La crisi del Partito Democratico – forza politica che fa parte della maggioranza parlamentare di sostegno al Governo attualmente in carica e che già appoggiava il precedente Esecutivo – manifestatasi con le dimissioni del Segretario Nicola Zingaretti presentate il 4 marzo 2021 si è, in fondo, risolta in un battibaleno e ha accresciuto le stranezze istituzionali emerse nel corso della corrente XVIII Legislatura. Nonostante le parole sferzanti che hanno accompagnato l’abbandono della segreteria politica di Zingaretti – eletto con il 66% dei consensi in occasione delle primarie svolte da quel partito nel marzo 2019 ed alle quali ha partecipato oltre un milione e mezzo di votanti – la crisi è stata brillantemente risolta con l’ascesa ai vertici di quel partito di Enrico Letta e chiusa in una decina di giorni, tutto compreso. In effetti Letta, indicato senza indugio dallo stesso Segretario dimissionario quale suo successore, è tornato a Roma da Parigi (dove, uscito di scena quale Presidente del Consiglio nel febbraio 2014, aveva nel frattempo trovato un gratificante impiego ai vertici di una prestigiosa università internazionale desiderosa di avvalersi dei suoi insegnamenti in ordine all’analisi delle politiche europee) ed è stato “incoronato” il 14 marzo 2021 Segretario politico con voto pressoché unanime dell’Assemblea nazionale di quel partito. Un discorso considerato dai notabili del PD, c’è da crederci, “pieno di idee” e di “slanci innovativi” così che quella forza politica – la maggiore quanto a consistenza elettorale e parlamentare, sino a prova contraria, gravitante alla sinistra del sistema politico italiano – ha trovato rapidamente il modo di lasciarsi alle spalle i pur rilevanti problemi che avevano indotto alle dimissioni di Zingaretti che aveva detto di “provare vergogna” per lo stato in cui il suo partito si era ridotto. È superfluo ricordare che Zingaretti non è comunque del tutto uscito di scena, essendo come noto Presidente in carica della Regione Lazio e che proprio con riferimento a lui si è subito prospettato un futuro altro prestigioso incarico. Dunque, sintetizzando, un leader che ritorna a occuparsi del partito di appartenenza e un altro leader che continua a svolgere un ruolo politicamente attivo e di non secondario livello.
Sono sempre stato dell’avviso che i partiti devono essere lasciati liberi di organizzarsi come meglio ritengono e che il loro progetto politico, così come le rispettive leadership e le correlate candidature alle cariche elettive saranno al momento debito e solo allora concretamente verificate dagli elettori. Allo stesso modo, aderire alle forze politiche attraverso una militanza organica – gli iscritti – è una libera facoltà che ciascuno può o meno utilizzare e che tuttavia testimonia una sintonia o meno rispetto a quel che viene proposto da tali libere associazioni. Sicuramente la partecipazione attiva – la militanza politica – deve essere considerata gratificante o quantomeno utile per coloro i quali compiono quella netta scelta di campo. Ciò vale per il PD e per qualsiasi altri partiti e movimenti che agiscono nell’ordinamento italiano concorrendo “con metodo democratico” a determinare la politica nazionale (art. 49 Cost.). Allo stesso modo, ho sempre considerato il “metodo delle primarie”, tanto più se organizzato estemporaneamente e con modalità aperte ai non iscritti, uno strumento demagogico, di per sé contraddittorio, per chi aderisce convintamente ad una forza politica: il partito dovrebbe vivere attraverso dibattiti, incontri, assemblee e congressi svolti con regolarità, muovendosi all’interno di un’organizzazione stabile, la quale non dovrebbe individuare “scorciatoie” per definire scelte significative, soprattutto quando si ragiona intorno alla sua leadership e ai suoi propositi innovativi. E soprattutto quando una discussione interna alla forza politica in crisi sembrerebbe indispensabile alla luce dello stato dei rapporti deteriorati che si instaurano al suo interno e tra i massimi dirigenti.
In ogni caso, è sembrato del tutto logico che il nuovo Segretario politico del PD abbia subito ridefinito l’organo esecutivo di cui si avvale per la gestione del partito, spingendosi tuttavia a richiedere ugualmente di variare i Capigruppo ricorrendo a figure femminili, così da compensare scelte considerate poco felici quanto all’equilibrio di genere nella composizione della delegazione ministeriale del Governo Draghi di quel partito. Come è noto, i Capigruppo costituiscono per solito un importante punto di riferimento per la “cellula” operativa di base dell’attività parlamentare. Il punto da affrontare è proprio questo: possiamo sempre considerare i Gruppi la proiezione parlamentare – quantomeno – della maggiori forze politiche? In effetti, i Gruppi parlamentari conservano una loro autonomia operativa o sono tenuti ad incarnare fedelmente e passivamente la linea del partito cui si riferiscono?
Ora, se si guardano le modalità di costituzione dei Gruppi così come determinate dai Regolamenti parlamentari – il prevalente riferimento resta quello numerico ed è così anche al Senato pur dopo la velleitaria riforma del 2017 – ci si accorge che nel suo concreto funzionamento il sistema parlamentare ruota sulla sostanziale autodeterminazione dei Gruppi, che sono e restano “altro” rispetto ai partiti, cui pure – in genere – si ricollegano, soprattutto all’inizio della legislatura. Da questo punto di vista, anche per il PD guidato da Letta sarà decisivo constatare l’atteggiamento dei “propri” Gruppi nel dipanarsi dell’attività parlamentare, specie in relazione all’azione di governo, e potrebbe essere un errore pensare che il solo cambio dei Capigruppo sia una condizione sufficiente per controllarne dall’esterno le determinazioni.