di Michele Carducci
Roberto Bin ha giustamente definito rivoluzionaria la recente sentenza del Tribunale costituzionale tedesco in tema di cambiamento climatico.
In effetti, contenuto è estremamente interessante ma la sua lettura non è scontata, perché richiede la considerazione non solo del diritto costituzionale tedesco, con la sua peculiare evoluzione sui doveri statali di protezione e sul principio di precauzione (per una sintesi recente, si v. W. Kahl, Klimaschutz und Grundrechte, 2021), ma anche della singolare dinamica delle fonti del diritto climatico all’interno dello spazio giuridico europeo. È in questa prospettiva, infatti, che si muove la sentenza tedesca.
La UE aderisce alla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (UNFCCC), del 1992, e all’Accordo di Parigi, del 2015. Essa, pertanto, tributa a queste fonti internazionali la forza normativa della diretta applicabilità e dell’effetto utile, al pari di qualsiasi altra fonte europea. La UE, però, ha anche adottato specifici Regolamenti in materia climatica, primi fra tutti i nn. 2018/842, 2018/1999 e 2020/852. In essi, i contenuti di mezzi e risultato delle obbligazioni climatiche internazionali (a partire dai doveri di mitigazione nella finestra temporale del 2030 per il 2050 con l’obiettivo del contenimento dell’aumento della temperatura a non più di 1,5°C massimo 2°C) sono testualmente tradotti in un vincolo giuridico euro-unitario, giustiziabile ai sensi dell’art. 258 TFUE e con efficacia interna agli Stati.
A tale vincolo devono dunque sottostare gli Stati, ma lo devono fare “onorando”, come intitola proprio il Regolamento 2018/842, l’Accordo di Parigi.
Ecco allora che la ratio del diritto climatico “europeizzato” risulta strumentale all’effettivo adempimento delle fonti del diritto climatico internazionale. Questo significa che gli obblighi europei non si sostituiscono alle obbligazioni climatiche di UNFCCC e Accordo di Parigi, bensì le “specificano” all’interno dello spazio giuridico europeo, in ordine al contenuto (“ridurre” le emissioni) e al termine temporale per adempiervi (il 2030): e le “specificano” ovviamente nel rispetto del riparto di competenze, di cui agli artt. 4 (n. 2 lett e) e 191 TFUE.
Si spiega così la distinzione prescrittiva delle due principali “specificazioni” di attuazione europea dell’Accordo di Parigi: il termine del 2030 è indicato come tassativo e vincolante; al contrario, il contenuto della percentuale di abbattimento delle emissioni è contrassegnato dall’accompagnamento dell’avverbio quantitativo “almeno” (ridurre “almeno“del tot %). L’aggiunta linguistica implica che il quantum di riduzione, sancito dai Regolamenti, non identifica il punto di arrivo di ciascuno Stato per “onorare gli impegni” dell’Accordo di Parigi, ma solo quello di partenza per l’esercizio della competenza concorrente degli Stati in materia climatica.
Tra l’altro, la ragione della differenza non è solo formale, ma “termodinamica”. Lo si trae dalla definizione di “emissioni”, contenuta nell’art. 1 dell’UNFCCC: «emissione di gas ad effetto serra e/o dei loro precursori nell’atmosfera al di sopra di una determinata zona e in un determinato periodo di tempo». Il fenomeno emissivo è giuridicamente identificato non come processo semplicemente atmosferico, ma primariamente come collocazione (“al di sopra”) in una “determinata zona” per un “determinato periodo di tempo”. In sintesi, la categoria giuridica dell’emissione del gas serra è georeferenziata ed è “spazio-temporale”: deve essere considerata con riguardo al tempo “al di sopra” di una “determinata zona”. I Regolamenti europei, come le fonti del diritto climatico internazionale, individuano la “determinata zona” negli spazi degli Stati e nel “periodo di tempo” di emissioni al loro interno. Dipende tutto da questo, quindi dipende dagli Stati.
La conferma proviene dallo stesso Accordo di Parigi, in due disposizioni: all’art. 4 n. 18, dove si ribadisce che ogni Stato resta sempre “responsabile individualmente” delle proprie decisioni di riduzione delle emissioni, anche all’interno di un’organizzazione regionale di integrazione come la UE; all’art. 4 n. 3, nella parte in cui si richiede che ogni contributo di azione statale segni sempre «una progressione rispetto al precedente» ed esprima la «più alta ambizione possibile».
Ma in cosa risiede la «più alta ambizione possibile» di uno Stato? La risposta è nell’art. 4 n.1 dell’Accordo stesso: conseguire «al più presto possibile» il picco globale di emissioni di gas serra, per poi procedere alla loro irreversibile riduzione in funzione della definitiva stabilizzazione del sistema climatico: ancora una volta il “tempo”.
