Con la convocazione del Parlamento in seduta comune, integrato dai delegati regionali, disposta dal Presidente della Camera Roberto Fico e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 4 gennaio scorso, si è ufficialmente avviato il procedimento per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, sempre ricco di spunti e di aspetti degni di approfondimento. Non è segnatamente un mistero che, per la prima volta nel corso dell’intera esperienza repubblicana, quest’anno potrebbe realizzarsi l’ipotesi nella quale il Presidente del Consiglio in carica venga eletto Presidente della Repubblica, il che – al di là della concreta possibilità che ciò avvenga – pone una serie di delicati problemi di ordine costituzionale.
Va premesso che, di principio, non vi sono preclusioni verso l’elezione al Colle del Presidente del Consiglio dei ministri. Chiunque abbia i requisiti previsti dal primo comma dell’art. 84 della Costituzione – la cittadinanza italiana, il godimento dei diritti civili e politici e i 50 anni di età – può essere eletto e, del resto, tra le varie personalità che hanno rivestito la carica presidenziale vi sono stati diversi ex Presidenti del Consiglio, sebbene nessuno di loro sia transitato direttamente da Palazzo Chigi al Quirinale. Non esiste nessun motivo di ordine costituzionale, quindi, che possa impedire o considerare contra constitutionem siffatto scenario, né si potrebbe partire dall’assunto per cui, essendo la carica di Capo del Governo per sua natura politicizzata e molto spesso affidata a leader di partito o comunque a soggetti dotati di una forte connotazione politica, chi la ricopre sarebbe scarsamente idoneo a rivestire un ufficio che, per contro, dovrebbe caratterizzarsi per un ruolo arbitrale e di garanzia. Assunto che, del resto, sarebbe poco aderente alla situazione odierna, data l’estraneità dell’attuale Presidente del Consiglio alla dinamica partitica e caratterizzandosi egli per una dimensione prettamente tecnica.
Il problema principale che scaturirebbe da uno scenario del genere è dovuto invece al fatto che, salendo al Quirinale, il Presidente del Consiglio non potrebbe che rassegnare le dimissioni dalla carica governativa: l’art. 84, secondo comma, della Costituzione prevede espressamente l’incompatibilità dell’ufficio di Presidente della Repubblica con qualsiasi altra carica e le ragioni di tale previsione costituzionale sono fin troppo evidenti, a fortiori per quanto concerne le cariche parlamentari e governative. Ora, le dimissioni del Presidente del Consiglio dei ministri investono – com’è noto – l’intero Governo, il quale pur essendo un organo complesso – composto dal Presidente del Consiglio, dai ministri e dal Consiglio dei ministri – è basato sulla preminenza del suo vertice, al quale spettano funzioni istituzionali peculiari richiamate dall’art. 95, prima comma, Cost. Com’è stato puntualmente evidenziato in dottrina, una delle cause di cessazione del Governo, diverse dall’approvazione di una mozione di sfiducia o da altra votazione fiduciaria che determini la cessazione del rapporto fiduciario, è legata alla sfera personale del Presidente del Consiglio, discendendo in particolare dalla sua morte, nonché dalla cessazione o dalla sospensione dalla carica per motivi inerenti alla propria persona, ipotesi nelle quali non è pensabile che il Capo del Governo possa essere sostituito lasciando intatta la compagine ministeriale, come invece poteva accadere nel previgente ordinamento statutario (T. MARTINES, Diritto costituzionale, 1997, p. 499 s.).
Quali che siano le ragioni che inducano il Presidente del Consiglio a rassegnare le dimissioni, in virtù della preminenza che riveste l’organo monocratico, esse investono dunque l’intero Governo, che viene ipso facto considerato dimissionario. Ciò comporta l’inapplicabilità dell’istituto del rimpasto, attraverso il quale un ministro dimissionario viene sostituito con un altro, nonché del correlato istituto dell’interim, per il quale le funzioni di un dato ministro sono temporaneamente – come suggerisce lo stesso nomen iuris – assunte da un altro ministro o dallo stesso Presidente del Consiglio.
