Con 178 voti favorevoli, 15 contrari e 30 astenuti, nella seduta di giovedì 8 luglio il Senato ha approvato in seconda deliberazione il disegno di legge costituzionale recante modifica all’articolo 58 della Costituzione (A.S. 1440-B), in tema di elettorato attivo per l’elezione del Senato della Repubblica, già licenziato dalla Camera dei deputati nella seduta del 9 giugno scorso. Il testo non è stato ancora approvato in via definitiva, in quanto occorre attendere la decorrenza dei tre mesi entro i quali un quinto dei membri di ciascuna Camera, cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali potranno richiedere un referendum popolare, essendo stata raggiunta in seconda deliberazione la maggioranza assoluta dei componenti ma non anche quella dei due terzi.
Dal punto di vista tecnico, il disegno di legge reca una novella estremamente puntuale, come già accaduto in questa legislatura per la riduzione del numero dei parlamentari, che sopprime – o, per meglio dire, abroga – dal primo comma dell’articolo 58 le parole “dagli elettori che hanno superato il venticinquesimo anno di età”, al fine di mantenere in vita la disposizione secondo cui “i senatori sono eletti a suffragio universale e diretto”. Vale a dire da tutti i cittadini, uomini e donne, che abbiano raggiunto la maggiore età, ai sensi del primo comma dell’articolo 48 della Carta costituzionale. Un intervento chirurgico, pertanto, la cui logica principale risiede nell’esigenza di allineare l’elettorato attivo del Senato (25 anni) a quello della Camera (18 anni), sopprimendo uno dei tratti distintivi tra le due Camere voluto dai Costituenti in ossequio ad un principio di differenziazione, secondo il quale il Senato avrebbe dovuto rappresentare una camera di compensazione, composta da parlamentari di età mediamente più elevata rispetto ai deputati. L’elettorato attivo riflette non a caso un’analoga differenziazione dell’elettorato passivo, tale per cui si può accedere alla Camera dei deputati al compimento dei 25 anni, mentre al Senato solamente al compimento del quarantesimo anno d’età. E non serve richiamare l’etimologia della parola “Senato” per comprendere quale sia la logica sottesa a questa previsione.
È noto che, nel disegno del costituente, il bicameralismo doveva essere funzionale alla creazione di una camera di riflessione, con funzione moderatrice e di bilanciamento, se non addirittura rappresentativa delle regioni e quindi intimamente connessa all’articolazione regionale della forma di Stato. Ma è altrettanto noto che l’obiettivo non fu conseguito per via di una serie di veti incrociati, dai quali scaturì un bicameralismo anomalo e tendenzialmente simmetrico, con limitate differenze tra le due assemblee – circoscritte, sostanzialmente, al numero dei componenti, alla durata della legislatura, ai citati requisiti di elettorato attivo e passivo ed alla presenza, presso il Senato, di membri non elettivi e di diritto – non in grado di scalfire l’equiparazione sul piano della funzione legislativa, dell’attività di indirizzo politico e della rappresentanza. Equiparazione che indusse un costituzionalista siciliano, nei primi anni Ottanta, a scrivere che il Parlamento italiano, pur essendo strutturalmente bicamerale, era funzionalmente più vicino al modello unicamerale. Quel giurista, per la cronaca, siede oggi al Quirinale.
In realtà, abortito il tentativo di differenziare adeguatamente il bicameralismo, alcuni di quei caratteri distintivi finivano per essere addirittura incongruenti e ben presto si avvertì l’esigenza di neutralizzarli per scongiurare una paralisi di funzionamento: in particolare, il sistema di elezione e la durata delle assemblee. Quanto al primo, nonostante un ordine del giorno Nitti avesse previsto l’adozione del collegio uninominale, la legge elettorale del Senato del 1948 era solo nominalmente di tipo maggioritario, essendo di fatto basata su un impianto proporzionale non dissimile da quello della Camera e, come tale, idoneo a creare maggioranze parlamentari sostanzialmente omogenee. Quanto al secondo, sebbene la durata del Senato fosse fissata in sei anni, si affermò una prassi per la quale in occasione della scadenza naturale della Camera dei deputati il Capo dello Stato procedeva allo scioglimento di entrambe, proprio per consentire la contemporanea elezione delle due Camere ed evitare un esito difforme. Prassi che, in seguito, fu suggellata dall’approvazione della legge costituzionale 9 febbraio 1963, n. 2, che novellava l’art. 60 della Costituzione in modo da ridurre da sei anni a cinque la permanenza in carica del Senato.
