di Camilla Buzzacchi e Roberta Calvano
Pubblichiamo due commenti che hanno ad oggetto la stessa pronuncia della Corte costituzionale, la sent. 132/2021. La sentenza riguarda una legge con cui la Regione Veneto ha cercato di aprirsi un varco verso la materia “università”, una della materie a cui si era indirizzata la richiesta della Regione di attuare l’autonomia differenziata di cui all’art. 116.3 Cost. I commenti sono di Camilla Buzzacchi e Roberta Calvano.
La Corte ferma la scorciatoia al regionalismo differenziato
Nelle more della ripresa del percorso di attivazione di un’autonomia asimmetrica in conformità all’art. 116, co. 3 Cost., nel 2020 la Regione Veneto aveva approvato una legge attraverso la quale si era aperta il varco all’esercizio di competenze in un ambito che, ruotando intorno a tutela della salute e formazione universitaria, si prospettava idoneo a superare gli ostacoli non irrilevanti del raggiungimento di un’intesa con il Governo sulle materie da trasferire dal livello nazionale a quello regionale. La legge della Regione Veneto 14 aprile 2020, n. 10 era infatti intitolata Attivazione da parte dell’Università degli studi di Padova del corso di laurea in medicina e chirurgia presso l’Azienda ULSS n. 2 Marca Trevigiana. Disposizioni in materia di finanziamento da parte della Regione del Veneto e ulteriori disposizioni e nelle sue due uniche disposizioni – una delle quali operava semplicemente l’abrogazione di una precedente norma finanziaria – autorizzava la Giunta a stipulare una convenzione per un arco temporale di quindici anni con l’Università degli Studi di Padova e con l’Azienda ULSS n. 2 Marca Trevigiana al fine di attivare, già a partire dall’anno accademico 2020/2021, un corso di laurea magistrale a ciclo unico in medicina e chirurgia: la parte di sostanziale innovazione riguardava l’assunzione da parte della Regione degli oneri finanziari relativi alla chiamata dei docenti da effettuarsi in conformità alla legge nazionale che disciplina l’organizzazione delle università, il personale accademico ed il reclutamento, ovvero la legge n. 240/2010.
La Corte costituzionale con la sentenza n. 132 ha dichiarato in larga misura illegittima la legge veneta: il passaggio assume connotati interessanti dal momento che tale disciplina, nella sua brevità ed essenzialità, avrebbe avuto la potenziale capacità di aggirare la procedura costituzionale del regionalismo differenziato. La Regione qui coinvolta aveva infatti avanzato richiesta al Governo, con l’ultima versione delle bozze di intesa del 15 maggio 2019, dell’attribuzione relativa alla promozione di convenzioni con le università per il riconoscimento della formazione specialistica dei medici, da attivare presso le medesime università parti della convenzione. Tale proposta non era stata accolta, mentre l’intesa raggiunta il precedente 15 febbraio includeva integralmente le materie della tutela della salute e delle norme generali sull’istruzione. In piena emergenza pandemica – dunque in aprile 2020 – il Consiglio regionale veneto ha operato il trasferimento della competenza attraverso una legge regionale come tante altre, il cui oggetto risulta l’individuazione dei mezzi di copertura finanziaria della spesa generata dall’attivazione di un corso di laurea specialistica. Gli oneri di una tale innovazione in tema di offerta formativa universitaria riguardavano prevalentemente spese per il personale docente, e sul merito di tale opzione non si possono tralasciare considerazioni, a cui procede Roberta Calvano. Ma prima è interessante svolgere qualche osservazione sui profili finanziari oggetto della legge del Veneto, che vengono censurati dal giudice delle leggi.
Il legislatore veneto aveva previsto che gli oneri derivanti dall’applicazione di tale disciplina – e l’importo veniva quantificato entro un tetto di 1.570.000,00 euro annui – dovevano essere coperti con le risorse del Fondo Sanitario Regionale allocate alla Missione intitolata Tutela della salute, Programma 01 “Servizio sanitario regionale – finanziamento ordinario corrente per la garanzia dei LEA”, Titolo 1 “Spese correnti” del bilancio di previsione 2020-2022. La Regione aveva dunque collocato tale spesa – che apparirebbe relativa al personale universitario, posto che si specifica trattarsi di offerta formativa universitaria – in un capitolo della sua programmazione triennale che riguardava risorse di bilancio vincolate al finanziamento dei livelli essenziali di assistenza (LEA); il giudice stabilisce che così facendo risulta violata la previsione dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. in tema di livelli di tutela della salute, ma sanziona altresì la violazione dei principi fondamentali che presiedono al coordinamento della finanza pubblica in materia sanitaria.