Orbene, è altrettanto noto che, all’atto delle dimissioni rassegnate dal Presidente del Consiglio, la compagine ministeriale non cessa immediatamente dall’esercizio delle funzioni, in quanto il principio di continuità degli organi costituzionali esige che non vi siano cesure nella funzione esecutiva e nelle altre attribuzioni costituzionali assegnate al Governo stesso. Ed è questa la ragione per la quale, in via di prassi, il Presidente della Repubblica non accetta mai immediatamente le dimissioni del Presidente del Consiglio – le quali, del resto, andrebbero formalizzate con un decreto di accettazione delle medesime – ma si riserva di farlo in un secondo momento, invitando il Presidente del Consiglio dimissionario a restare in carica per il “disbrigo degli affari correnti”. Questo per tutto il tempo necessario alla soluzione della crisi, che in molti casi non è quantificabile con esattezza e che in alcuni può durare diverse settimane se non – si pensi all’ipotesi di crisi irrisolvibile e di conseguenti elezioni anticipate – addirittura mesi.
Nell’ipotesi di ascesa del Presidente del Consiglio al Quirinale e di crisi conseguente alle dimissioni dell’interessato per incompatibilità, si pone dunque il problema dell’esercizio delle funzioni di Capo del Governo per tutta la durata della crisi, posto che quest’ultimo non può esercitarle neppure in regime di prorogatio. A tal proposito, va evidenziato che la Costituzione non prevede espressamente la “supplenza” del Presidente del Consiglio dei ministri che non possa, temporaneamente o permanentemente, esercitare le sue funzioni. A tale lacuna, rimedia solo parzialmente la fonte primaria, la quale – per mano dell’art. 8 della legge 23 agosto 1988, n. 400 – dispone che, in caso di assenza o impedimento temporaneo del Presidente del Consiglio dei ministri, le relative funzioni siano esercitate dal Vicepresidente del Consiglio, qualora nominato, oppure dal Ministro più anziano per età. Le uniche fattispecie disciplinate dalla disposizione richiamata sono dunque relative all’impedimento temporaneo, cioè alla temporanea “assenza” della persona fisica chiamata a rivestire la carica istituzionale, mentre nulla di dice per l’ipotesi decisamente più impattante e problematica della “vacanza”, la quale – come detto – può verificarsi anche nell’ipotesi – del tutto irrimediabile – della morte del Presidente del Consiglio in carica. In assenza di disposizioni espresse, si può comunque ritenere applicabile la norma appena menzionata che prevede la “supplenza” di un ministro, sebbene la “vacanza” – come si è già anticipato – sia cosa ben diversa dalla mera “assenza”, che presuppone per sua natura la sede plena.
Del resto, anche l’art. 86 della Costituzione, in tema di esercizio delle funzioni del Presidente della Repubblica, non distingue espressamente le due distinte ipotesi di “vacanza” e “assenza”, prevedendo solamente che le funzioni del Capo dello Stato, in ogni caso che egli non possa adempierle, siano esercitate dal Presidente del Senato. In sede dottrinale, a tal proposito, è stato evidenziato che l’istituto della supplenza, previsto nel primo comma del richiamato art. 86, si deve applicare non soltanto alle ipotesi di “impedimento temporaneo”, cioè di temporanea “assenza” del titolare della carica, ma anche nelle ipotesi di “vacanza”, disciplinate dal successivo secondo comma (A.M. DE CESARIS BALDASSARRE, La supplenza del Presidente della Repubblica, 1990, p. 53 ss.). Ciò si evince, in particolare, dal fatto che il supplente subentra al titolare della carica nell’esercizio delle funzioni «in ogni caso che egli non possa adempierle», quindi non soltanto nei casi di mera assenza ma anche in ogni situazione nella quale la carica rimanga priva del suo titolare.
