La XVIII legislatura ha rischiato di essere la più breve della storia (per le difficoltà nella formazione del primo governo Conte), ma, alla fine, è stata una delle più attive per quanto riguarda le riforme costituzionali. Dopo la riduzione del numero dei parlamentari (l. cost. 1/2020), l’equiparazione dell’elettorato attivo tra Camera e Senato (l. cost. 1/2021) e l’introduzione della tutela esplicita dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi (l. cost. 1/2022), si continua a dibattere su altre riforme da poter approvare in questo ultimo anno di legislatura.
Ad esempio, il Senato ha approvato all’unanimità una proposta di legge costituzionale (S. 865), di iniziativa popolare, concernente il “riconoscimento delle peculiarità delle Isole e il superamento degli svantaggi derivanti dall’insularità” e ora è in esame presso la Camera.
L’idea di fondo delle riforme approvate in questa legislatura è stata quella di procedere con interventi settoriali. Preso atto di questa tendenza, alcuni politici stanno tentando di immaginare “uno strumento” o “un contenitore” per la discussione di riforme di più ampio respiro da portare avanti nei prossimi anni. Ad esempio, l’on Baldelli (FI) ha presentato alla Camera una proposta di legge costituzionale (A.C. 3429) con la finalità di far eleggere, contemporaneamente al prossimo rinnovo di Camera e al Senato, una “Convenzione” (questo il nome proposto) di 150 componenti, che avrebbe il compito di approvare un testo di riforma da sottoporre alla Camera e al Senato. Anche al Senato (primo firmatario sen. La Russa, FdI, A.S.2508) è stato presentato un disegno di legge costituzionale, sempre in deroga rispetto all’art. 138 Cost., per eleggere un’Assemblea composta da 100 membri competente per l’approvazione di una riforma della seconda parte della Costituzione e che dovrebbe concludere i propri lavori entro un solo anno (e terrebbe le proprie sedute a Villa Lubin, sede del CNEL). Bisogna sottolineare che le due proposte, riconducibili alla medesima ratio, sono state presentate da esponenti della medesima coalizione (il centro-destra), ma appartenenti a due partiti che si trovano uno all’interno della maggioranza (Forza Italia), mentre l’altro è la maggiore forza (se non l’unica) di opposizione (Fratelli d’Italia).
Analizzando con più attenzione il testo proposto dall’on. Baldelli (richiamato anche da Sabino Cassese sul Corriere della Sera lo scorso 23 aprile), si può dire che verrebbe a crearsi, transitoriamente, un sistema “tri-camerale”, dove Camera e Senato si occuperebbero della “quotidianità” della vita politica stabilita nel calendario parlamentare (es. fiducia al Governo, approvazione di leggi, conversione di decreti legge, approvazione della legge bilancio, potere di indirizzo e controllo, riforme della prima parte della Costituzione e tutte le altre tipiche funzioni parlamentari), mentre questa nuova assemblea si occuperebbe solo di discutere e redigere una proposta di revisione della seconda parte della Costituzione da sottoporre alle Camere (ed eventualmente a referendum confermativo).
La ratio della proposta è quella di permettere una discussione sui temi relativi alla revisione della seconda parte della Costituzione “al riparo dalle ‘perturbazioni’ politiche ed elettorali più o meno variabili o ricorrenti, e dalle conseguenti dinamiche di incontro e scontro politico quotidiano tra gruppi e coalizioni sugli argomenti presenti nel calendario parlamentare” (forse analogicamente si può pensare al momento costituente del 1946-1948, quando le funzioni legislative erano formalmente assegnate al Governo, anche se non fu mai recisa del tutto la natura parlamentare dell’Assemblea Costituente, cfr. art. 3 d.l.l. n. 98/1946). Probabilmente, nell’idea del presentatore, la proposta vorrebbe recuperare anche parte della rappresentatività delle Camere, su cui inciderà, con ogni probabilità, la riduzione dei parlamentari.