Orbene, l’odierna riforma costituzionale si inserisce pienamente nel solco descritto e discende dalla considerazione per cui differenziare l’elettorato attivo in un assetto nel quale le due Camere sono poste su un piano di assoluta parità funzionale è non soltanto inutile, ma persino controproducente. Esse esercitano la funzione legislativa in modo paritetico e conferiscono legittimità al governo concedendo – ed eventualmente revocando – la fiducia, il che esige che entrambe abbiano la medesima fonte di legittimazione. Ed esige per l’appunto che questa fonte di legittimazione sia il popolo sovrano, nella sua interezza. Non è quindi ammissibile che il Senato non sia eletto a suffragio – completamente – universale, come avviene per la Camera.
Sin qui, come si può ben notare, la riforma costituzionale in oggetto si manifesta non soltanto pienamente condivisibile, ma persino opportuna e finanche tardiva. Ciò perché nel corso dell’intera esperienza repubblicana questo aspetto ha avuto scarsa considerazione e si è piuttosto tentato – invano – di giungere ad una trasformazione del Senato in vera e propria Camera delle Regioni, svincolata pertanto dal rapporto fiduciario e dalla conseguente necessità di essere eletta a suffragio universale e diretto.
Da taluni si mette altresì in evidenza che l’allineamento dei due elettorati consente di minimizzare, se non di annullare del tutto, il rischio di maggioranze diverse tra Camera e Senato, rischio tutt’altro che teorico visto che, dal 1994 in poi, un esito non perfettamente omogeneo tra i due rami del Parlamento è stato pressoché una costante, salvo che in occasione delle elezioni del 2001 e del 2008. Sul punto, però, va detto che il rischio di maggioranze difformi o non del tutto convergenti tra le due Camere è una diretta conseguenza non tanto della differenziazione tra i due elettorati – acuita, com’è noto, dalla riforma del diritto di famiglia del 1975 che ha abbassato la maggiore età da 21 a 18 anni – quanto del bicameralismo in sé e del regime della doppia fiducia. Se pertanto l’allineamento dei due elettorati, l’adozione di un medesimo sistema elettorale e la soppressione del vincolo dell’ampiezza regionale delle circoscrizionali del Senato – obiettivo dichiarato di un’altra riforma costituzionale “chirurgica” (A.C. 2238), quest’ultima non ancora approvata ma attualmente all’esame della Commissione Affari costituzionali della Camera – sono certamente funzionali a contenere detti rischi, occorre evidenziare che la strada maestra da seguire sarebbe quella di differenziare il bicameralismo e non già di rendere le Camere due autentici doppioni, andando a rimuovere le seppur limitate differenze residue.
La riforma che il nostro ordinamento attende da tempo è infatti un’altra: la creazione di una vera e propria Camera delle regioni, indispensabile in un ordinamento fortemente decentrato in senso regionale, e la soppressione del regime della doppia fiducia. Fare del Senato, in altri termini, una camera delle autonomie, rappresentativa delle regioni e quindi svincolata dal rapporto fiduciario con il governo. A quel punto, si potrebbe ragionare sulle modalità di elezione, dirette o indirette, nonché sulla partecipazione al voto dei diciottenni, qualora si optasse per l’elezione diretta. In ogni caso, non si porrebbero più né i problemi di maggioranze convergenti – sarebbe la sola Camera a concedere la fiducia al governo – né, tanto meno, le altre questioni relative all’ampiezza delle circoscrizioni o all’allineamento tra i due elettorati.
La strada intrapresa va invece in direzione diametralmente opposta e ciò rappresenta il principale limite della riforma costituzionale in oggetto, la quale appare senz’altro opportuna – se non addirittura sacrosanta – ma solamente nella misura in cui si rinunci una volta per tutte al proposito di superare il bicameralismo paritario e il regime della doppia fiducia. Perché solo nell’ottica di un bicameralismo ultra simmetrico l’allineamento dei due elettorali assume un significato pregnante.
Non a caso, la relazione della proposta di legge n. 1511, da cui ha origine il testo approvato nei giorni scorsi, afferma chiaramente e platealmente l’urgenza di “modificare la disciplina dell’elettorato attivo e passivo per il Senato, anche per rispondere a un’indicazione politica che l’elettorato italiano ha inteso fornire in maniera abbastanza netta al legislatore proprio con il voto nel referendum del 4 dicembre 2016. Si è infatti voluto mantenere un sistema bicamerale paritario, con due Camere elette a suffragio universale diretto. Sarebbe davvero incomprensibile, pertanto, mantenere differenze per l’elezione della Camera dei deputati e di tutti gli altri livelli istituzionali del Paese (comuni e regioni) tali da determinare, nei fatti, un’evidente contraddizione con l’altro principio costituzionalmente garantito, quello dell’eguaglianza del voto”.
