Lunedì 22 novembre, la ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti, presenta la mozione contro la violenza sulle donne, a distanza di tre giorni dalla Giornata internazionale dedicata a tale fenomeno.
Le sue dichiarazioni (“questo Parlamento è trasversalmente e profondamente impegnato nel promuovere azioni strategiche per ripudiare qualsiasi forma di violenza contro le donne”) sono rimaste sospese nell’aria.
La Camera dei Deputati è vuota: di 630 deputati potenziali, ne sono presenti solo otto. Sebbene le telecamere di Montecitorio abbiano tentato di non mostrare una veduta ampia della Camera, la scena è stata “catturata” dai media e prontamente giudicata. Al fine di evitare le solite polemiche, vi è chi ha giustificato l’episodio, ricordando che il ruolo del parlamentare non è solo quello di comparire in Aula, ma anche quello di occuparsi di una serie di sostanziali attività legate al territorio (es. incontri con le associazioni, i prefetti, i Sindaci). Il lunedì è proprio il giorno preposto a tale tipo di attività: in Aula sono compiute attività che non prevedono voti, e di conseguenza, non impegnano i parlamentari e le parlamentari.
Quel che dovrebbe destare preoccupazione – a parere di chi scrive – non è tanto la triste immagine di una donna attorniata da silenzio, abbandono, e indifferenza, quanto invece la carente attenzione riservata al fenomeno, sempre più dilagante. È la stessa ministra per le Pari Opportunità a riportare l’agghiacciante numero di femminicidi avvenuti da inizio anno in Italia (108), sottolineando come le donne “devono essere libere di poter denunciare e sapere che c’è uno Stato che accoglie le loro richieste d’aiuto e le protegge”. A tale proposito, la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica evidenzia come l’analisi del problema debba prendere le mosse dalla lettura della condizione femminile in Italia. Attualmente, le donne continuano ad essere sottorappresentate nell’ambito dell’impiego pubblico e privato, sul piano nazionale, statale e locale.
La violenza sulle donne – e i reati perpetrati dagli autori della violenza – violano il principio di eguaglianza “di genere”, quale diritto fondamentale della persona. Sotto tale profilo, la Convenzione sopraindicata riconosce che “il raggiungimento dell’uguaglianza di genere de jure e de facto è un elemento chiave per prevenire la violenza contro le donne”; quest’ultima “è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi”, che induce alla dominazione e alla discriminazione nei loro riguardi da parte degli uomini. In una società progredita, come quella italiana, si è soliti ritenere che tali forme di violenza appartengano ormai al passato, quasi a sottovalutarle, ricollegandole così alla sfera di devianza di singoli individui o alla natura patologica del rapporto all’interno del quale la violenza ha avuto luogo. Occorre precisare che la necessità di assicurare alle donne una tutela effettiva dei diritti fondamentali è da tempo oggetto di attenzione del diritto internazionale. La Convenzione di Istanbul è preceduta dalla Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW), quale prima risposta specifica al delicato problema della discriminazione delle donne. L’affermazione dei diritti fondamentali con particolare riferimento alla condizione delle donne è stata ripresa anche a livello regionale. In tale quadro, si collocano la Convenzione interamericana sulla prevenzione, punizione e sradicamento della violenza nei confronti delle donne (1994) e il Protocollo alla Carta Africana dei diritti umani e dei popoli sui diritti delle donne in Africa (2003). A differenza di tali strumenti, la Convenzione di Istanbul del 2011 definisce un modello integrato di lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica che impone agli Stati membri l’attuazione di riforme giuridiche e di misure politiche miranti alla promozione di mutamenti profondi nella mentalità e nei costumi degli uomini e delle stesse donne. Con riguardo all’intervento giudiziario, si marca la necessità di garantire che i reati previsti in conformità alle convenzioni e alle leggi interne siano puniti con “sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive, che tengano conto della loro gravità”. In aggiunta, è ammessa l’adozione di circostanze aggravanti nel momento in cui il reato sia attuato contro l’attuale o l’ex coniuge (o partner), da un componente familiare, dal convivente della vittima, o da un individuo abusante della propria autorità.
