Il principio internazionalista nella Costituzione è l’ultimo dei grandi “meta-principi” a venir sintetizzato dalla dottrina maggioritaria (Mortati, 1969): non a caso, esso si afferma a partire dalla metà degli anni Settanta (A. Cassese, 1975; Pizzorusso, 1978; ecc.). A partire dalla crisi dei missili di Cuba erano stati siglati i primi trattati contro le armi nucleari (1963: trattato sulla messa al bando parziale degli esperimenti nucleari; 1970: trattato di non proliferazione nucleare; 1972 e 1979: Strategic Arms Limitation Talks – SALT). È del 1975 la Conferenza di Helsinki che diede avvio alla distensione tra i due Blocchi e pose le basi per l’OSCE.
Sembrerà strano che il principio internazionalista non si sia affermato a ridosso dell’approvazione della Costituzione, stante la chiara aspirazione che accomunava i Padri costituenti a una rapida ammissione dell’Italia nelle Nazioni Unite. Ma tale aspirazione si scontrò, subito dopo l’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana, con la geopolitica e il mutato orientamento delle potenze vincitrici (guerra di Corea e risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU approvate nel 1951 senza la rappresentanza della Cina popolare e con l’assenza polemica dell’URSS, Cortina di ferro, ecc.). Mentre si stava approvando il testo definitivo dell’art. 11 era in corso il passaggio dall’universalismo di Roosevelt alla dottrina Truman. L’Italia, inoltre, epurate le sinistre dal governo, aveva già ottenuto il suo riconoscimento internazionale grazie all’adesione alla NATO (1949) e al Consiglio d’Europa (1949) e all’abrogazione delle condizioni punitive del Trattato di pace del 1947, allentando di molto l’urgenza dell’ammissione nelle N.U. (Varsori).
Internazionalismo pacifista e geopolitica hanno, dunque, percorsi intrecciati fin dalle origini.
Non sempre gli USA hanno giocato il ruolo che stanno pericolosamente giocando oggi: si pensi all’intervento con cui l’Amico americano ha neutralizzato l’improvvida avventura neo-coloniale di Regno Unito e Francia contro l’Egitto della nazionalizzazione del Canale di Suez (1956); ma si pensi anche a un dato poco noto tra i costituzionalisti (e i giuristi): senza gli USA, l’Unione europea dei pagamenti non avrebbe funzionato e la ripresa del mercantilismo economico tedesco avrebbe rapidamente squilibrato la bilancia dei pagamenti nei Paesi beneficiari del Piano Marshall, vanificandone gli obiettivi di stabilizzazione del Vecchio continente (Fantacci, Papetti).
Gli USA, però, hanno agito in modo ben diverso quando è stata minacciata la loro egemonia economica e quella del dollaro, in particolare: con la crisi della bilancia dei pagamenti (innescata soprattutto dal mercantilismo tedesco e giapponese, la cui ripresa industriale era stata probabilmente più rapida di quanto gli stessi USA avevano previsto), l’America di Nixon non esitò a salvare l’egemonia del dollaro sganciandosi dalla rete di coordinamento di Bretton Woods. Non si trattò solo di sganciare il dollaro dall’oro, bensì di finanziarizzare l’economia USA (libera circolazione dei capitali, anche speculativi, al fine di attrarre capitali esteri: Di Gaspare), disinteressandosi degli equilibri globali (rialzo dei tassi d’interesse e conseguente crisi debitoria dei Paesi “in via di sviluppo”, che avevano contratto mutui denominati in dollari). Se con la crisi di Lehman Brothers e le sue gravi ripercussioni sull’euro, vi fu chi lesse la politica USA (anche quella delle grandi banche e delle agenzie di rating anglo-americane) in termini di freno all’ascesa globale dell’euro (ancora Di Gaspare), oggi pochi (tra i giuristi, almeno) leggono l’opzione della co-belligeranza in Ucraina quale mossa strategica degli USA per spezzare il pericoloso asse euroasiatico tra Germania e Russia (blocco del gasdotto Nord Stream 2: Limes 2020).
