E dunque: oggi si è costituito al Senato il gruppo parlamentare Europeisti – MAIE – Centro democratico. Per capire di cosa si tratti basta specificarne i componenti:
– cinque (i senatori Buccarella, Cario, De Bonis, Fantetti e Merlo) provengono dalla componente politica del gruppo misto MAIE che quindi si è contestualmente sciolta;
– due (i senatori Causin e Rossi) provengono dal gruppo di Forza Italia
– uno (il senatore Marilotti), proveniente dal gruppo Per le Autonomie)
– uno (il senatore De Falco) proviene dalla componente politica del gruppo misto Azione
– una (la senatrice Rojc) proveniente (prestata?) dal gruppo del Partito democratico.
Dopo il precedente PSI-Italia Viva si tratta di un gruppo conforme al regolamento poiché corrispondente ad una forza politica presentatasi alle elezioni, seppur ciò riguardi uno solo dei suoi membri, e cioè il senatore Merlo eletto nella circoscrizione Estero America meridionale con il simbolo MAIE (Movimento Associativo Italiani all’Estero).
L’adesione di Merlo mi pare dunque decisiva.
Lo scrivo perché nel pomeriggio di ieri si era ventilata la possibilità della creazione del gruppo in forza del solo apporto del simbolo Centro Democratico di Tabacci, il quale avrebbe a tal fine autorizzato il sen. De Falco ad utilizzarlo.
Se così fosse stato, si sarebbe posto anche al Senato (come accaduto in certo senso alla Camera per la componente politica Cambiamo! 10 Volte Meglio) il problema se sia possibile che un soggetto esterno (quale Tabacci è, essendo deputato e non senatore) possa autorizzare un senatore (De Falco) ad utilizzare il simbolo elettorale di un partito presentatosi alle elezioni per costituire un gruppo parlamentare nonostante lo stesso senatore sia stato eletto con altro simbolo.
Sta di fatto che se un tempo le Commissioni permanenti si formavano in base ai gruppi parlamentari, ora, invece, i gruppi parlamentari si formano per essere presenti nelle Commissioni permanenti.
Suppongo che vi stiate chiedendo cosa c’entra tutto questo con una riforma regolamentare che fu approvata nel 2017 allo scopo di far corrispondere i gruppi parlamentari con i partiti politici presentatisi alle elezioni politiche, ottenendovi eletti, proprio per evitare la proliferazione di gruppi privi d’identità politico-elettorale e frutto solo di accordi tra parlamentari.
La risposta è semplice. Niente. Non c’entra proprio niente. Ennesima riprova di un Parlamento che non sa rispettare le regole che si è dato.
Amen.
P.S.: Trovate i dati aggiornati come sempre qui http://www.lacostituzione.info/…/banca-dati-sulla…/
Penso che si tratti di un falso problema, o quanto meno che non si tratti di un problema di diritto costituzionale, ma piuttosto di una questione di opportunità politica, due categorie entrambe degne di considerazione, ma spesso confuse a danno del diritto. Il Parlamento è sovrano nei limiti delle sue competenze e, per quanto riguarda le sue procedure interne, lo rimane fin quando rispetta la C. e in particolare l’art. 72. Il regolamento parlamentare è un strumento di auto-gestione per organizzare l’attività legislativa. In questi limiti, i.e. quelli posti dalla C., l’analogia con il paradigma complesso ma consolidato delle forme e dei limiti della Costituzione sarebbe sbagliato. In quel caso si tratta infatti del legislatore costituito e subordinato al potere costituente, mentre qua si tratta del legislatore che si organizza di volta in volta come meglio crede. Se si intende o pretende regolamentare il Parlamento dall’esterno, come da qualche tempo va di moda, si rischia di indebolirlo ulteriormente.
Resto convinto che la necessaria flessibilità dei regolamenti parlamentari, cui peraltro si oppone la loro approvazione a maggioranza assoluta, non può giustificare qualunque prassi.
Lasciare al “legislatore” di organizzarsi “di volta in volta come meglio crede” significa togliere ai regolamenti giuridicità, alle opposizioni garanzie, al Parlamento credibilità e legalità.
Ringrazio dell’attenzione e spero che mi si perdoni se mi difendo. Concordo che la mia formulazione può sembrare eccessiva. Ma lo è intenzionalmente perché esprime la logica giuridica che in ultima analisi conta. Definendo ognuna il proprio regolamento, le camere devono rispettare la costituzione, quello che è scritto e quello non meno importante che è sottinteso. Sarebbe interessante studiare questi massimi principi, fra cui oltre il principio di maggioranza (correttamente interpretato, come decisione al termine di un dibattito aperto etc) e la rappresentazione proporzionale (dei gruppi) nelle commissioni senz’altro anche il rispetto del diritto della minoranza. Ma quale minoranza e quale diritto? Quelle delle sigle elettorali rimaste fuori dalla maggioranza di governo? Tale risposta non mi convince. La vera garanzia di tutte le minoranze sono gli art. 64-72 C. e in particolare l’articolo 67; queste disposizioni implicano o suppongono un’assemblea di rappresentanti liberi ed uguali che hanno il diritto di esprimere le loro opinioni in un dibattito pubblico, ma che al termine del processo di discussione si contano. Le commissioni sono strumenti della delibera parlamentare in senso lato, incluso l’approfondimento non pubblico. I gruppi sono strumenti di razionalizzazione del lavoro parlamentare, non lo specchio degli schieramenti elettorali, non delle camice di forza, ma il riflesso dell’orientamento dei parlamentari di volta in volta liberamente definito. Esiste un nesso fattuale (prima di quello formale stabilito nel 2017) con la normativa elettorale (e con i suoi “contorni”): il vincolo di appartenenza politica legato alla sigla elettorale è rinfozato dalle liste bloccate. Con questo arrivo all’ultimo punto: l’unico modo per evitare abusi compiuti attraverso o oltre (due illegitimità equivalenti) il regolamento è il controllo della Corte costituzionale. Anche questo però mi spaventa, se penso ai precedenti: il – secondo me – clamoroso fallimento della giurisprudenza costituzionale in materia elettorale (non solo, ma soprattutto in Italia), ossia (fra altri errori) la superficialità giuridica (nell’applicazione del criterio della proporzionalità delle restrizioni ai diritti costituzionali fondamentali) e la permissività di fronte ad una violazione palese dei diritti elettorali attivi e passivi (una limitazione tecnicamente non necessaria e impropria o abusiva, fatta per motivi inconfessabili) che crea indirettamente anche un condizionamento poco democratico degli eletti da gruppi di potere extra-parlamentari, sottratti al controllo e quindi alla legittimità democratica. Il sistema delle liste bloccate, dei gruppi parlamentari co-mandati dalle persone che in qualche modo controllano i partiti e del vincolo di partito o di sigla elettorale per formare un gruppo conduce ad una forma di governo sottratto al controllo democratico effettivo. Governo e Parlamento sono controllati da poteri di fatto, poco trasparenti, non pubblici, in mano a coloro che controllano i partiti e redigono le liste elettorali. Per questa ragione mi sembra doveroso insistere sul rispetto della sovranità (nelle forme e nei limiti …) del Parlamento e dei suoi membri ancorata in particolare nell’articolo 67, contro le pretese dei partiti, associazioni private molto eterogenee.