Con l’Accordo di Parigi, il “determinato periodo di tempo” di emissioni “al di sopra” di una “determinata zona” (quella degli Stati) diventa il “più presto possibile” per assumere una precisa azione statale: il calcolo del “picco globale di emissioni”.
Il dettaglio non è di poco rilievo, perché chiama in causa tre elementi ulteriori, di cui la sentenza tedesca si fa carico di discutere.
Il primo è di natura normativa e si connette al rapporto tra Stati e UE nel quadro dell’art. 193 del Trattato di funzionamento dell’Unione europea, secondo cui «i provvedimenti di protezione adottati in virtù dell’articolo 192 [ndr: nella materia concorrente degli interventi ambientali] non impediscono ai singoli Stati membri di mantenere e di prendere provvedimenti per una protezione ancora maggiore». Questo articolo abilita un “diritto più severo” degli Stati, in ragione delle specificità nazionali (cfr. Corte di giustizia UE in causa C-129/16). Nella disciplina climatica, il “diritto più severo” investe proprio il rapido conseguimento del “picco globale di emissioni”, tenendo conto della “determinata zona” e del “periodo di tempo”. Di conseguenza, gli Stati, nelle loro politiche climatiche, non possono agire semplicemente “eseguendo” quanto previsto dai Regolamenti UE. Al fine di “onorare” l’Accordo di Parigi, attraverso i Regolamenti, essi devono verificare se e come le soglie ivi indicate contribuiscano, all’interno della loro “determinata zona”, al “picco globale di emissioni”. Se non lo fanno, pur rispettando formalmente i Regolamenti, violano comunque l’Accordo di Parigi.
Il secondo elemento è di carattere metodologico. Ragionare in funzione del “picco globale di emissioni” significa impegnarsi a effettuare conteggi su tutte le emissioni provenienti dalla “determinata zona” di ciascuno Stato. Ma le emissioni non sono solo quelle direttamente “prodotte” dalle attività umane (sotto forma di beni e servizi). Come testualmente previsto sempre dall’UNFCCC (agli artt. 1 e 4), nella categoria devono essere incluse pure quelle “indotte” dalle condizioni peculiari della “determinata zona” statale, per come interferita dal cambiamento climatico antropogenico (dall’UNFCCC rubricate come “indirette”). Ogni Stato deve agire valutando tutti i rilasci e gli assorbimenti di anidride carbonica delle attività umane e dei bacini naturali riguardanti il suo territorio (Natural Sink), così identificando e monitorando il proprio ciclo del carbonio (Carbon Cycle) nazionale. Se non lo fa, commette una illegittimità. Si pensi, per fare un esempio, alla desertificazione conseguente all’aumento della temperatura, che incide sulle funzioni naturali di cattura del carbonio da parte del suolo. L’Italia, in ragione della combinazione tra emissioni “prodotte” e “indotte”, è rubricata dalla scienza climatica come “hot-spot“: “zona” in cui il cambiamento dei parametri climatici della temperatura e delle precipitazioni (prodotti dal riscaldamento globale antropogenico), congiuntamente con fenomeni antropici locali di cattivo uso del suolo o altro, compromette il ciclo del carbonio e i suoi “tempi”.
Di riflesso, l’ultimo elemento riguarda il fattore spazio-tempo rispetto ai soggetti che lo vivono: agire nella prospettiva del “picco delle emissioni” significa proiettarsi sul futuro, proteggere oggi per domani. In effetti, l’UNFCCC attribuisce ai singoli Stati la sostanziale funzione di protezione e custodia del proprio sistema climatico in una dimensione non solo spaziale ma anche temporale e soggettiva. Le formule testuali utilizzate sono: «proteggere il sistema climatico a beneficio della presente e delle future generazioni» e «mitigare i cambiamenti climatici … proteggendo e incrementando i suoi [dello Stato] pozzi e serbatoi di gas ad effetto serra».
In definitiva, la struttura normativa dell’obbligazione climatica si palesa tridimensionale, in quanto coinvolgente: il sistema climatico statale (la “determinata zona” di emissioni, comprensiva di pozzi e serbatoi di gas serra); il tempo (attraverso il processo termodinamico della mitigazione); i soggetti (la presente e le future generazioni). All’interno dello spazio giuridico europeo, tale tridimensionalità climatica è stata confermata dalla Corte GUE Grande Sezione nella Causa C-366/10, oltre che dalla giurisprudenza in tema di inquinamento atmosferico (tra l’altro proprio con riguardo alle insufficienti politiche ambientali italiane).
Ora, la tridimensionalità include il fattore “tempo” (il tempo della “mitigazione” per la “presente e le future generazioni”). Il fattore “tempo” è stato a sua volta formalizzato e vincolato dal diritto europeo (drastico abbattimento delle emissioni entro il 2030 per la neutralità climatica al 2050). Ma tale abbattimento deve essere concretizzato individuando il “picco” globale di emissioni da parte di ciascuno Stato nella contabilizzazione del suo intero ciclo di carbonio, “a beneficio” della presente e delle future generazioni ossia per non far regredire l’esercizio effettivo di diritti e libertà umane in quella “determinata zona” (come del resto desumibile, nello spazio giuridico europeo, dall’art. 53 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea).
