Archiviata (forse troppo frettolosamente) l’infatuazione per una legge elettorale proporzionale con alta soglia di sbarramento, sul modello tedesco, il pendolo del sempiterno dibattito sul futuro sistema elettorale, nel suo periodico oscillare tra soluzioni diverse, sembra ora propendere per un proporzionale a doppio turno, con premio di maggioranza, che però, se non adeguatamente corretto, rischia di ricadere in vizi d’incostituzionalità già censurati in passato.
Tale formula elettorale sembra al momento preferibile (soprattutto nel centro sinistra) al maggioritario (a turno unico o doppio) per due essenziali ragioni: da un lato, consentirebbe ai partiti di coalizzarsi, mantenendo però il loro simbolo sotto cui presentare le liste di candidati, senza essere costretti a presentare candidati comuni; dall’altro, minimizzerebbe una eventuale sconfitta elettorale, dato che il vincitore non potrebbe andare oltre la percentuale di seggi stabilita nel premio di maggioranza. A pensarci bene, sono le stesse motivazioni che indussero il Governo Berlusconi III nel 2005 ad abrogare il sistema elettorale prevalentemente maggioritario (Mattarellum) per un proporzionale con premio di maggioranza (legge n. 270/2005), a dimostrazione del ciclico ritorno di proposte elettorali a seconda della convenienza del momento.
Il punto è che quella legge – la Calderoli – è stata dichiarata incostituzionale (sentenza 1/2014) anche perché sovra-rappresentava la lista o la coalizione di liste vincente, attribuendo il premio di maggioranza del 54% dei seggi a prescindere dalla percentuale di voti ottenuti, anche se minima. Che non si trattasse di una mera ipotesi lo dimostrava esattamente quanto accaduto nelle elezioni politiche del 2013, dove la coalizione di centro sinistra alla Camera ottenne il 54% dei seggi (340) con appena il 29,5% dei voti.
Fu anche per rimediare a tale censura d’incostituzionalità (oltreché per ricondurre in un’ottica di competizione bipolare un sistema che, con l’affermazione del M5S, era divenuto tripolare) che il governo Renzi approvò il c.d. Italicum (l. 52/2015). Com’è noto, esso prevedeva giustappunto l’attribuzione del premio di maggioranza del 54% dei seggi alla lista (e non alla coalizione di liste) che avesse ottenuto al primo turno almeno il 40% dei voti oppure, in difetto, che avesse vinto il ballottaggio tra le prime due liste più votate al primo turno. Anche tale legge, però, fu dichiarata incostituzionale. Anche in questo caso, infatti, la mancanza di una percentuale minima di voti per accedere al secondo turno avrebbe permesso di trasformare “artificialmente una lista che vanta[va] un consenso limitato, e in ipotesi anche esiguo, in maggioranza assoluta”. In definitiva, a nulla valeva che la lista avesse vinto il ballottaggio se nel primo turno aveva ottenuto meno del 40% dei voti perché ciò comunque avrebbe determinato quello stesso “sproporzionato sacrificio dei principi costituzionali di rappresentatività e di uguaglianza del voto” (sentenza n. 35/2017, 9.2) già censurato nel 2014.
Da queste due sentenze si ricavano dunque tre preziose indicazioni.
In primo luogo, il premio di maggioranza non è di per sé incostituzionale. Non è vero, dunque, che il proporzionale puro sarebbe la formula elettorale imposta, seppur implicitamente, dalla Costituzione. L’eguaglianza del voto “in entrata” non comporta l’eguaglianza del voto “in uscita”. Nello specifico, è legittimo attribuire il 54% dei seggi a chi ha ottenuto il 40% dei voti; infatti “tale soglia non appare in sé manifestamente irragionevole, poiché volta a bilanciare i principi costituzionali della necessaria rappresentatività della Camera dei deputati e dell’eguaglianza del voto, da un lato, con gli obbiettivi, pure di rilievo costituzionale, della stabilità del governo del Paese e della rapidità del processo decisionale, dall’altro” (sentenza n. 35/2017, 6).
Parimenti, in secondo luogo, la previsione del ballottaggio non è in sé e per sé incostituzionale, anche quando si tratti di eleggere un organo collegiale, come il Parlamento, e non monocratico (come il Sindaco o il Presidente di una Regione). Piuttosto incostituzionale era il ballottaggio per come concretamente disciplinato dall’Italicum.
