Quando la Costituzione italiana fu approvata erano trascorsi più di due anni dall’istituzione della Organizzazione delle Nazioni Unite e dalla fine della Seconda guerra mondiale.
La barbarie del conflitto si era rivelata tale da far ritenere la pace una soluzione obbligata per il futuro, perché un’altra guerra di simile portata – come provocatoriamente disse Albert Einstein con una battuta divenuta drammaticamente celebre – sarebbe stata tale da ricondurre la civiltà allo stato primitivo.
L’art. 11 della Costituzione italiana (“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”) è stato concepito in questo clima di necessaria fiducia per una condivisa opzione pacifista. Una scelta dettata anche dal senso di colpa di essere «stati, purtroppo, noi a fare uso e abuso dell’elemento guerra nella vita tra i popoli» (così il deputato Mario Assennato nell’adunanza del 17 marzo 1947).
Il ripudio della guerra non può, però, dirsi assoluto.
Fin dalla sua prima stesura, la norma dichiarava l’avversione della Repubblica per la «guerra come strumento di conquista». «Rinunziamo a questi mezzi di conquista, perché riconosciamo che tutti i contrasti, che qualsiasi contrasto, per quanto grave, per quanta aspro, può sempre essere risolto col ragionamento, poiché il ragionamento rappresenta l’arma più poderosa dell’uomo» disse l’onorevole Ugo Damiani nella seduta del 8 marzo 1947. Aggiungendo poi che «Ci può essere il pugno nell’occhio; ma il pugno nell’occhio non fa onore a chi lo dà; e chi lo riceve potrà difendersi: allora è legittima la sua difesa. Però dobbiamo sostenere sempre la negazione dell’atto di violenza, bisogna sentire la ripugnanza più acuta per l’atto di violenza. E questo è il compito della nostra scuola: educare gli uomini alla concordia, facendo nascere e fiorire nel loro animo l’odio per qualsiasi forma di sopraffazione».
Il ripudio della guerra in Costituzione è anzitutto rifiuto di ogni forma di sopraffazione e prevaricazione. Di ogni forma di offesa alla libertà, come sancisce la stesura definitiva della norma. Mario Assennato, deputato del PCI, nella seduta del 17 marzo 1947, precisò a tal proposito che «La rinunzia alla guerra non va intesa in senso pacifista assoluto, cioè nel senso di rinunzia al diritto e al dovere di difesa del territorio, dell’indipendenza, della libertà, della Costituzione, ma come ripudio delle guerre di aggressione, di predominio, di compressione della libertà altrui».
È allora pacifico che tale ripudio non riguardi le guerre difensive, essendo sacro dovere del cittadino la difesa della Patria (art. 52 Cost.) ed essendo contemplata la deliberazione dello stato di guerra da parte del Parlamento (art. 78 Cost.) e la sua successiva dichiarazione formale da parte del Presidente della Repubblica (art. 87, comma 9 Cost.). La guerra non è estranea alla nostra Carta.
Il problema sorge rispetto alla difesa delle Patrie d’altri, posto che la guerra è ripudiata, oltre che come strumento di offesa della libertà, anche come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Per cui si impone di ragionare sul concetto di “controversia internazionale”, che sembrerebbe rimandare anzitutto ad uno scontro fra stati per il dominio sui certi territori e presupporre una disputa, un contrasto rispetto ad una comune ambizione.
Se la “controversia” presuppone una contesa reciproca, le cose si fanno molto più sfumate di fronte ad un’aggressione deliberata (e non provocata) quale è l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Possiamo dire, in questo caso, di essere di fronte ad una “contesa”, se una delle due parti in gioco si contende null’altro che la propria libertà, sul proprio terreno?
Forse no e allora non possiamo nemmeno ritenere che il supporto difensivo ad un’altra Patria aggredita costituisca uno strumento di risoluzione di una “controversia internazionale”: si tratterebbe, invero, di uno strumento di difesa della libertà di un popolo, per usare le parole dell’art. 11 Cost.
Ma anche volendo ritenere che un’aggressione unilaterale possa generare tecnicamente una “controversia”, il supporto all’aggredito non mirerebbe alla risoluzione militare della disputa, bensì – al contrario – a creare le condizioni affinché l’aggredito possa aspirare ad una risoluzione pacifica. Cioè: il supporto all’altrui Patria sotto attacco mirerebbe a creare le condizioni per un ritiro dell’aggressione, affinché la questione possa avere un seguito e una risoluzione pacifici, anziché militari.
Non ammettere la legittimità di un simile supporto difensivo, significherebbe proprio il contrario di ciò che afferma la norma costituzionale. Significherebbe permettere che la guerra, condotta da uno stato più forte verso uno stato più debole, possa dispiegare tutta la sua drammatica potenza fino alla fine.
In un simile caso, si finirebbe per far coincidere la fine dell’aggressione e dello scontro (tecnicamente: la “risoluzione della controversia”, per chi ritiene di essere di fronte ad una simile fattispecie) con la consumazione dell’atto di guerra in tutta la sua capacità annientatrice. La fine della contesa, in un simile caso, coinciderebbe con la fine dell’aggredito.
Non ammettere il supporto bellico alla altrui Patria sotto aggressione – anche oltre il semplice invio di armi – implicherebbe il trionfo della guerra, non il suo ripudio.