In ordine al procedimento volto alla preposizione del nuovo Presidente della Repubblica, va evidenziato che la Costituzione, molto opportunamente, prevede che le relative operazioni elettorali avvengano alcune settimane prima della cessazione del mandato del Presidente uscente. Ai sensi del secondo comma dell’articolo 85, infatti, il Presidente della Camera convoca il Parlamento in seduta comune, integrato dai delegati regionali, trenta giorni prima che scada il settennato, con l’evidente obiettivo di creare i presupposti per una successione ordinata tra l’uscente e l’entrante. Nella prassi, il nuovo Presidente della Repubblica è sempre stato eletto prima della scadenza del settennato dell’uscente: in alcuni casi, il Presidente eletto ha quindi prestato il giuramento, propedeutico all’assunzione delle funzioni, una volta cessato il mandato del predecessore (precisamente, Gronchi nel 1955, Segni nel 1962 e Leone nel 1971), in altri invece il Presidente uscente ha rassegnato le dimissioni anzitempo, al fine di favorire la tempestiva entrata in carica del nuovo eletto, nonostante vi fossero ancora alcuni giorni o alcune settimane di mandato (Pertini nel 1978, Scalfaro nel 1999 e Ciampi nel 2006). Non si è mai verificata, per contro, l’ipotesi di sforamento oltre la durata del settennato, nella quale cioè il collegio elettivo abbia eletto il nuovo Presidente oltre il termine di scadenza del mandato del suo predecessore: nel 1971, nonostante Giovanni Leone sia stato eletto addirittura al ventitreesimo scrutinio, il 24 dicembre, mancavano ancora alcuni giorni alla scadenza del settennato di Saragat, prevista per il 29 dicembre successivo. Come si vedrà a breve, questi brevi richiami alla prassi, apparentemente di scarso rilievo, sono invece dirimenti nell’ipotesi in oggetto di elezione al Colle del Presidente del Consiglio dei ministri in carica.
Nel caso di elezione al Quirinale del Presidente del Consiglio Mario Draghi, in particolare, qualora ciò avvenisse nelle primissime votazioni e quindi diversi giorni prima della scadenza del settennato, fissata per il 3 febbraio 2022, un primo scenario potrebbe caratterizzarsi per le immediate dimissioni dello stesso Draghi, il quale resterebbe in carica per il disbrigo degli affari correnti lasciando all’attuale Presidente Mattarella – il quale dovrebbe pertanto esercitare le sue funzioni sino all’ultimissimo giorno del suo mandato – il compito di procedere alla nomina di un nuovo Governo. Questo scenario potrebbe essere addirittura il più lineare, poiché da un lato avrebbe il pregio di non lasciare il Governo privo di guida e dall’altro affiderebbe il potere di nomina del nuovo Governo ad un Presidente che non ha nessun legame diretto con l’esecutivo dimissionario.
Tuttavia, lo scenario descritto necessita di una serie di precondizioni: la prima è che l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica avvenga subito, nei primi scrutini, o comunque non a ridosso della scadenza del settennato del Presidente uscente, poiché in quest’ultimo caso non ci sarebbero i tempi tecnici per lo svolgimento delle consultazioni, il conferimento dell’incarico, l’accettazione del medesimo e la nomina del Presidente del Consiglio e dei ministri. La convocazione del Parlamento in seduta comune, integrato dai delegati regionali, disposta dal Presidente Fico per il 24 gennaio prossimo, tuttavia, non va nella medesima direzione, in quanto anche in caso di elezione nei primi scrutini si arriverebbe troppo a ridosso del 3 febbraio. A quanto detto, si aggiunga che le modalità di elezione potrebbero andare un po’ più a rilento del solito anche in ragione delle particolari accortezze che dovranno essere seguite in considerazione dell’emergenza epidemiologica, tanto più in una fase caratterizzata da un notevole incremento dei contagi che mette a rischio la partecipazione al voto – nonostante le recentissime disposizioni introdotte in ordine alle modalità di espressione del suffragio – di numerosi membri del collegio. La seconda precondizione è quella di un accordo rapido: far gestire la crisi al Presidente della Repubblica uscente presuppone un accordo pressoché immediato tra le forze politiche, che consenta di espletare tutte le fasi del procedimento di formazione del Governo in un arco di tempo molto ristretto, di pochissimi giorni.
Del resto, non è neppure auspicabile che il Presidente della Repubblica in pectore – già eletto ma non ancora in carica – resti alla guida del Governo per un tempo più lungo. Per quanto dimissionario, il Governo stesso potrebbe essere indotto ad assumere dei provvedimenti urgenti – si pensi all’ipotesi di un decreto-legge recante misure di contenimento dell’emergenza pandemica – i quali potrebbero essere deliberati dapprima dal Consiglio dei ministri e poi emanati alcuni giorni dopo dallo stesso Draghi nella veste – a quel punto – di Presidente della Repubblica, con una evidente confusione di cariche.