Per Arrighi, il capitalismo ha subito nella storia progressive espansioni (cicli sistemici di accumulazione) sempre per opera di un determinato centro di potere “politico-statuale”. Si passa dall’alleanza tra Impero spagnolo e banchieri genovesi (XVI sec.), al colonialismo olandese (XVII sec.), poi soppiantato da quello britannico (XVIII e XIX sec.), con la sterlina a fare da moneta internazionale fino al crollo tra le due guerre mondiali e alla sostituzione degli USA e del dollaro nell’egemonia economica globale (XX sec.). Ognuna di queste ondate espansive del capitalismo “occidentale” ha visto il Paese guida passare da una economia reale (fase dell’ascesa) a un’economia finanziarizzata (declino), con tale seconda fase a segnalare il preludio al “cambio di regime globale”. Tale passaggio di potere è stato sempre traumatico, con un crescendo che ha visto nella Seconda guerra mondiale il suo apice di violenza.
Non sappiamo se si stia inverando davvero la previsione di Arrighi sulla regolarità di tali fasi economiche e geopolitiche. Di certo, colpisce la sequenza tra crisi finanziaria del 2007, il riarmo USA (e, invero, globale) e l’attuale rischio di sfiorare la Terza guerra mondiale. Nel primo conflitto mondiale, gli USA non erano ancora pronti ad abbandonare l’isolazionismo che li caratterizzava e si dovette attendere la fine della Seconda guerra mondiale e lo scoppio della guerra fredda affinché essi accettassero l’onore e gli oneri dell’egemonia economica globale (Varoufakis). Oggi, l’unico plausibile successore a tale ruolo è costituito dalla Cina, che già aveva messo in piedi strategie reticolari per l’espansione della propria egemonia (Via della Seta, 5G, ecc.). Ma la Cina recita ancora la parte dell’egemone riluttante e, nel presente conflitto, preferisce stare alla finestra. Non sembra, del resto, immaginabile una rapida integrazione geo-economica sotto il cielo cinese, stante le profonde differenze culturali che ancora separano la Cina dall’Occidente (Vissalli), diversamente da quanto poteva dirsi rispetto a Vecchia Europa e USA (nonostante le invettive lanciate dal Carl Schmitt del Nomos della terra contro gli imperi marittimi).
Nella speranza che lo scenario di una transizione violenta da un’egemonia geo-economica a un’altra resti inverosimile, non ci resta, come europei fedeli al credo della pace attraverso il diritto, che il dovere morale di invocare una seconda Helsinki e un rinnovato appello al disarmo globale (Mattarella). Nel nostro piccolo, però, non possiamo omettere un’autocritica. Gli anni della crisi economica hanno visto l’UE – e l’Eurozona, in particolare – contribuire non alla stabilizzazione del capitalismo globale, bensì alla sua destabilizzazione, posto che il surplus della bilancia dei pagamenti dell’UE rispetto al resto del mondo ha raggiunto, dal 2010 al 2017, livelli inauditi (Bellofiore et a.). E, si sa, il mercantilismo non è mai un’opzione pacificatrice.
Se la pace era al cuore della visione messianica della Dichiarazione Schuman (Weiler), assieme con la responsabilità per lo sviluppo dell’Africa, oggi quella visione può e deve essere rilanciata (Azzariti). Il riarmo programmato dei Paesi dell’UE e l’indifferenza verso la crisi alimentare nei Paesi africani scatenata dal prolungarsi del conflitto tradisce entrambi gli impegni di quella visione alla base del progetto di integrazione europea. Destabilizzare è assai più facile che provare a frenare lo scivolamento verso il caos. Gli Stati membri dell’UE possono ancora giocare un ruolo in tutto questo, sempre che i loro governi vogliano ascoltare la voce dei rispettivi popoli.