2021-2022, di cui l’Italia fa parte, sintetizza lo stato delle conoscenze scientifiche sui rischi che non si riuscirà a minimizzare (sul sistema di funzionamento dell’IPCC attraverso il consenso deliberativo degli Stati, si v. CMCC, Che cos’è l’IPCC). E si è arrivati, per questo, a calcolare l’indice di mortalità da emissione climalterante aggiuntiva, elaborato con il modello DICE-EMR. È denominato “morte in eccesso” perché identifica e quantifica i decessi dovuti all’aumento di emissioni, che si verificano prematuramente rispetto a uno scenario controfattuale in cui l’emissione marginale non è stata prodotta. È da notare che l’indice tiene conto solamente delle morti riconducibili all’aumento delle temperature, lasciando fuori fattori decisivi come malattie infettive, esaurimento di riserve alimentari, siccità, carenza idrica ed eventi estremi, di cui invece indici di morte l’OMS (cfr. WHO, The 1.5 Health Report). Ne consegue che le vittime della persistenza dell’emergenza climatica saranno sicuramente maggiori rispetto alle stime, anche perché l’emergenza prelude al ribaltamento di molti punti vitali di stabilità dell’intero sistema Terra con effetti domino di aggravamento dei danni (i c.d. “Tipping Point”).
Ecco perché la minimizzazione del rischio significa evitare morti; e le “morti in eccesso” nessuno dubita siano “danni significativi” non compensabili né bilanciabili né rinviabili, a differenza del tradizionale “costo sociale” del carbonio (cfr. Bressler).
I “danni significativi” sono sempre giustiziabili, anche preventivamente e soprattutto nelle democrazie come, tra l’altro, ricorda la Corte di Strasburgo (si v., tra gli altri, i casi Di Sarno c. Italia n. 30765/08; Okyay c. Turchia n. 3622/97; Taskin c. Turchia n. 46117/99).
Pertanto, accedere alla giustizia per scongiurare “morti in eccesso” può realisticamente significare l’incitamento alla “creatività” del giudice; o non è piuttosto una normalissima azione di responsabilità extracontrattuale contro una situazione di pericolo che di diverso, rispetto al passato, ha solo la sua drammatica portata distruttiva?