L’idea di una legge costituzionale in deroga all’art. 138 Cost. non è nuova nell’esperienza repubblicana (sul punto già A.A. Cervati, Brevi riflessioni sull’uso di procedure straordinarie di revisione della Costituzione e sull’abuso delle leggi costituzionali in alcuni ordinamenti contemporanei, 1999, pp. 259-299), ma non ha mai avuto fortuna (ad esempio il celebre progetto Letta-Quagliariello del 2013 o le leggi costituzionali 1/1993 n. 1 e 1/1997).
La Convenzione di 150 componenti sarebbe eletta con un sistema proporzionale (con il sistema delle liste bloccate e alternanza di genere) basandosi su 5 grandi circoscrizioni: Nord-ovest (Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Lombardia), Nord-est (Veneto, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna); Centro (Toscana, Umbria, Marche, Lazio); Sud (Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria); Isole (Sardegna, Sicilia). La determinazione dei seggi da assegnare alle singole circoscrizioni sarebbe effettuata in proporzione alla popolazione residente in ciascuna di esse, sulla base dei risultati dell’ultimo censimento generale. Qui emergere un problema di omogeneità delle circoscrizioni visto che la “Nord-ovest” avrebbe circa 15, 5 milioni di abitanti; le “Isole” 6,3 milioni e le restanti tra gli 11,5 e i 13,2. La differenza tra le circoscrizioni “intermedie” e quella “Nord-ovest” sarebbe di circa il 36% (che salirebbe a circa l’80% rispetto alla circoscrizione “Isole”).
Ad una prima lettura, la modalità di elezione potrebbe essere accomunata a quella prevista dal c.d. Porcellum (l. 270/2005), considerata la presenza di circoscrizioni ampie e con magnitudo alta (con il rischio di non rendere effettivamente conoscibili i candidati agli elettori), tematiche già affrontate e decise dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 1/2014 (Considerato in diritto punto 5.1). La pronuncia della Consulta non appare, però, applicabile alla Convenzione, vista la particolare natura e finalità di quest’organo (cioè discutere solo di una proposta di riforma da presentare alle Camere). Inoltre, i membri di quest’assemblea sarebbero privi di alcune prerogative tipiche dei parlamentari legate alla funzione di indirizzo politico e a quella di controllo. Anche l’impossibilità della sanzione politica (la non rielezione) nei confronti del membro della Convenzione nella successiva tornata elettorale sembrerebbe far scolorire il legame rappresentante-eletto tipico del parlamentarismo. Trattandosi di una legge di revisione costituzionale, infine, questa dovrebbe rispettare solo i principi del nostro ordinamento costituzionale (Corte cost. sent. n. 1146/1988) e non si può certo ritenere che il divieto di “liste lunghe” sia un principio supremo dell’ordinamento (mentre la proposta è attenta al rispetto della parità di genere, che potrebbe ritenersi, sia per l’importanza sia per la consolidata applicazione, un principio costituzionale consolidato).
La carica di membro della Convenzione sarebbe incompatibile con quelle di ministro e di sottosegretario e ai membri dell’assemblea si applicherebbero le norme in materia di incompatibilità previste dalla legge per i membri del Parlamento della Repubblica. La Convenzione avrebbe sede a Roma avvalendosi delle strutture e del personale della Camera dei deputati e del Senato (e di personale comandato dalle pubbliche amministrazioni).