Qualora, invece, l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica non avvenisse nei primi scrutini, nonché nel caso in cui la formazione del nuovo Governo richiedesse tempi più lunghi, la gestione della crisi dovrebbe essere necessariamente affidata al nuovo Capo dello Stato. Sarebbe dunque Draghi a svolgere le consultazioni per la nomina del nuovo Presidente del Consiglio, con l’inevitabile conseguenza per cui alla guida del Governo dimissionario dovrebbe subentrare un supplente. Come anticipato, ai sensi dell’art. 8 della legge 23 agosto 1988, n. 400, in caso di vacanza del Presidente del Consiglio dei ministri – il quale, prima di pronunciare il giuramento previsto dall’art. 91 della Costituzione, dovrebbe rassegnare le sue irrevocabili dimissioni – le sue funzioni sarebbero assunte dal Vicepresidente del Consiglio, qualora nominato, oppure dal Ministro più anziano per età. Per Draghi, quindi, si prospetterebbe la duplice soluzione di nominare un Vicepresidente, al quale affidare la guida del Governo sino alla nomina del nuovo esecutivo, oppure di non procedere a tale nomina, con la conseguenza per cui le funzioni di Presidente del Consiglio supplente sarebbero svolte dal Ministro Brunetta, attualmente il decano per età anagrafica.
Lo scenario appena descritto, del resto, potrebbe disvelarsi anche nell’ipotesi di elezione nei primissimi scrutini, qualora Mattarella decidesse di seguire la prassi delle ultime presidenze, per la quale il Presidente uscente si dimette subito dopo l’elezione del successore, senza attendere dunque la conclusione del settennato e permettendo così al nuovo Presidente di entrare immediatamente nell’esercizio delle funzioni. Detta prassi, come anticipato, è stata inaugurata nel 1978 da Pertini, il quale rassegnò le dimissioni il 29 giugno del 1985, una decina di giorni prima della cessazione del suo mandato (9 luglio) e pochi giorni dopo l’elezione di Cossiga, e fu poi mantenuta sia da Scalfaro sia da Ciampi.
La principale controindicazione della soluzione prospettata, tuttavia, discende proprio dal fatto che per tutta la durata della crisi resterebbe in carica un Governo dimissionario guidato da un Presidente del Consiglio “supplente”. Il che, se non determina conseguenze particolari in presenza di una crisi di breve o brevissima durata, pone problemi decisamente maggiori qualora la crisi perdurasse per un tempo più lungo, soprattutto qualora il Governo fosse costretto ad adottare decisioni di notevole impatto politico oppure dovesse approvare atti normativi di rango primario, come un decreto-legge. E si consideri inoltre che, nel caso in cui la crisi si rivelasse irrisolvibile, con il nuovo Presidente della Repubblica costretto a sciogliere le Camere, il Governo del “supplente” resterebbe in carica per diversi mesi, sarebbe chiamato a gestire le elezioni e, considerata anche la fase storico-politica, sarebbe sicuramente chiamato ad assumere decisioni di un certo rilievo, in ragione dell’emergenza pandemica tuttora in corso e delle conseguenti ripercussioni economiche che da essa sono scaturite.
Un ultimo tema di grande interesse, sebbene non direttamente legato all’ipotesi di elezione al Quirinale del Presidente del Consiglio in carica, è quello che attiene all’esercizio delle funzioni presidenziali nel caso in cui il settennato dovesse scadere prima che il Parlamento in seduta comune, integrato dai delegati regionali, abbia eletto il nuovo Presidente, caso che, pur non essendosi mai verificato nella prassi, non rappresenta certamente un’ipotesi di scuola. Del resto, già in occasione delle elezioni presidenziali del 1971 si paventò il rischio di non avere il nuovo Capo dello Stato in tempo utile: di fronte ad una simile prospettiva, il Presidente uscente Saragat decise di investire della questione le altre maggiori cariche dello Stato e cioè il Presidente del Consiglio Colombo, i Presidenti dei due rami del Parlamento, rispettivamente Pertini e Fanfani, e il Presidente della Corte costituzionale Giuseppe Chiarelli (A.M. DE CESARIS BALDASSARRE, La supplenza del Presidente della Repubblica, 1990, p. 104 s.).