Pertanto, ed in terzo luogo, perché il secondo turno superi il vaglio della Corte occorre spezzare i legami che lo legano al primo, congegnandolo rispetto ad esso come una nuova votazione anziché come una sua prosecuzione; che sia, insomma, una nuova partita, e non il secondo tempo della stessa. Sotto questo profilo, la stessa sentenza 35/2017 della Corte costituzionale (§ 9.2) offre tre preziose, e nemmeno tante velate, indicazioni – non necessariamente cumulative – sulle correzioni che potrebbero “rendere il turno di ballottaggio compatibile con i tratti qualificanti dell’organo rappresentativo nazionale”
1) introdurre una percentuale minima di voti non irragionevole per l’accesso al secondo turno di ballottaggio onde evitare, come detto, l’effetto sovra-rappresentativo; se non venisse raggiunta, a causa di una eccessiva frammentazione politica al primo turno, il ballottaggio non si terrebbe ed il premio di maggioranza non verrebbe assegnato; il che costituirebbe certamente un incentivo ad aggregazioni elettorali fin dal primo turno;
2) consentire forme di collegamento o apparentamento fra liste elettorali tra il primo ed il secondo turno. Questo sembra, anzi, il motivo principale del favore di cui gode l’attuale proposta, dato che il centro-sinistra, che sembra avere maggiori problemi a coalizzarsi rispetto al centro-destra, potrebbe in tal modo recuperare, soprattutto in vista di una possibile alleanza con il M5S;
3) prevedere una ripartizione diversa dei seggi da quella del primo turno per le liste diverse da quella vincente, ad esempio introducendo, oltreché un premio di maggioranza, anche uno (più modesto) di minoranza per la lista o la coalizione di liste sconfitta al ballottaggio, anche in questo caso per incentivare le alleanze elettorali e non frammentare la futura opposizione.
Solo spezzando il legame tra i due turni si può costituzionalmente ammettere che il premio di maggioranza venga conquistato al secondo dalla lista o coalizione di liste che al primo abbia ottenuto una percentuale non elevata di voti. Altrimenti, come dimostra la proposta qui formulata da Salvatore Bonfiglio, per giustificare costituzionalmente l’attribuzione di un premio elettorale non superiore al 15% dei seggi che assicuri effettivamente la maggioranza, si è costretti a prevedere il ballottaggio nella sola ipotesi in cui entrambe (!) le liste o coalizioni di liste abbiano ottenuto al primo turno un risultato elettorale che si collochi nel ristretto range tra il 35% – forse meglio 36% – al di sotto del quale il suddetto premio non verrebbe assegnato, e il 39,9%, al di sopra del quale lo sarebbe già al primo turno.
In tutto ciò rimangono tre questioni aperte, qui rapidamente accennate:
a) subordinare l’attribuzione del premio di maggioranza all’essere esso attribuito in entrambe le camere alla medesima lista o coalizione elettorale; come ci ha ricordato la Corte costituzionale, infatti, i sistemi elettorali delle due Camere devono essere, se non identici, tali comunque da non ostacolare “all’esito delle elezioni, la formazione di maggioranze parlamentari omogenee” (§ 15.2);
b) innestare nell’attuale dibattito il tema, agli occhi degli elettori decisivo, del superamento delle liste bloccate a favore non della reintroduzione del voto di preferenza (rimedio peggiore del male) ma dei collegi uninominali, abbinabili al proporzionale come era al Senato fino al 1992;
c) mettere in sicurezza gli attuali quorum costituzionali di garanzia (elezione del Presidente della Repubblica, dei giudici costituzionali; revisioni costituzionali) che grazie al premio potrebbero essere facilmente raggiunti dalla maggioranza di governo, conservando la loro originaria ratio costituzionale compromissoria.
Questioni, come si vede, complesse e delicate che l’attuale dibattito sulla legge elettorale farebbe bene a prendere in considerazione, senza facili semplificazioni o ardite soluzioni dirette a sfidare nuovamente il giudizio della Corte costituzionale.
Certo la presenza di una lista (o gruppo) che da solo ottiene la maggioranza dei seggi dà affidamento di stabilità e di capacità decisionale del governo che si formerà. Questo non implica che in mancanza di una lista che ottenga una percentuale di voti ragionevolmente vicina al 50% si debba necessariamente ricadere nel proporzionalismo puro. La posizione del partito più votato ha comunque un rilievo politico che lo pone al centro dei giochi; la probabilità che intorno a questo partito si costituisca un governo valido è considerevole. Perché non rafforzare la posizione di primo partito, anche se il premio non consente di raggiungere la maggioranza assoluta dei seggi ? Se un meccanismo di tal tipo viene inserito nella legge elettorale, gli elettori lo comprenderanno facilmente e non mancheranno di tenerne conto. In concreto, propongo che al partito elettoralmente più forte vengano assegnati tanti seggi quanti spettano con criterio proporzionale, più un quinto (quindi se ottiene il 30% dei voti avrà il 36% dei seggi; se il 35% avrà il 42%; se ottiene il 42% dei coti avrà il 50,4 dei seggi). I seggi che restano verranno ripartiti fra le altre liste.