Sono queste le ragioni per cui la riforma in corso appare un compromesso al ribasso: è la certificazione della rinuncia al superamento del bicameralismo simmetrico. Ma a questo punto occorrerebbe chiedersi se sia ancora opportuno mantenere in vita un Parlamento bicamerale, essendo persino difficile giustificare, in presenza di un bicameralismo ultra paritario quale quello che si va delineando, la differente composizione delle due Camere, una delle quali ha la metà dei componenti dell’altra.
Vengono alla mente le parole con cui, nel 1948, all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione, Meuccio Ruini commentava l’esito dei lavori costituenti sul Parlamento. Egli evidenziava che “bicameralità presuppone che i due rami del Parlamento non siano eguali ed identici; in regime di democrazia è necessario che traggano ambedue origine dalla sovranità popolare, ma non debbo-no essere doppioni; se no avrebbe ragione Sieyès, e si farebbe più presto a mettere i membri delle due Camere in un’aula sola”. Sembra quindi che il percorso sia tracciato e non va pertanto escluso che la riforma costituzionale in oggetto sia il preludio alla soppressione del Senato e all’avvento di un Parlamento monocamerale, non solo dal punto di vista funzionale ma anche da quello strutturale.
Sono in gran parte d’accordo con la parte critica dell’analisi, meno con quella propositiva. Dell’analisi condivido il giudizio di Meuccio Ruini e di Sieyès: due rami identici sono inutili, assurdi; meglio allora far votare l’unico ramo due volte. Ergo la conclusione dell’autore: “La riforma in corso appare un compromesso al ribasso: è la certificazione della rinuncia al superamento del bicameralismo simmetrico.” Secondo gli autori del disegno di L cost. invece tale superamento sarebbe ormai precluso: “per rispondere a un’indicazione politica che l’elettorato italiano ha inteso fornire in maniera abbastanza netta al legislatore proprio con il voto nel referendum del 4 dicembre 2016. Si è infatti voluto mantenere un sistema bicamerale paritario, con due Camere elette a suffragio universale diretto.” Quest’interpretazione è inaccettabile: il popolo sovrano ha solo censurato un determinato progetto di riforma costituzionale, molto articolato, con L elettorale, non si è pronunciato sui singoli elementi della riforma. Quindi tutto rimane possibile; occorre trasformare o eliminare la seconda camera; preferibilmente senza ripetere gli errori più clamorosi del 2016. Un primo passo di differenziazione funzionale sarebbe di togliere al Senato il potere di fiducia. E fin qua sono d’accordo con l’autore. Dubito però della necessità, anzi dell’utilità di una seconda camera delle Regioni o delle autonomie locali. Forse le attuali garanzie e strumenti di farle valere sono sufficienti. L’errore, a mio parere, è di confondere le garanzie del potere decentrato con il bicameralismo. Nemmeno il Parlamento tedesco è bicamerale; il Bundesrat è solo un luogo di espressione degli interessi dei (governi dei) Länder nelle materie di loro competenza; non è una camera, non delibera, non è eletto, non vale il libero mandato. Teoricamente, sistemicamente, all’Italia non serve un Senato delle Regioni o delle autonomie. Ma può servire un altro Senato; un vero organo consultivo, non di compensazione (concetto equivoco), ma “di riflessione, con funzione moderatrice e di bilanciamento”. Se si rinunciasse alla seconda camera (ipoteticamente delle autonomie), si potrebbe rifondare il Senato affidandogli un ruolo davvero utile trasformandolo in organo solo consultivo ma con ampissimi poteri di parere non vincolante in tutte le materie che al massimo possono obbligare la Camera di votare una seconda volta su un testo criticato dal Senato e quindi ritardare l’approvazione di una legge (salvo urgenza dichiarata e motivata). Il nuovo organo costituzionale dovrebbe essere composto da senatori qualificati (definizione esigente ma elastica) eletti dai deputati ogni anno per quote di un sesto o un nono e quindi con mandato di sei o nove anni. Il Senato-consulto avrebbe il compito di migliorare la qualità, la semplicità, la coerenza, la conformità, la convergenza europea e la stabilità della pessima, troppo complicata, spesso incomprensibile, pletorica, instabile o erratica e spesso incoerente legislazione italiana. Sotto il profilo funzionale il Seanad della Repubblica irlandese e il Conseil d’État del Lussemburgo possono servire da modelli concreti con dei track record estremamente positivi; sotto il profilo della composizione e dell’elezione sarebbe tutto da inventare. Composto dai personaggi giusti, autorevoli ma senza poteri formali, il Senato consultivo potrebbe dare un grande contributo al risorgimento costituzionale e legislativo del paese. Difendo quest’idea da tempo. Essendo senza cattedra, faccio fatica a far sentire la mia voce isolata; spesso (in Italia) non mi pubblicano nemmeno.