Come si sa, un’ipotesi da tempo circolante e che, peraltro, gode di largo credito (più – direi – tra la gente comune che tra gli operatori politici, timorosi delle conseguenze che potrebbero aversene nel Governo e, soprattutto, per la durata della legislatura) è che il successore di Mattarella, stante la (ad oggi…) irremovibile indisponibilità di quest’ultimo alla sua eventuale rielezione, possa essere l’attuale Presidente del Consiglio, Mario Draghi: persona di levatura internazionale, indubbie capacità, qualità morali indiscusse.
Non è, dunque, dell’uomo che intendo qui discutere, anche per non far deviare la succinta riflessione che mi accingo a svolgere dall’alveo costituzionale, al quale soltanto essa vuol riferirsi.
Ebbene, si danno due ragioni, una di forma e l’altra di sostanza, che, a mia opinione, ostano all’immediato passaggio di Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale.
Richiamo rapidamente la prima che ho già avuto modo di rappresentare in un mio intervento ad un forum su La coda del Capo: Presidente della Repubblica e questioni di fine mandato, ospitato da Nomos, ed è che verrebbe a determinarsi un cortocircuito logicamente irrisolvibile, avvalorandosi pertanto la soluzione, implicitamente fatta propria dall’art. 1 della legge n. 400 del 1988, che osta ad un passaggio siffatto.
Com’è noto, infatti, il decreto di dimissioni del Presidente del Consiglio è controfirmato non già da quest’ultimo (come sarebbe stato nell’ordine delle cose, rispecchiandosi in esso la sua volontà) ma dal Presidente del Consiglio entrante, vale a dire da colui che è chiamato a prendere le redini del nuovo Governo insediatosi una volta superata la crisi generata dall’uscita di scena del Governo dimissionario. È chiaro che il Presidente dimissionario potrebbe essere chiamato a succedere a… se stesso ma si tratterebbe – com’è pacifico – di un Governo comunque nuovo rispetto al precedente.
Ebbene, la gestione della crisi – è parimenti noto – è demandata al Capo dello Stato, vale a dire, per l’ipotesi ora presa in considerazione, allo stesso Draghi una volta insediatosi al Quirinale. Il punto è, però, che quest’ultimo non può immettersi nelle funzioni di Presidente della Repubblica se non dopo che avrà lasciato l’ufficio di Presidente del Consiglio. Si badi: non è sufficiente che sia impedito (per es., per causa di malattia) o assente (perché impegnato all’estero), dal momento che in siffatte congiunture, verificandosi le quali è sostituito dal Vicepresidente del Consiglio (laddove vi sia) o da un Ministro, non cessa dalla carica sua propria. Nel caso nostro, però, non può aversi un Presidente della Repubblica che sia allo stesso tempo anche titolare di un altro ufficio, men che mai di quello di massimo esponente di uno degli organi della direzione politica, se non altro per il vulnus irreparabile che ne patirebbe il principio della separazione dei poteri.
Ora, Draghi non può diventare Presidente della Repubblica fintantoché è Presidente del Consiglio; di conseguenza, non può firmare nella nuova veste né il decreto di accettazione delle dimissioni del Presidente del Consiglio in carica né il decreto di nomina del nuovo Presidente del Consiglio (e, a seguire, dei Ministri). Né soccorre la soluzione secondo cui i decreti in parola potrebbero essere firmati da Mattarella, dal momento che essa comporterebbe un ritardo per un tempo imprevedibile (e, dunque, anche potenzialmente lungo) nella prestazione del giuramento da parte del neoeletto Capo dello Stato quale condizione della sua immissione nella carica. Resta, infatti, obiettivo primario che la crisi di governo conseguente alla elezione del nuovo Presidente della Repubblica si chiuda con la nomina del suo successore nel più breve tempo possibile, senza peraltro contare la stranezza costituita dal fatto che a gestire la crisi stessa sia non già il nuovo Presidente ma il vecchio.