Insomma, il fattore “tempo” diventa il fulcro della tridimensionalità dell’obbligazione climatica statale affinché si realizzino concretamente tutti i suoi contenuti di protezione per i “benefici” umani di libertà e diritti.
La formula temporale di Parigi «al più presto possibile» si palesa come nuova chiave degli adempimenti climatici statali. Perdere tempo oggi nel consentire emissioni senza alcun calcolo sui tempi del “picco”, implica scaricare sul futuro l’urgenza di far fronte alla lotta al cambiamento climatico, ristringendo ulteriormente e ingiustamente gli spazi di azione e risposta di chi verrà e facendo regredire i “benefici” delle generazioni future. Del resto, il Preambolo dell’Accordo di Parigi riconosce che gli Stati, al momento di intraprendere azioni volte a contrastare i cambiamenti climatici, «rispettino, promuovano e tengano conto dei loro obblighi rispettivi nei confronti dei diritti umani, del diritto alla salute, dei diritti delle popolazioni indigene, delle comunità locali, dei migranti, dei minori, delle persone con disabilità e dei popoli in situazioni di vulnerabilità, nonché del diritto allo sviluppo, all’eguaglianza di genere, all’emancipazione delle donne e all’equità intergenerazionale».
Insomma, questo “tempo” riempie i contenuti della legittimità delle decisioni sul cambiamento climatico, anche oltre le mere conformità con le indicazioni dei Regolamenti europei.
Ed è così che la Corte costituzionale tedesca procede, rileggendo l’art. 20a del Grundgestez («Lo Stato tutela, assumendo con ciò la propria responsabilità nei confronti delle generazioni future, i fondamenti naturali della vita e gli animali mediante l’esercizio del potere legislativo, nel quadro dell’ordinamento costituzionale, e dei poteri esecutivo e giudiziario, in conformità alla legge e al diritto») come regola di custodia del “tempo” del sistema climatico tedesco e dovere di sua protezione “in tempo utile” per i “benefici” delle generazioni future: “benefici” di mantenimento, non di aumento dei loro diritti (quindi esattamente nei termini dell’ “equità intergenerazionale” dell’UNFCCC).
Allora il “tempo” contorna anche il nucleo essenziale dei diritti e delle libertà presenti e future. La stabilizzazione climatica, proiettandosi come sbocco futuro degli interventi odierni di mitigazione in vista del “picco” di emissioni, produce quello che la Corte denomina “effetto preliminare ineludibile” (par. 187): considerare qualsiasi emissione di gas serra consentita oggi una forma legalizzata di minaccia per le libertà future, dato che ogni quantità attuale di emissioni di CO2 ridurrà il quantitativo residuo futuro in modo irreversibile, condizionando in peius l’esercizio futuro di libertà e diritti, destinati all’ineluttabile restringimento dei “benefici” dei loro contenuti; il tutto non solo per l’eventualità crescente di danni futuri da cambiamento climatico (ondate di calore, siccità, eventi estremi ecc…), ma soprattutto per gli ingiusti più gravosi oneri di intervento necessari a riparare la negligenza odierna dello Stato.
Si tratta di una conclusione ineccepibile dal punto di vista costituzionale, dato che i “fondamenti naturali della vita”, riconosciuti e tutelati dall’art. 20a GG, si fondano proprio sul ciclo del carbonio. Ma la conclusione è comunque ineluttabile in termini fisici, dato che la termodinamica è segnata dalla freccia del tempo nei contesti di alta entropia (quali sono i sistemi climatici compromessi dal riscaldamento globale).
Il che rende evidente quanto le libertà umane siano “climaticamente condizionate” e dipendano dalla custodia permanente del sistema climatico: custodia permanente realizzabile solo attraverso il corretto utilizzo statale dell’art. 4 n. 1 dell’Accordo di Parigi nella valutazione dell’intero ciclo del carbonio.
Con questo ordito, la Corte tedesca si distacca dagli altri precedenti giudiziali europei in materia di lotta al cambiamento climatico: a determinare la condanna dello Stato non è l’insorgenza attuale di un danno (come affermato con la sentenza del Tribunale amministrativo di Parigi) né la mancata protezione preventiva del diritto alla vita di fronte alla minaccia climatica (come impresso dal celebre caso olandese “Urgenda“). È la illegittima gestione statale del “tempo” quale variabile determinante della termodinamica del clima nella “determinata zona” di ciascuno Stato ed elemento costitutivo dei “benefici” delle libertà presenti e future dentro quello Stato.
Su queste basi, la Corte tedesca può concludere che il cambiamento climatico è una questione di permanenza nel tempo delle libertà.