A fronte delle argomentazioni della Regione, tutte proiettate a ragionare sulla salute dei suoi cittadini, la Consulta si muove invece sul piano delle disposizioni del diritto del bilancio. La legge del 2020 aveva rappresentato, secondo la difesa, la risposta alla grave emergenza sanitaria causata dall’inerzia dello Stato, incapace di colmare la carenza di medici e specialisti rispetto al fabbisogno determinatosi dalla pandemia; e il Veneto si appella al titolo «sostanziale» della tutela dei diritti alla salute dei cittadini, accantonando il titolo formale del riparto di competenze. Se la Regione invoca una «visione aggiornata e dinamica del riparto delle competenze, cui non si addice più un discorso puramente formale, di intestazione, privo di riscontri fattuali», e pretende che la vicenda sia valutata «alla luce di altri principi costituzionali, sempre compresi nel Titolo V della Parte II della Costituzione» – quali il principio di sussidiarietà e quello di leale collaborazione – ma evidentemente differenti rispetto a quelli del coordinamento finanziario, il giudice richiama invece le regole costituzionali che governano il finanziamento e l’erogazione dei LEA, attingendo alla propria giurisprudenza, che negli ultimi tempi ha posto punti fermi che costituiscono coordinate complete e inderogabili. Mentre la posizione dell’istituzione regionale è che la garanzia dei diritti in materia di salute sarebbe affidata alla stessa Regione, quale unico soggetto responsabile a livello locale dell’organizzazione del servizio sanitario, la lettura che ormai da anni la Consulta prospetta è che alla determinazione, al finanziamento e all’erogazione dei LEA concorrono sinergicamente tutti i soggetti coinvolti nella sua attuazione (sentt. nn. 62 e 72/2020): a cui si è aggiunta l’affermazione che «la trasversalità e la primazia della tutela sanitaria rispetto agli interessi sottesi ai conflitti Stato-Regioni in tema di competenza legislativa» conducono a ritenere che «il legislatore regionale non ha il potere di interferire nella determinazione dei LEA, la cui articolata disciplina entra automaticamente nell’ordinamento regionale afferente alla cura della salute. (…) I costi, i tempi e le caratteristiche qualitative delle prestazioni» competono allo Stato e ciò comporta che nei diversi ambiti regionali, sulla base di una dialettica sinergia tra Stato e Regione (sent. n. 169/2017), si provveda ad un «coerente sviluppo in termini finanziari e di programmazione degli interventi costituzionalmente necessari» (sent. n. 72/2020).
Il diritto del bilancio poggia sulle previsioni della disciplina riguardante l’armonizzazione contabile – il d.lgs. n. 118 del 2011 – dalla quale deriva l’obbligo per i decisori regionali di quantificare correttamente i LEA sul piano delle grandezze finanziarie, tanto con riferimento alle entrate quanto alle spese destinate al loro finanziamento e alla loro erogazione. Le spese relative alla chiamata dei professori di ruolo e dei docenti a contratto appare con tutta evidenza non riconducibile all’ambito dei livelli essenziali di assistenza, non potendo tale personale rappresentare una prestazione riconducibile al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 12 gennaio 2017, che ha aggiornato l’elenco dei LEA in ambito sanitario: se è vero infatti che il personale medico si prodiga per cure e interventi che rappresentano condizioni indispensabili per la salute dei cittadini, è condivisibile l’osservazione della Corte che non tutta l’attività assistenziale che sono chiamati a svolgere tali dipendenti – universitari o no – possa qualificarsi in termini di erogazione e garanzia dei LEA. Se questo fosse il percorso logico utilizzabile, con le risorse destinate alle spese correnti per la garanzia dei LEA sarebbe allora finanziabile qualsiasi onere che più o meno direttamente può collegarsi a questi. Ma tale indeterminatezza collide con i principi del bilancio, che impongono specifiche e precise correlazioni tra le risorse stanziate e le tipologie di spesa da finanziare. In sostanza un corso di laurea medica specialistica non è livello essenziale relativo al diritto alla salute e non può gravare sul capitolo di spesa relativo al medesimo: fin dalla bozza del maggio 2019 questo era stato il tentativo effettuato per consentire il transito della «materia universitaria» nella sfera decisionale della Regione, e la legge n. 10/2020 ha proseguito nel medesimo solco.
