Alle drammatiche e grottesche scene dell’assalto dei sostenitori di Trump a Capitol Hill sta facendo seguito, in queste ore, un dibattito non meno surreale sulla decisione dei social di chiudere gli account di Donald Trump. Twitter, in particolare, ha giustificato tale scelta sulla base della necessità di evitare il rischio “di ulteriore istigazione alla violenza”, ma anche altri social – come Facebook, Instagram, Snapchat – hanno adottato misure analoghe, dando luogo a quella che da molti è stata definita una “censura privata”. Un’espressione che già mostra tutta la problematicità del tema se solo si pensa che per i dizionari la “censura” è il controllo esercitato da autorità pubbliche (non da soggetti privati) su giornali, scritti e opere artistiche. Certo la formula allude al peso che oggi hanno i social network nel mondo della comunicazione e dell’informazione, un fenomeno su cui si discute da tempo e riguardo al quale nei giorni scorsi la Commissione dell’Unione europea ha presentato un’importante proposta di regolamentazione: il Digital Service Act.
Lo stesso Trump deve molto del suo successo a un uso disinvolto, spesso spregiudicato dei social (soprattutto Twitter). E, com’era prevedibile, la sua reazione alla chiusura degli account non si è fatta attendere ed è stata parecchio aggressiva: ha denunciato di essere vittima di una persecuzione politica, perpetrata dai colossi del web, dai democratici e dalla sinistra radicale, ha assicurato ai suoi sostenitori che starebbe negoziando una collaborazione con altri siti e ha persino ipotizzato che darà vita a una nuova piattaforma social.
Nel dibattito pubblico, molti hanno criticato l’intervento censorio dei social, puntando il dito sullo strapotere di cui essi dispongono (come se fosse una novità che si scopre soltanto adesso). Così, ad esempio, Stefano Feltri, in un editoriale sul Domani, scrive che “questa decisione, presa all’apparenza per tutelare quel che resta della democrazia americana, certifica invece il degrado della sfera pubblica che in questi anni è stata corrosa dal populismo ma anche dagli abusi di potere delle piattaforme digitali”. Prova, quindi, a dimostrare l’assurdità della misura con un accostamento tra social, emittenti televisive (pubbliche e private) e perfino aziende di telecomunicazioni che offrono servizi di telefonia (sic): “Immaginate la scena nel mondo pre-social, diciamo 2005-2006: la Cnn che toglie l’audio a un candidato presidente perché dice cose sgradite, la Rai che non manda più in onda la Lega nord perché parla di ‘terroni’, Telecom Italia che chiude le utenze di palazzo Chigi perché Silvio Berlusconi invita allo sciopero fiscale…”. Spiega, poi, che “non si tratta di difendere il diritto alla libertà di espressione di Donald Trump: le sue incitazioni alla violenza e la scelta di non riconoscere l’esito delle elezioni di novembre sono un assalto, non solo metaforico, alla democrazia. E sono molto probabilmente un crimine, che come tale verrà perseguito. Ma deve preoccuparci che Marc Zuckerberg sia così potente e autonomo da poter silenziare un presidente degli Stati Uniti perché, in sintesi, non gli piace quello che pubblica. Oggi capita a Trump, domani potrebbe essere chiunque altro”.
Al di là del fatto che l’eventualità che Feltri prospetta con preoccupazione – l’ipotesi che si venga silenziati perché si pubblicano cose non tanto, o non solo, sgradite a Zuckerberg ma in contrasto con le condizioni d’uso del servizio – è un dato di comune esperienza per miliardi di utenti Facebook (e degli altri social network), quel che più stupisce è lo straordinario fondamentalismo liberale che traspare da queste parole. Si rimprovera a Zuckerberg di non dare spazio alle esternazioni di un presidente che incita alla violenza, che non riconosce l’esito delle elezioni e che ha commesso “molto probabilmente un crimine”. Il mondo social immaginato da Feltri dovrebbe, quindi, dare spazio a ogni espressione del libero pensiero (o presunto tale), comprese le forme di hate speech, le fake news, tutte le manifestazioni negazioniste di eventi storici e assunti scientifici e via dicendo. Ai gestori dei social non spetterebbe neppure il compito di meri “guardiani delle frontiere”, che si soleva attribuire allo Stato liberale: chi si sentisse offeso e ne avesse le possibilità economiche potrebbe sempre rivolgersi ai giudici, nei limiti (spesso angusti rispetto ai colossi del web) delle giurisdizioni nazionali.