Un rebus irrisolvibile, come si vede, che dimostra come la legge in parola abbia inteso escludere il passaggio qui ventilato. Altro discorso, già in altre occasioni fatto e che potrebbe riproporsi in prospettiva de iure condendo, è che sia opportuno che alcuni decreti siano sgravati dell’onere della controfirma, senza peraltro che l’ordine costituzionale venga a trovarsi esposto a rischi particolarmente gravi, stante la sussistenza di rimedi a garanzia della legalità costituzionale minacciata da eventuali usi distorti degli strumenti di cui il Capo dello Stato dispone (da quello soft del conflitto di attribuzione all’altro hard della messa in stato di accusa per attentato alla Costituzione).
Senza, nondimeno, ora indugiare a ragionare su scenari realisticamente non prospettabili, sta di fatto che l’obiezione di ordine formale qui affacciata tornerebbe a ripresentarsi anche per l’ipotesi, astrattamente meritevole di considerazione e peraltro – com’è noto – da molti caldeggiata, di una soluzione-tampone, quale si avrebbe per effetto di un Mattarella-bis, magari – sulla falsariga dell’esperienza già avutasi con Napolitano – solo per il tempo mancante prima della fisiologica chiusura della legislatura.
Si dà, poi, una ragione di sostanza (che, per vero, nel caso da ultimo accennato potrebbe non aversi); ed è che il Presidente della Repubblica sarebbe immediatamente chiamato a valutare, nella sua veste di garante della Costituzione, gli atti varati dal Governo per dar seguito al PNRR e far fronte alla straordinaria emergenza sanitaria in corso, vale a dire quegli atti per la cui formazione un ruolo di centrale rilievo è stato esercitato dallo stesso Draghi quale Presidente del Consiglio.
Sia chiaro. Non ho alcun dubbio a riguardo del fatto che anche il nuovo Capo dello Stato, al pari di chi lo ha preceduto, saprebbe incarnare nel migliore dei modi il munus cui è chiamato. E, tuttavia, nella peculiare contingenza nella quale il Paese oggi versa un qualche problema (di sostanza, appunto) il passaggio immediato dall’una all’altra sede istituzionale lo pone.
Non è di qui discorrere di soluzioni alternative a quella ora ragionata, con riferimento alle quali mi limito solo a schierarmi senza esitazione alcuna dalla parte di coloro che, a buon titolo, escludono categoricamente l’ipotesi che un leader di partito possa transitare al Quirinale (ipotesi, peraltro, come si sa, nella circostanza odierna dapprima ventilata e poi però – a quanto pare – messa giustamente da canto): sarebbe, infatti, per tabulas divisivo, non già – come invece dev’essere – punto di aggregazione per le forze politiche di opposti schieramenti che in esso effettivamente si riconoscano e riconoscano colui che è chiamato a rappresentare l’unità nazionale. E forse mai, come nella congiuntura odierna, si è avvertito (e si avverte) il bisogno che tutte le forze politiche diano un segno forte, percepibile soprattutto fuori dei confini nazionali, di una ritrovata concordia sul nome di colui che, in una stagione particolarmente sofferta per la Repubblica, sarà chiamato – speriamo quanto prima – ad insediarsi al Quirinale.
Mi permetto un’obiezione riguardo le riserve di ordine formale sopra avanzate. Sintetizzando il ragionamento sviluppato nell’articolo, si afferma che un PdC non possa diventare PdR in quanto osta a ciò, in particolare, quanto previsto dall’articolo 1 della legge 400/1988. Ma, a mio parere, è di tutta evidenza che la materia della compatibilità o eleggibilità del Presidente della Repubblica sia di stretta competenza di fonti di rango costituzionale: laddove i Costituenti avessero voluto escludere (per una qualsivoglia ragione) l’eleggibilità di un Presidente del Consiglio in carica a Capo dello Stato, l’avrebbero esplicitamente inserito in Costituzione. Una legge ordinaria certo non può prevedere limiti all’eleggibilità o meno alla carica non previsti (e l’artico 84 statuisce esclusivamente limiti minimi di età e il godimento dei diritti civili e politici). Quindi delle due l’una: o, in fase interpretativa si supera lo scoglio posto dalle questioni sollevate in merito all’applicazione della legge 400/88, oppure, giocoforza, quest’ultima è costituzionalmente illegittima. (Io propenderei per la prima soluzione)