Tra i primi adempimenti istituzionali, la Convenzione dovrebbe eleggere un proprio Presidente, adottare un proprio regolamento (si applicherebbe nel frattempo quello della Camera) e decidere se costituire commissioni permanenti con funzioni referenti composte in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi. È immaginabile che l’assemblea decida di adottare il regolamento di uno dei due rami del Parlamento, anziché discutere ed elaborarne un terzo. Infatti, la Convenzione dovrebbe concludere i propri lavori entro tre anni dalla prima seduta (prorogabile di un anno su deliberazione dell’assemblea a maggioranza dei due terzi dei componenti) con l’approvazione, a maggioranza assoluta dei componenti, di un testo di revisione della Costituzione. Il testo, poi, dovrebbe essere votato (nel suo complesso e senza modifiche) da Camera e Senato. Se il progetto fosse votato almeno dalla maggioranza assoluta dei componenti delle Camere, entro tre mesi dalla data di pubblicazione del testo in Gazzetta Ufficiale, potrebbe essere richiesto referendum da un quinto dei membri di ciascuna Camera, da cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Se in entrambe le Camere tale maggioranza assoluta non fosse raggiunta, al contrario di quanto previsto oggi dall’art. 138 Cost., il referendum sarebbe obbligatorio, visto che si creerebbe un disallineamento tra le Camere e la Convezione, anch’essa rappresentante della volontà dei cittadini e legittimata dal voto. Se il testo fosse approvato, invece, con la maggioranza dei due terzi dei componenti, il referendum non si terrebbe. Sintetizzando, avremmo: referendum obbligatorio se le Camere non approvassero la proposta a maggioranza assoluta (respingendo, ex art. 138 Cost, il testo); referendum facoltativo se si raggiungesse la maggioranza assoluta; assenza di referendum se, invece, fosse raggiunta la maggioranza qualificata dei 2/3 dei componenti.
Durante i lavori della Convenzione, le Camere della futura XIX legislatura non potrebbero discutere o approvare progetti di revisione costituzionale nelle materie attribuite all’Assemblea (anche se, in teoria, potrebbe essere approvata una legge costituzionale per derogare a questa limitazione).
Il progetto non pone vincoli sulle scelte della futura assemblea, lasciando una grande libertà alla politica e alla concertazione. Lascia un po’ perplessi che la Convezione, votata direttamente dai cittadini, abbia solo il compito di redigere un testo, come una semplice commissione preparatoria (anche se, nella ratio del sistema, deriverebbe la propria legittimazione direttamente dal corpo elettorale e appare improbabile uno scontro tra le tre assemblee). Nonostante ciò, la proposta può essere utile per capire come si voglia usare l’ultima parte della legislatura e l’approvazione del progetto sarà decisa dalla volontà politica e della capacità di ascolto e convincimento degli attori politici, come è tipico di ogni atto parlamentare in un sistema democratico-rappresentativo. È necessario, però, che il tema della revisione della seconda parte della Costituzione non venga dimenticano e ben vengano tentativi che cerchino di immettere caffeina (riprendendo la metafora di Gaetano Mosca al momento dell’approvazione della legge elettorale proporzionale nel 1919) in un sistema che rischia la sonnolenza in vista delle elezioni del 2023.
La proposta di legge costituzionale A.C. 3429, presentata dall’on Baldelli alla Camera, per far eleggere, contemporaneamente al prossimo rinnovo di Camera e Senato, una “Convenzione” di 150 componenti che avrebbero il compito di formulare un testo di riforma della parte II della Costituzione da sottoporre all’approvazione di Camera e Senato, è un’idea eccelente nella sostanza, pessima nella forma. In realtà non si tratterebbbe di una Convenzione, termine con il quale si designava un’assemblea con competenze costituenti che rappresenta o il popolo sovrano (Parigi 1792) o le unità che compongono la confederazione di stati indipendenti intenzionati a riformulare i principi della oro unione (Filadelfia 1787), ma piuttosto di una Consulta, con poteri autonomi per formulare e proporre ai deputati e senatori un testo che il Parlamento poi approverebbe alle condizioni dell’articolo 138. A parte il