La rielezione di Orbán, in Ungheria, arriva a poco più di un mese dal 16 febbraio 2022. In questa data si è celebrata la “vittoria dello Stato di diritto” sulle recalcitranti Polonia e Ungheria, grazie alle due sentenze della Corte di giustizia che hanno rigettato i ricorsi dei governi di questi due Paesi contro il nuovo regolamento sul «regime generale di condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione» (2020/2092).
Il regolamento in questione, su cui il servizio legale del Consiglio aveva avanzato pesanti obiezioni, mira a colpire il portafoglio dei governi amanti della “democrazia illiberale”, minacciando la sospensione dei finanziamenti europei che transitano per il bilancio europeo e per il c.d. Recovery fund qualora vengano accertate violazioni dei principi dello Stato di diritto in uno Stato membro capaci di compromettere il bilancio dell’UE o i suoi interessi finanziari. Per l’economia di Paesi come la Polonia e l’Ungheria si tratta di finanziamenti irrinunciabili, almeno stando all’andamento delle componenti della crescita da quando questi Stati sono entrati nell’UE.
Teoricamente, dunque, la minaccia di perdere i contributi europei all’economia domestica avrebbe dovuto indurre gli elettori ungheresi a più miti consigli.
Così, però, non è accaduto e il partito di Orbán, Fidesz, ha ottenuto amplissimi consensi, che si tradurranno nell’ennesima conquista non solo del governo bensì anche della maggioranza dei due terzi dei seggi in Parlamento, con cui manovrare la leva delle revisioni costituzionali, come avvenuto negli ultimi dieci e passa anni.
È probabile che ciò che più ha fatto breccia nell’elettorato ungherese sia stato il messaggio contro la guerra e la minaccia che un governo europeista avrebbe comportato l’adesione alle sanzioni e l’invio di armi decisi dall’UE, esponendo l’Ungheria alle ritorsioni di Putin.
Ma anche se non vi fosse stata quest’ultima strategia comunicativa dell’autocrate ungherese, viene il dubbio che il discorso europeista in Ungheria possa ben poco contro il partito al potere dal 2010.
A quanto pare, negli ultimi mesi del 2021, il governo ungherese uscente ha distribuito bonus e sussidi a pensionati, giovani, famiglie con bambini, tagliato le bollette dell’energia, calmierato i prezzi dei generi alimentari di base, versando agli elettori 5 miliardi di euro, ossia una spesa pari al 3-4% del Pil.
Negli USA, un’eventuale crisi economica impone ai singoli Stati della federazione programmi di austerity per rispettare il vincolo del pareggio di bilancio iscritto nelle proprie costituzioni nazionali; in questo caso, il livello federale non è visto come il responsabile dei tagli, al contrario. È il livello federale a compensare l’austerity nazionale con più generosi programmi di spesa sociale, nei settori più sensibili come sanità e scuola. Il che, ovviamente, non mina la legittimazione della Federazione, bensì l’aumenta.
Nell’UE avviene, purtroppo, l’esatto contrario, così che i governi populisti hanno avuto buon gioco, in passato, a presentare ai propri elettorati la tecnocrazia di Bruxelles come arcigna fautrice di programmi di austerity volti all’azzeramento di programmi di assistenza e previdenza.
Il NGEU avrebbe dovuto cambiare le cose, posto che per la prima volta l’UE ha compiuto il fatidico passo di indebitarsi per sostenere programmi di investimento secondo una logica redistributiva (favorendo gli stati più bisognosi, ossia più colpiti dalla pandemia). La condizionalità del citato regolamento 2020/2092 che subordina, per la prima volta, al rispetto dello stato di diritto anche l’esborso dei fondi del NGEU avrebbe dovuto, almeno sulla carta, neutralizzare la narrazione populista del passato.
È probabile, allora, che il nuovo meccanismo di condizionalità non sia percepito come minaccioso nell’opinione pubblica ungherese, ammesso che i media di questo Paese ne abbiano dato alcun risalto. Ma anche se i media ungheresi, almeno quelli d’opposizione, avessero fatto il loro dovere e fornito all’elettorato tutti i dettagli necessari per valutare il rischio economico di continuare a ignorare i valori dell’UE all’atto del voto, c’è da dubitare che il nuovo strumento di condizionalità europea possa davvero costituire un incentivo efficace per il ritorno dello Stato di diritto in Ungheria.
Innanzitutto, per ritardare l’esecuzione del regolamento sulla condizionalità si è prevista l’adozione di apposite linee guida della Commissione da redigersi «in stretta consultazione con gli Stati membri», secondo quanto deciso dal Consiglio europeo del 10 e 11 dicembre 2020, alla vigilia dell’entrata in vigore del regolamento stesso e al di fuori della lettera di quest’ultimo (linee guida poi approvate il 2 marzo 2022).
