di Roberto Bin
Poche sono le regole formali del governo parlamentare. Sostanzialmente una: il Governo deve ottenere la fiducia delle Camere e resta in carica finché le Camere non gliela tolgono con un voto palese. Nel nostro sistema costituzionale il voto di fiducia e il voto di sfiducia sono mozioni parlamentari che devono essere approvate a maggioranza semplice: basta un voto per il SI in più dei voti per il NO e la mozione è approvata.
Molto saggiamente i nostri costituenti non sono caduti nella tentazione di scrivere molto altro per cercare di “mettere le brache” alla politica, anche se in molti vorrebbero che fosse prescritto qualcosa di più: per esempio un meccanismo tipo la “sfiducia costruttiva” che c’è nella Costituzione tedesca (ma c’era anche nel vecchio Statuto della Regione Piemonte: qualcuno se ne è accorto?) che in qualche modo cerca di costringere il parlamento che vota la sfiducia a indicare contestualmente il nuovo cancelliere. Il fatto è che in Italia mai nessuna mozione di sfiducia è stata approvata, neppure in epoca precedente alla Costituzione, risalendo nella notte dei tempi dei governi italiani. Sono sempre stati governi basati su una coalizione: quando la coalizione, dopo aver a lungo scricchiolato, si sfascia, il Presidente del Consiglio “sale al Quirinale”, come piace scrivere ai giornalisti, e rassegna le dimissioni nelle mani del Presidente della Repubblica; il quale, secondo la prassi degli ultimi decenni, invita il dimissionario a recarsi alle Camere e spiegare i motivi delle sue dimissioni, senza che ciò sia seguito da una votazione. Perché? Perché le coalizione si rompono ma, al contrario delle uova, si possono ricomporre, e quindi è meglio che le divisioni che hanno portato alla rottura non siano formalizzate in parlamento.
E poi c’è Prodi. I due Governi Prodi sono finiti in Parlamento. Ma non per una mozione di sfiducia contro di lui, ma perché è stato lui stesso a porre la fiducia sul proprio discorso politico, sfidando i parlamentari ad esprimersi a proposito. Le procedure sono le stesse della mozione di sfiducia: in entrambi i casi si procedere con voto “per appello nominale”, che obbliga ogni deputato e ogni senatore a dichiarare espressamente il suo voto. E ad assumersene la responsabilità. Il che non è un fatto senza importanza. Bertinotti, che ha causato la crisi del Prodi I nel 1998, la ha pagata con lo sfascio del suo partito e la sua sostanziale sparizione politica; Clemente Mastella, che è il principale artefice della crisi del Prodi II nel 2008, è anche lui tramontato dalla scena politica nazionale. Per quanto gli italiani siano di solito poco filo-governativi e sembrino poco interessati all’incessante e deprimente schermaglia della politica, tuttavia qualche bilancio poi lo traggono e qualche sanzione la infliggono.
Sarebbe bene che Renzi ne tenesse conto, prima di aprire una crisi di Governo. Perché, accanto alle poche regole scritte, ve ne sono altre che appartengono alla correttezza dei rapporti politici: non solo quelli che intercorrono tra i palazzi e le segreterie, ma anche quelli che passano tra chi vuole ergersi a protagonista e le persone che non tutto sono disposte a subire. E’ chiaro che aprire una crisi di governo in un momento tanto delicato – pandemia in corso e Ricovery Plan da presentare in Europa, un debito pubblico sempre più enorme che potrebbe esploderci in mano con un’impennata dei tassi d’interesse a causa dell’instabilità politica – deve avere cause importanti, precise, di gran significato per la collettività. Quali? Io francamente non sarei in grado di spiegarle a uno straniero, se non arrossendo dall’imbarazzo.
Le regole del governo parlamentare sono state ben interpretate da Prodi, e sarebbe bene che le seguisse anche Conte: se il Governo si regge sulla fiducia del Parlamento e questo si legittima in forza del voto degli italiani, il Governo deve presentarsi in Parlamento, spiegare cosa intende fare su quei terreni su cui Renzi “lo sfida”, si deve aprire un dibattito ovviamente pubblico, dopo il quale si voterà la questione di fiducia e gli italiani sapranno chi, se c’è, si assume la responsabilità della crisi. In questo dibattito le forze politiche che votano a favore del Governo dovrebbero dire apertamente se saranno disponibile a sorreggere un suo eventuale successore, o se la crisi porterebbe dritti dritti alle elezioni; e dovrebbero anche preannunciare come si presenteranno al voto, se cioè si stringono impegni precisi a restare unite nella maggioranza oppure non avranno questo coraggio. Questo non lo prescrive la Costituzione, ma la decenza: è un modo di dichiarare se davvero l’appoggio al Governo c’è o e solo una soluzione di facciata.
Perché le regole del governo parlamentare ci sono, e una domina su tutte: si chiama responsabilità, è una regola sanzionata che spetta agli elettori fare valere con la scheda. Così, se davvero dovessimo subire la crisi, sapremo come punire chi, con una formazione politica che non è uscita dal voto popolare (e che ha potuto costituire un gruppo parlamentare al Senato solo perché lì non si applicano le regole), che è accreditata dai sondaggi per una percentuale irrilevante, e che è fatta di plastica, cioè è nata in televisione senza alcun aggancio con la società, è riuscito ad affondare il Governo dopo aver passato mesi agitando le acque al solo fine di dimostrasi in vita.