Le vicende e i fatti che hanno segnato questa elezione presidenziale sembrano essersi sviluppati sul precario equilibrio di una dialettica inedita per il nostro ordinamento costituzionale. È forse la prima volta, infatti, che alla logica della concertazione tra i partiti, che sempre ha ispirato trattative, strategie e voti delle forze politiche alla prova dell’elezione del capo dello Stato, si è opposta la forza, stavolta davvero uguale e contraria, di una ben qualificata istanza tecnica, in un certo senso apolitica o forse perfino post-politica. La disponibilità di Mario Draghi ad essere eletto sul colle più alto, espressa più o meno palesemente nella conferenza stampa del 22 dicembre scorso, ha rappresentato un singolare elemento di novità, che non certo ha contribuito alla stabilizzazione del sistema politico, aumentandone, al contrario, volatilità e particolarismo. Ciò in virtù di una nuova materialità costituzionale che l’esecutivo Draghi sembra aver inaugurato e che proprio negli ultimi giorni di gennaio del 2022 sembra aver palesato con forza i suoi effetti.
Mario Draghi è a capo di un governo di unità nazionale e dunque rappresenta il punto di caduta di una maggioranza non propriamente confessionale. Egli svolge, in sostanza, un ruolo di garanzia rispetto a un sottostante accordo politico trasversale, proprio in ragione della sua caratura tecnica e del prestigio personale di cui gode in alcuni ambienti internazionali. In questi mesi di governo, quel ruolo di garanzia non è sembrato però realizzarsi in un’azione di mediazione tra le istanze partitiche, inevitabilmente diverse e contrastanti in una maggioranza così composita, quanto piuttosto in una vera e propria presa in carico fiduciaria delle decisioni politiche, di volta in volta a scontentare l’una o l’altra delle forze politiche coinvolte nell’esecutivo. Più che un tentativo di sintesi, l’avocazione al profilo tecnico delle scelte che contano. Un modello ispirato di certo alle contingenze politiche in cui si trovò a nascere questo governo, con la necessità di far fronte alla pandemia e alla conseguente crisi economica e sociale; forse anche una tendenza assecondata dai partiti, interessati, in chiave elettorale, a non caricarsi la diretta responsabilità delle scelte difficili. Sta di fatto, però, che questo fenomeno ha avviato una evidente torsione materiale dell’istituzione governativa per come descritta a norma di Costituzione, emancipando il governo dalla natura propriamente collegiale che la Carta gli assegna e dotando il Presidente del Consiglio di un potere essenzialmente monocratico, non sempre sintonico con l’indirizzo di maggioranza (pur spesso molteplice), quasi fosse legittimato non da un perdurante rapporto fiduciario, ma da una sola iniziale fiducia in bianco. Già Mortati, in realtà, aveva parlato, con riferimento al modello cui si informa il nostro sistema di governo, di una “collegialità temperata”, attenuata cioè dalla posizione di preminenza del Presidente del Consiglio, ricollegata non già ad un rapporto di gerarchia, ma più propriamente di direzione. In realtà, le circostanze presenti sembrano descrivere paradossalmente l’assunto inverso, con un principio monocratico temperato dagli assetti collegiali che per vincolo costituzionale caratterizzano quella istituzione. Con il non indifferente corollario che il soggetto che oggi occupa la presidenza del Consiglio è svincolato da ogni matrice partitica e più in generale politica.
Ecco, la disponibilità di Draghi ad essere eletto al Quirinale ha nella sostanza proiettato questa forza monocratica nell’agone politico. In ogni gruppo politico potevano contarsi consistenti nuclei di parlamentari (spesso legati alla figura di qualche importante ministro) favorevoli a questa soluzione, anche in attrito con le dirigenze di partito, che invece quasi unanimemente (forse con l’unica eccezione del Partito democratico e di Fratelli d’Italia) avversavano tale possibilità. E sta proprio qui il dato da sottolineare. La possibile elezione di Draghi a Presidente della Repubblica ha trovato nei partiti un solido sbarramento, spiegabile con la volontà di contenere la forza autonoma e svincolata che il Presidente del Consiglio è sembrato acquisire contro i partiti stessi. La stessa disponibilità ad essere eletto non è stata manifestata da Draghi come possibile esito di un accordo politico con le forze parlamentari, ma come un’ulteriore e in questo caso definitiva richiesta di fiducia personale. Inaccettabile, certo, per la politica, spaventata all’idea di subire un ulteriore svuotamento di potere decisionale in ragione questa volta di un’istituzione, la presidenza della Repubblica, la cui pervasiva forza monocratica non solo è già delineata nella forma costituzionale, ma sempre più si sta affermando nella sostanza delle vicende storico-politiche. Alla spinta “tecnica” che voleva Draghi al Quirinale, ben radicata anche nei partiti, si è opposta dunque una spinta contraria di natura propriamente politica che tale soluzione avversava. La seconda prevalente per numeri e forza sulla prima.