È risaputo che, in Italia, le previsioni normative prevedono in “astratto” una protezione sufficiente per la violenza contro le donne. Il problema effettivo consiste – a giudizio di chi scrive – nell’approccio al fenomeno della violenza di genere, affrontato in termini di sicurezza pubblica. Si rileva la difficoltà di trattare la questione come esigenza di tutela dei diritti fondamentali delle donne, a parte la mancanza di interventi organici in grado di garantire una risposta lineare alla violenza intrafamiliare. Una conferma è data dal D.L. n. 93/2013, convertito in L. n. 119/2013, orientato a promuovere la finalità di ridurre l’allarme sociale legato alla commissione di gravi reati “in danno di soggetti deboli”, piuttosto che la tutela del diritto fondamentale della donna all’integrità psicofisica. Con la recente legge n. 69/2019 (c.d. Codice rosso), il legislatore nazionale è intervenuto per rafforzare le tutele delle persone vittime di violenza domestica e di genere, operando delle modifiche ingenti sotto il profilo sostanziale e processuale. Da un lato, si instaura un “doppio binario processuale”, che investe un ventaglio di fattispecie “segnalanti” relazioni interpersonali a rischio (es. maltrattamenti contro familiari e conviventi) sostanziandosi nella rapida comunicazione (anche orale) della notizia di reato al PM; dall’altro, si amplia il novero delle fattispecie con l’intento di colmare alcune lacune dell’ordinamento penale. La legge sul “codice rosso”, altresì, pone in luce il ruolo della vittima nel procedimento, specialmente rafforzando il suo diritto all’informazione ed intervenendo anche sotto il profilo cautelare. Sulla scia degli art. 4 e 6 della Direttiva Europea n. 29/2012, che imponeva agli Stati di assicurare il diritto all’informazione e il diritto di accedere ai servizi di assistenza, la legge n. 69/2019 incrementa le informazioni fornite alla persona offesa (art. 90 c.p.p.) che devono comprendere, oltre le strutture sanitarie ormai radicate sul territorio (es. centri antiviolenza), anche i servizi di assistenza alle vittime di reato.
Il recente intervento normativo, pur rappresentando una tappa aggiuntiva nella lotta al fenomeno della violenza di genere, risulta insufficiente. La legge in esame – a parere di chi scrive – si è limitata ad offrire una risposta in chiave repressiva, non valorizzando la dimensione culturale della suddetta questione.
La migliore politica per la lotta alla violenza di genere è quella sociale, in quanto un efficace e permanente contrasto alla stessa si ottiene soltanto attraverso sottili, diffusi e solidi interventi nel tessuto sociale. Pertanto, le istituzioni sono chiamate a seguire percorsi di sensibilizzazione della collettività avverso condotte violente, fondati su una necessaria rieducazione dei soggetti rispetto a stereotipi culturali e sociali ormai datati e pericolosi. Tale esigenza trova riscontro nel preambolo del “Piano Strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2017-2020”, nel quale si riporta che “la violenza di genere è un fenomeno sociale strutturale che ha radici culturali profonde, riconducibili a una organizzazione patriarcale della società che ancor oggi permea le pratiche e la vita quotidiana di milioni di uomini e donne in Italia”.
È un primo step, cui dovranno seguirne altri. La violenza di genere è un fenomeno non solo “sfuggente”, ma anche (e soprattutto) “invisibile”, di cui non sempre se ne riconoscono i contorni e i contenuti. Occorre guardare a tale fenomeno sotto un’ottica diversa, anche seguendo l’esempio di altri Paesi (es. Regno Unito), dove la risposta delle istituzioni rientra tra le priorità delle politiche governative.
Talvolta, punire non basta. È la cooperazione che fa la differenza.
*Dottoranda di ricerca in Diritto costituzionale – Università Lum Jean Monnet