Non commento l’articolo, ma l’approccio. La riflessione giuridica non riesce più a muoversi in autonomia rispetto all’analisi descrittiva delle scienze politiche (che studia il potere pubblico, le forze istituzionali e fattuali etc). Senza dimensione teorica l’analisi costituzionale rimane prigioniera del diritto positivo (legislativo e giurisprudenziale) in una materia dove questo ha dato ampia prova della sua inadeguatezza. Il dibattito accademico si è manovrato in un vicolo cieco, anzi in un labirinto cieco, che diviene sempre più complesso con l’intenzione dichiarata di risolvere dei problemi irrisolvibili con una L elettorale minimamente conforme, inseguendo il fantasma, l’enigma della governabilità che si aggira sull’Italia da quando … ha adottato il suffragio universale. I costituzionalisti dovrebbero invece difendere i diritti, degli elettori, candidati e eletti. Che possono subire restrizioni, per obiettivi legittimi, a condizione però che le restrizioni siano idonee, indispensabili e non eccessive. Dubito dell’idoneità: sono convinto che l’obiettivo vero è un altro. Posso dimostrare che le restrizioni più dibattute non sono necessarie, che ci sono soluzioni equivalenti senza restrizioni, ma a chi interessa? Sugli eventuali eccessi non mi pronuncio, essendo il criterio elastico. Quali sono i diritti da garantire in un sistema proporzionale di lista? La lista elettorale può essere un ottimo strumento elettorale (ancorché non indispensabile) se utilizzato con cautela, cioè se si rispettano i diritti più fondamentali fra i diritti fondamentali, cioè quelli politici, che se rispettati garantiscono tutti gli altri: in democrazia l’elezione conforme della rappresentanza è la base di tutta la costruzione. L’Italia da tempo – al più tardi dal 2005 – ha smarrito la retta via. Dopo questo preambolo un po’ teorico, vorrei comunque dare un’indicazione costruttiva. Bisogna tornare alle radici. Oltre a rispettare i diritti politici fondamentali, la L elettorale dovrebbe essere semplice (“Les élections immédiates exigent des formes très simples” diceva Condorcet) e sommariamente coerente. Il sistema tedesco spesso invocato, ilpiù spesso a sproposito, non è semplice, è doppiamente incoerente (si vedano le continue contestazione davanti al BVerfG che finora coprono solo un’incoerenza legata alla doppia ripartizione a cascata, l’altra l’hanno appena capita a Zurigo dove 15 anni fa si è adottato il sistema battezzato senza pudore Pukelsheimer DoppelProporz) e non è conforme (Volker von Prittwitz, bpb: Hat D ein demokratisches Wahlsystem? https://www.bpb.de/apuz/33522/hat-deutschland-ein-demokratisches-wahlsystem). Non serve la doppia ripartizione a cascata che conduce a incoerenze. Ai difetti del sistema tedesco l’Italia aggiunge le acrobazie della maggioranza ex cilindro. E non ho ancora menzionato le liste bloccate, uno schiaffo alla democrazia, che Putin ha prontamente copiato dalla virtuosa Germania e dalla meno virtuosa Italia sdoganata dalla (quanto utile e credibile?) CEDU (Saccomanno c. Italia, 2012) potendo nominare in quel modo oltre 300 dei 450 membri della Douma. E ora si pensa di risolvere questo pasticcio creato gratuitamente con uno statuto, presumo istituzionale, dei partiti, quando in Germania la teoria del Parteienstaat è morta con Leibholz (e con Kelsen che ha dato il suo assist nefasto pontificando con non poca incoerenza contro il mandato rappresentativo libero: non aveva teorizzato la teoria pura del diritto?) non è più accettata da nessuno, a parte il Bundestag che non intende minimante rinunciare ai privilgi impropri riconosciuti nel passato ai partiti. Con tempo vizi giuridici e incoerenze divengono accettabili come tradizione. Solo partiti democratici, aperti e trasparenti, dovrebbero essere ammessi in una democrazia effettiva. Per assicurarlo bisogna cominciare a definire con cura la L elettorale; sarebbe possibile, forse opportuno, ispirarsi ai modelli finlandese e irlandese (entrambi a voto unico), o elvetico e lussemburghese (a condizione di rinunciare al voto multiplo che complica inutilmente, come D’Hondt aveva già capito nel 1882). La dimensione della circonscrizione determina la soglia effettiva per essere eletti o per aggiudicarsi un seggio; è molto alta in Irlanda dove si usano collegi da 3 a 5 seggi, meno selettiva altrove (dove le circoscrizioni sono di solito troppo eterogene). Pubblicherò prossimamente due articoli su Una tassinomia dei sistemi proporzionali e su La ricerca della formula di ripartizione appropriata dove c’è poco spazio per discutere le contorsioni (inutili, perniciose) italiane.