In secondo luogo, non ogni violazione dello Stato di diritto potrà dar luogo alla sospensione dei finanziamenti europei, bensì solo quelle capaci di «compromettere in modo sufficientemente diretto» il bilancio dell’UE (art. 4.1), che per la Corte di giustizia implica che «venga accertato un nesso effettivo tra tali violazioni e» il pregiudizio della sana gestione finanziaria del bilancio.
In terzo luogo, la procedura per accertare la violazione dello Stato di diritto è congegnata in modo assai garantista, nel rigoroso rispetto della proporzionalità delle misure e previo contraddittorio con lo Stato interessato (art. 6 del regolamento).
In quarto luogo, la proposta della Commissione – diversamente da quanto introdotto durante la crisi economica nel “diritto europeo dell’austerity” – non è assistita dal meccanismo del Reverse majority voting, secondo il quale, in assenza di maggioranza qualificata contraria del Consiglio, la proposta può automaticamente divenire efficace: nel nostro caso, il Consiglio è tenuto ad adottare la decisione di esecuzione, potendo modificare la proposta della Commissione a maggioranza qualificata, entro un termine di un mese prorogabile di altri due mesi (art. 6.10).
Infine, sembra che alla stessa Commissione non sarà facile muovere all’attacco, se è vero che per valutare l’eventuale violazione dello Stato di diritto capace di «compromettere in modo sufficientemente diretto» il bilancio dell’UE (art. 4.1) dovranno attivarsi le competenze di almeno quattro Commissari: “Valori e trasparenza”, “Democrazia e demografia”, “Giustizia” e, last but not least, “Bilancio e amministrazione”.
È dunque assai improbabile che, se non altro nel breve periodo, il meccanismo della condizionalità possa spaventare i cittadini ungheresi.
Quello che, tuttavia, potrebbe sorprendere è che già dal settembre 2018 l’Ungheria era stata deferita dal Parlamento europeo dinanzi al “Gran Giurì” responsabile di azionare l’“opzione nucleare” dell’art. 7 del TUE, che consente al Consiglio europeo di “mettere al bando” uno Stato membro, fino alla sospensione dei suoi diritti di voto. Tuttavia, nonostante il governo di Orbán sia ininterrottamente in carica dal 2010 e che fin dall’inizio avesse annunciato urbi et orbi la sua intenzione di instaurare una “democrazia illiberale”, il Consiglio europeo sembra aver insabbiato la procedura. Certo, si dirà che per poter accertare la violazione dei valori dell’Unione che prelude alle massime sanzioni è necessaria l’unanimità del Consiglio (art. 7.2 TUE), per il raggiungimento della quale, stante l’ovvia esclusione dello Stato deferito, è necessario convincere almeno la Polonia (anch’essa soggetta ad analoga procedura di messa al bando già dal 2017). Tuttavia, l’art. 7 TUE prevede anche una decisione preventiva, con cui accertare l’«evidente rischio di violazione grave» dei valori europei, per la quale sono sufficienti i quattro quinti degli Stati membri (art. 7.1 TUE), ossia 22 Stati. Se ne deduce che il problema, nell’UE a 27, non è solo quello di Polonia e Ungheria, bensì anche quello di almeno altri tre governi nazionali non inclini a stigmatizzare il populismo sovranista.
La stessa Presidenza di turno dell’Unione (Francia) ha recentemente affermato di voler procrastinare l’azione contro l’Ungheria, con l’argomento di non voler interferire con le elezioni ungheresi .
La verità è che simili pratiche accusatorie, tese a isolare lo Stato reprobo con procedure tanto dettagliate quanto scarsamente effettive, mal si conciliano con l’esigenza costante di negoziare questioni assai delicate e vitali per la tenuta dell’Unione. Così è stato per ottenere l’assenso di Polonia e Ungheria sul NGEU, nonché quello della stessa Ungheria sull’introduzione di una tassazione minima uniforme sulle multinazionali, posto che su tali questioni i Trattati non tollerano decisioni a maggioranza.
Se c’è una strada – tutta in salita – per dar vita a un’unione autenticamente politica e non solo fatta di interessi economici, questa sembra risiedere nelle cooperazioni rafforzate tra gli Stati membri “volenterosi”, e soprattutto rispettosi dei “valori dell’Unione” (Art. 2 TUE). Ma non bisogna dimenticare che anche per queste cooperazioni è necessario che gli altri Stati membri diano l’assenso all’unanimità…
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