In apparenza più volterriano di Voltaire, tuttavia, il discorso sembra condurre a una diversa conclusione laddove si legge che “Zuckerberg ha dimostrato di poter imbavagliare un presidente degli Stati Uniti in carica, forse nella speranza di ottenere favori da quello entrante, forse per il bene della democrazia, o per un’esibizione muscolare di forza. Poco importa: anche il peggiore dei presidenti, quale è senza dubbio Trump, ha alle spalle milioni di elettori. Zuckerberg risponde soltanto a sé stesso, visto che è amministratore delegato di Facebook ma anche primo azionista”. Il problema non è allora la libertà di espressione del più potente uomo del mondo, colui che ha accesso alla temibile valigetta nucleare e che non può certo essere “imbavagliato” dall’interdizione di un social network, considerata l’istantaneità con cui tutte le sue esternazioni sono riportate dai media. La questione si risolve piuttosto nel peso politico di Trump. Insomma, la libertà di espressione è intoccabile ed eguale per tutti, ma quella di alcuni è più intoccabile ed eguale di quella degli altri. Ed ecco che dietro Voltaire fa capolino Orwell …
Si tratta di un capovolgimento molto presente nel dibattito sviluppatosi sui social. Un confronto che, per toni e livello di approfondimento, non corrisponde affatto a quell’illuminato e illuminante scambio d’idee immaginato dal primo e più ingenuo liberalismo. Detto per inciso, suona ironico (ma emblematico) che l’attribuzione a Voltaire della celebre frase che ne sintetizzerebbe il pensiero (“I disapprove of what you say, but I will defend to the death your right to say it”) sia un falso, essendo stata scritta, in realtà, da Evelyn Beatrice Hall, autrice di una biografia del filosofo francese.
La verità è che la questione del potere dei social media è seria e non è certo facile da risolvere, innanzitutto perché richiederebbe una regolamentazione sovranazionale sulla quale è molto difficile trovare un accordo. Diversa è, innanzitutto, la sensibilità verso questi temi che si riscontra negli Stati Uniti d’America e in Europa. Lo ha sottolineato Oreste Pollicino qualche giorno fa sul Sole 24 Ore: se oltreoceano c’è maggiore tolleranza verso i discorsi d’odio per il notevole peso riconosciuto, in base al Primo emendamento, alla libertà di espressione, nel Vecchio Continente quest’ultima incontra limiti più incisivi nel bilanciamento con gli altri diritti fondamentali, nella prospettiva di tutelare pienamente il valore della dignità umana (su queste diverse prospettive è ora uscito un approfondito studio di Marco Bassini).
In America, pertanto, i social media godono di maggiore spazio, entro i confini delle proprie condizioni contrattuali; in Europa, invece, si tende a rifiutare il modello dell’autoregolamentazione e, proprio con la recentissima proposta di Digital Services Act, si persegue un metodo più responsabile, che prevede strumenti di moderazione delle piattaforme e, pur nell’esenzione di responsabilità dei gestori, una co-regolazione dei servizi erogati, la piena trasparenza sulle decisioni adottate riguardo ai contenuti illegali e dannosi, nonché tutele e forme di contraddittorio degli utenti con la piattaforma (un’analisi interessante, a partire dal caso Trump, è stata proposta ora da Antonio Nicita). La forte opposizione a tali misure da parte di qualche grande azienda attiva nel settore ne ostacola il recepimento, confermando la difficoltà di arrivare a soluzioni condivise.
Gli eventi verificatisi in questi giorni negli Stati Uniti segnano uno snodo cruciale non soltanto per il futuro del presidenzialismo americano ma anche per quello delle democrazie occidentali che riconoscono ancora all’America un ruolo di guida e di esempio. Considerata l’importanza che la rete ha avuto per l’affermazione dei movimenti populisti che hanno trovato una legittimazione indiretta nel trumpismo, il tema della libertà di espressione in Internet ha un peso notevole e si lega strettamente a tali vicende. La difesa della libertà di espressione di Trump, anche quando tradotta come tutela della libertà dei comuni cittadini, appartiene a una certa narrazione populista e anzi ne rappresenta l’esito ultimo. Con essa si finisce, infatti, con lo spostare l’attenzione dalla libertà dal potente, secondo la più autentica vocazione dello Stato di diritto, alla libertà del potente, preludio alla legittimazione di nuovi autoritarismi.
Se Stefano Feltri avesse il tempo di leggere qualcuno dei tanti testi di diritto costituzionale americano (e non solo!), scoprirebbe che non esiste una “libertà di pensiero” (che, finché è chiuso nella nostra testa, non disturba nessuno e nessuno può censurare), ma la “libertà di manifestazione del pensiero”. Qui nasce il problema che ha tormentato i giudici di tutto il mondo (Italia inclusa) e che in America è esploso in occasione delle manifestazioni contro la guerra in Vietnam: che cosa è “pensiero”, cioè l’oggetto della libertà? Se io esprimo il mio pensiero a chi, sulla sponda del ponte, sta per buttarsi giù, e gli ripeto che è un fallito e che la vita è una porcheria, quello è “pensiero” o “istigazione”? Grande domanda: scrivere un tweet in cui si incita una comunità di cretini che violentare le vecchiette per strada è giusto ed è il messaggio di un qualche dio, quello è ancora “pensiero” o è a sua volta “istigazione”? Quello che ha scritto Trump è “pensiero” o “istigazione”? Su questo dovrebbero riflettere i nostri difensori delle libertà di comodo, specie se giornalisti, prima di pontificare. E’ un tema fondamentale per tutti, ma soprattutto per loro.