Ma ulteriori considerazioni si possono effettuare proprio in merito a tale incursione del legislatore regionale nell’ordinamento universitario, e da esse appare chiaro il disegno del Veneto di forzare il meccanismo costituzionalmente preposto ad attivare il livello differenziato di autonomia, quello cioè che dovrebbe collocarsi tra regime ordinario e regime speciale.
Di nuovo il Regionalismo universitario?
È noto come lo spazio riservato all’autonomia universitaria appaia oggi sempre più ridotto a seguito degli interventi legislativi – e non – che dal 2010 si sono via via susseguiti. Il Governo, l’agenzia di valutazione ed ora anche alcune regioni paiono sempre più interessati ad invadere un ambito del quale si può dire tutto il male su come sia stato gestito nel tempo, ma che nondimeno rimane affidato dall’art. 33, c. 6 Cost. all’autonomia degli atenei.
È già successo che una legge regionale entrasse in tale “spazio” riservato all’autonomia universitaria (v. sent.102/2006 relativa ad una legge della Regione Campania che aveva previsto l’istituzione ed il finanziamento di master e corsi di eccellenza) e che essa venisse dichiarata incostituzionale per aver invaso la “competenza legislativa e regolamentare attribuita in materia di università in via esclusiva allo Stato dagli artt. 33, comma sesto, e 117, comma secondo, lettera n), della Costituzione, comprensiva, tra l’altro, della disciplina dei percorsi formativi e dei relativi titoli di studio, della programmazione universitaria e dello stato giuridico del personale docente e non docente”. Allora il Governo aveva però impugnato con riferimento alla violazione della competenza statale sancita all’art. 33.
Oggi la sentenza n. 132 vede un’analoga vicenda, resa più complessa dal collegamento alla materia della Sanità, avendo la Regione Veneto previsto in una sua legge l’autorizzazione a stipulare una convenzione quindicennale con l’Università di Padova per “sostenere” l’attivazione presso una ASL di un corso di un corso di laurea in medicina e chirurgia finanziato dalla Regione stessa, con reclutamento di docenti strutturati e a contratto, posto a carico della finanza regionale. Il Governo ha impugnato però questa volta con riferimento al parametro dell’art. 117, c. 2, lett. m e c. 3 (con riferimento a questi temi si sofferma Camilla Buzzacchi) e non a quello che avrebbe forse meritato di essere invocato, almeno in via subordinata, dell’art. 33 comma 6.
Essendo l’autonomia universitaria funzionale alla garanzia della libertà di ricerca e di insegnamento contemplate nel primo comma dell’art. 33, dovrebbe essere conseguentemente evidente che l’autonomia didattica sia (o forse dovrebbe essere), insieme all’autonomia organizzativa, la parte più indiscutibilmente insopprimibile dell’autonomia. Il condizionale è in realtà richiesto in questa materia da quando i Decreti ministeriali disciplinanti l’autovalutazione e accreditamento iniziale e periodico, ai sensi della legge n. 240 e la legge stessa hanno significativamente ridotto tali ambiti di autonomia. Tali dati non sono tuttavia così evidenti per chi governa e per chi amministra, come si vede bene nel caso in commento. La costruzione progettata nella legge regionale dichiarata incostituzionale dalla sentenza n. 132, di una convenzione stipulata da parte della Regione e finalizzata ad offrire il sostegno finanziario necessario a coprire integralmente i costi del reclutamento e del fabbisogno di docenza di un corso di laurea istituito formalmente dall’Università, ma solo sulla base della convenzione (da quel che è dato comprendere dalla disciplina impugnata e dall’atto di promovimento) non pare mutare la sostanza delle cose. La modalità progettata rappresenterebbe un esempio di un insegnamento universitario “regionalizzato”, attivato, finanziato e insomma inevitabilmente governato dalla Regione, seppur per il tramite degli organi di governo di un’università (come si potrebbe invero dire di no a chi finanzia integralmente un corso di laurea se, per esempio, premesse per l’introduzione di un certo insegnamento, o per l’attribuzione di un certo incarico di docenza?).
Sulla sentenza sembra dunque aleggiare un duplice convitato di pietra quindi, perchè oltre ad essere primario e dirimente il profilo della violazione di un principio fondamentale recato dalla prima parte della Costituzione quale quello posto nell’art. 33 (e non si comprende quindi il motivo per cui il Governo non abbia ritenuto di farlo valere almeno unitamente alle altre censure di incostituzionalità), il secondo problema che si intravede sullo sfondo in questa pronuncia può poi essere riassunto con il riferimento all’art. 116 c. 3, ed alle pendenti aspirazioni all’attuazione del regionalismo differenziato da parte di alcune regioni, tra cui la Regione Veneto resistente in giudizio, messo solo temporaneamente in standby dalla pandemia.