nome, l’idea di fondo è comunque valida: formare un organo che al di sopra delle preferenze politiche contrapposte e al di fuori dei tatticismi partitici concepisca, discuta e formuli una nuova architettura delle massime istituzioni repubblicane definite nella parte II. Molto dipenderebbe da come l’assemblea consultiva sarebbe composta. Appunto. La proposta prevede un’elezione “diretta” dal corpo elettorale con sistema proporzionale a liste bloccate e alternanza di genere in 5 grandi circoscrizioni e con seggi ripartiti inoltre in proporzione alla popolazione residente. Se le liste sono bloccate, l’elezione non è diretta (non più di quella dei parlamentari con il sistema elettorale vigente); ma non lo deve essere, trattandosi non di una terza assemblea legisaltiva, ma solo di un organo consultivo del Parlamento. Non sarebbe allora più giusto far eleggere – o nominare, un sinonimo – i membri dell’assemblea consultiva dai parlamentari stessi? Probabile. Ma come? Se deve valere la stessa proporzionalità delle elezioni politiche, allora basterebbe un solo voto, quello della lista proporzionale di circoscrzione delle politiche (il quale potrebbe / dovrebbe essere trasformato – come ho provato ad argomentare comentando l’articolo di Alessandro Morelli e Fiammetta Salmoni http://www.lacostituzione.info/index.php/2022/02/22/tre-ottime-ragioni-per-introdurre-il-voto-di-preferenza/elettorale/#main – in voto individuale o preferenziale unico che varrebbe pure per la lista del candidato scelto e per l’uninominale finto perché senza scelta separata), contato separatamente anche come scelta nella macro-circonscrizione della Convenzione-Consulta. Sarebbe tuttavia preferibile rinunciare del tutto alla finta elezione diretta (su liste bloccate) dei membri della terza assemblea e farli designare proporzionalmente dai gruppi parlamentari, diciamo entro un paio di mesi dalla prima riunione. Non capisco perché servono 150; penso che bastino forse già 60: un numero ristretto, infatti, renderebbe l’assemblea più efficiente e forse pure più autorevole. Un numero di 60 componenti significherebbe che ogni gruppo di 5 deputati o di 9 parlamentari ne nominerebbe uno (o ogni gruppo di 15/27, tre), da scegliere fra cittadini con confermata expertise ed esperienza in materia costituzionale, tipicamente politici di lungo corso e accademici autorevoli, sia persone con convinzioni precise che indirizzeranno i lavori, sia altre più neutre che controlleranno coerenza, completezza, efficienza e viabilità del nuovo progetto. Non bisogna sottovalutare lo stile, le semplicità e l’eleganza del testo, da modello 1947. Le incompatibilità previste nella proposta Baldelli sono irrinunciabili e forse da estendere ad altri incarichi, giustificate anche da un’età minima alta da fissare. Per sottolineare la discontinuità di un nuovo inizio fisserei la sede della Convenzione-Consulta a Milano, per esempio nell Palazzo del Senato in via Senato; anche a 500 km di distanza l’assemblea sarebbe perfettamente in grado di avvalersi delle strutture documentarie e dello staff di consulenza della Camera dei deputati e del Senato. Un’ultima considerazione sul merito della revisione: l’esperienza politica di tre quarti di secolo e varie riforme che hanno omogeneizzato le due Camere e reso il trasformato il bicameralismo da freno razionale a doppione fastidioso dovrebbe portare alla conclusione che il Senato com’è non serve più. Se la “Convenzione” optasse per il monocameralismo, potrebbe ispirarsi a se stessa -come descritta sopra- quale modello per un futuro Senato, non più seconda camera, ma organo con potere molto ampio, anche d’iniziativa, di esprimere pareri, ma solo consultivi, con effetto sospensivo in alcuni casi e a determinate condizioni, con il compito costituzionale e l’obiettvo funzuonale di assicurare la conformità interna ed europea, la coerenza e l’efficienza delle leggi approvate dalla Camera dei deputati. La composizione di un tale Senato-Consulta potrebbe assomigliare molto a quella della falsa Convenzione, tranne il mandato molto lungo e il rinnovo annuale per quote per i futuri senatori non più parlamentari. Potrebbe pure avere sede a Milano nel palazzo seisettentesco che dal 1809 al 1814 ospitava il Senato del Regno d’Italia.