Occorre osservare, in via preliminare, che il principio della continuità del funzionamento degli organi costituzionali, per quanto concerne il Capo dello Stato, si dispiega attraverso due diversi istituti: la supplenza e la prorogatio. La supplenza, come accennato, è prevista dal primo comma dell’art. 86 non soltanto per i casi di “assenza”, ma anche per quelli di “vacanza”: in particolare, morte ed impedimento permanente. Non è invece così evidente, da una lettura del testo costituzionale, quale sia la disciplina per i casi nei quali il Presidente non sia materialmente impossibilitato ad esercitare le sue funzioni. Uno per tutti: le dimissioni. A norma dell’art. 86, comma secondo, nel caso di dimissioni dalla massima carica il Presidente della Camera dei deputati è chiamato ad indire nuove elezioni entro quindici giorni, salvo il maggior termine previsto se le Camere sono sciolte o manca meno di tre mesi alla loro cessazione. Non si prevede espressamente la supplenza, sebbene nella prassi alle dimissioni del Presidente sia sempre seguita la supplenza del Presidente del Senato, prassi che potrebbe farsi discendere – ad ogni modo – dalla considerazione per cui le dimissioni del Presidente della Repubblica non sono formalizzate in un decreto controfirmato, né esse necessitano di accettazione. Esse sono contenute in un atto personale del Presidente, come tale considerato dalla dottrina quale atto unilaterale non ricettizio, che reca effetti immediati e che pertanto non si presterebbe alla permanenza in carica in regime di prorogatio alla stregua delle dimissioni rilasciate dal Presidente del Consiglio per il Governo.
La proroga dei poteri del Presidente della Repubblica è invece espressamente prevista ai sensi dell’art. 85, terzo comma, della Costituzione quando al momento della cessazione del mandato presidenziale le Camere sono sciolte o manca meno di tre mesi alla loro cessazione. In tale circostanza, la Costituzione demanda alle nuove Camere l’elezione del nuovo Presidente entro 15 giorni dalla prima riunione e dispone al contempo la proroga dei poteri dell’uscente.
Ci si deve chiedere, a questo punto, cosa accada nell’ipotesi in cui il Parlamento in seduta comune tardi nell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Come si è visto, a norma dell’art. 85, primo comma, il Presidente della Camera dei deputati è tenuto a convocare il Parlamento in seduta comune con i delegati regionali con un congruo anticipo rispetto alla scadenza del settennato, ma ciò non assicura un rinnovo tempestivo della carica, tanto più in questo frangente nel quale la prima votazione, indetta per il 24 gennaio, è stata convocata solo dieci giorni prima della cessazione del mandato di Mattarella. Secondo una prima chiave di lettura, qualora il 3 febbraio non vi fosse ancora il nuovo Presidente della Repubblica sarebbe necessario dare luogo alla supplenza del Presidente del Senato, alla quale si ricorre “in ogni caso” in cui il Presidente non possa adempiere alle sue funzioni (C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, I, 1991, p. 547; VIRGA). Sembra tuttavia preferibile la tesi contrapposta, secondo cui Mattarella dovrebbe restare al Quirinale sino al giuramento del successore in regime di prorogatio (A. BOZZI, Sulla supplenza del Presidente della Repubblica, in Rassegna parlamentare, 1959, p. 51; G. BALLADORE PALLIERI, Diritto costituzionale, 1965, p. 183; G. LUCATELLO, Come evitare la vacatio della Presidenza della Repubblica in caso di mancata elezione pre-scadenza, in Studi in memoria di Enrico Guicciardi, 1975, p. 375; C. LAVAGNA, Istituzioni di diritto pubblico, 1982, p. 696). Sono diverse le ragioni che militano in favore di questa chiave interpretativa: anzitutto, nel caso considerato il Presidente non è oggettivamente impossibilitato ad esercitare le sue funzioni, cosa che avviene nelle ipotesi di assenza o di vacanza per morte o impedimento permanente; in secondo luogo, la fattispecie non è assimilabile a quella delle dimissioni, nella quale il Presidente cessa immediatamente dall’esercizio delle funzioni in conseguenza di un atto unilaterale non recettizio; infine, si tratterebbe di una ipotesi analoga a quella di cui al terzo comma dell’art. 85, per la quale la Costituzione prevede espressamente la proroga dei poteri.
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