L’aspirazione delle tre Regioni più avanti nel percorso verso il regionalismo differenziato (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) ad esercitare competenze in tema di “norme generali sull’istruzione”, oltre che a godere di una competenza piena nella materia istruzione di cui all’art. 117, c. 3, è nota. Si potrebbe facilmente segnalare, a sostegno dell’opponibilità di limiti a siffatte forme di differenziazione “spinta”, che l’art. 33 c. 6 contempla una riserva di legge statale, e che il caveat contenuto nell’art. 117 c. 3, “salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche”, potrebbe essere interpretato come suscettibile di tener ferma anche l’autonomia universitaria, giacchè sarebbe paradossale far salve dalla regionalizzazione le istituzioni scolastiche e non quelle universitarie, assistite da garanzia ben più ampia e “topograficamente” (rispetto alla sistematica del testo costituzionale) inattaccabile. È chiaro tuttavia, e l’approvazione di questa legge da parte della Regione Veneto nell’aprile del 2020 non fa che confermarlo, che la battaglia politica sul punto è ancora aperta, e forse solo apparentemente sospesa. Si deve quindi provare a portare avanti ad un tempo la battaglia delle idee, sperando che qualcuno sia ancora disponibile ad interrogarsi sui complessivi effetti sul sistema delle autonomie che deriverebbero dallo scardinamento del titolo V per il tramite dell’art. 116 c.3, per non dire dall’idea di scavalcare lo stesso art. 116 c. 3, procedendo per via di convenzioni tra enti che aggirano sostanzialmente il riparto costituzionale delle competenze. L’unità nazionale sarebbe il tassello successivo che verrebbe a subire i contraccolpi di un processo che non si deve aver timore di definire smaccatamente sovversivo.
La difesa regionale, da quanto risulta nella pronuncia, invocando in sostanza sussidiarietà e leale cooperazione, pare essersi avvalsa di un argomento che avrebbe in effetti consentito nel 2020-2021, e forse anche oltre, alle Regioni di fare virtualmente… qualsiasi cosa. “La resistente contesta le censure mosse da parte avversa, sostenendo, in sostanza, che la legge impugnata costituisca la risposta necessitata alla grave emergenza sanitaria causata dall’inerzia dello Stato o, comunque sia, dall’inadeguato esercizio delle competenze di quest’ultimo, a fronte di una conclamata e più volte segnalata carenza di medici e specialisti.” Non sarebbe possibile non concordare su questo punto, con chi argomenta circa la mancata o non corretta programmazione degli accessi ai corsi di studio di area medica, da parte di un legislatore governativo costantemente più preoccupato del cordone della borsa che della salute e del benessere dei cittadini. Ma a partire da tale rilievo, gli approdi cui si giunge sono tuttaltro che condivisibili, come si vede nel seguito del ragionamento della difesa regionale, “lo scenario all’interno del quale andrebbe collocata la vicenda non sarebbe quello formale del riparto di competenze, ma quello sostanziale della tutela dei diritti alla salute dei cittadini, la cui garanzia sarebbe affidata alla stessa Regione, quale soggetto responsabile a livello locale dell’organizzazione del servizio sanitario. Sostiene, infatti, la resistente che, posto un dato organigramma di competenze, sarebbe, comunque sia, necessario misurarsi con le «condizioni oggettive» in cui verserebbe la sanità, allorché si contestino alla Regione «invasioni di ambiti materiali riservati allo Stato». Da ciò l’affermazione che dovrebbe aversi una «visione aggiornata e dinamica del riparto delle competenze, cui non si addice più un discorso puramente formale, di intestazione, privo di riscontri fattuali»”.
L’emergenza pandemica, evento che ha portato alle più disparate teorizzazioni sul dettato costituzionale, o sulle sue presunte lacune, diventa insomma il grimaldello per poter finalmente arrivare ad una resa dei conti, per cui chi è meglio in grado di garantire diritti, rivendica il potere di fare da sé, a modo suo, a prescindere dal dettato costituzionale. E l’università, come altri ambiti, può così diventare terreno di conquista per un regionalismo competitivo sfrenato e distruttivo.