Il dato essenziale con cui si sono aperte le trattative e le votazioni per eleggere il tredicesimo capo dello Stato è la generalizzata avversione del collegio presidenziale per una soluzione tecnica (Draghi appunto) per il Colle. La palesa da subito Silvio Berlusconi, che nella stessa dichiarazione con cui ritira la sua candidatura impone la permanenza di Draghi a Palazzo Chigi; fanno lo stesso Matteo Salvini e Giuseppe Conte, che più attivamente si propongono la ricerca di un candidato dal profilo politico o almeno politicamente non ostile; in senso contrario il solo Enrico Letta, con una posizione però non condivisa unanimemente nel suo partito. Lo stallo assume questa fisionomia: da una parte la maggioritaria spinta politica che, pur avendo numeri e consenso, non riesce a convergere su un nome unitario perché composita e frammentata; dall’altra la più contenuta spinta tecnica che, coesa su un nome, è impossibilitata ad affermarlo e comincia dunque a giocare di contrasto, bruciando sistematicamente i nomi proposti dall’altra parte (così per il nome di Elisabetta Belloni, ad esempio). Riprendendo l’immagine evocata da un parlamentare in questi giorni, è un gioco a inclinare il piano e a rimuovere gli ostacoli così che la biglia possa alla fine inesorabilmente cadere, pur contro la volontà generale, sull’ultimo nome a disposizione, quello di Draghi.
La rinnovata elezione di Sergio Mattarella, un politico nel senso più pieno e nobile del termine, nasce in questo contesto. È l’unico nome in grado di ricompattare il fronte politico e prevalere sulla spinta tecnica. L’unica soluzione capace di ribaltare il piano e nella sostanza lasciare un margine di agibilità ai partiti. La mattina del 29 gennaio, dopo l’ennesimo inconcludente vertice tra le forze di maggioranza e il mancato accordo sui nomi di Elisabetta Belloni e Marta Cartabia, è Matteo Salvini a risolvere la partita aprendo, con una dichiarazione alla stampa, ad un secondo mandato per il Presidente in carica. Qualche ora dopo, in un colloquio con il Presidente della Repubblica a margine del giuramento di un nuovo Giudice costituzionale, sarà lo stesso Mario Draghi a intestarsi la richiesta di un rinnovato mandato per Sergio Mattarella.
Ciò che emerge da questa essenziale ricostruzione è l’attestarsi, dunque, di questa dialettica dicotomica tra le varie forze partitiche e una nuova istanza tecnica, saldata alla dimensione istituzionale e capace di partecipare alle vicende e alle logiche della costituzione materiale. Riprendendo nuovamente le categorie speculative di Mortati, essa ha tentato in qualche modo di affermarsi come vera e propria “forza politica dominante”, cioè come soggetto capace in autonomia di realizzare e sostanziare materialmente l’ordinamento costituzionale, come certo mostrato in queste elezioni presidenziali. Pur avendo conquistato uno spazio di manovra non indifferente ed esprimendo una chiara dimensione di potere, essa manca però dei caratteri propri di quella categorizzazione. Ne manca in quanto incapace di esprimersi in un orizzonte costituzionale, cioè di rappresentare e legittimare nella Costituzione (nelle forme della Costituzione) il conflitto sociale e la spinta democratica. Non riesce a dare materialità e quindi sostanza alla dimensione quantistica della Carta. Resta mera espressione di potere. Di questa spinta se ne deve allora contenere lo sconfinamento o comunque quegli effetti che possano alterare l’equilibrio proprio della materialità costituzionale, che deve sorreggere e non deformare l’impianto istituzionale stabilito dalla Carta. Sergio Mattarella sembra averne piena consapevolezza, proprio quando ci richiama, nel suo secondo discorso di insediamento, a quel «bisogno di costante inveramento della democrazia» e alla centralità della politica «come modalità civile per esprimere le proprie idee e, insieme, la propria appartenenza alla Repubblica». Dopo una settimana travagliata, quell’istanza politica avrà ancora a lungo un saldo e convinto difensore sul Colle più alto.
* Dottorando di ricerca in Teoria dello Stato ed Istituzioni politiche comparate - Università La Sapienza di Roma