Qualche dubbio sul modo in cui alcuni argomenti all’ordine del giorno sono stati affrontati.
A proposito della proroga dello stato di emergenza gli interventi sono stati molti ed autorevoli. Sull’utilità della dichiarazione iniziale, anche per il modo in cui i fatti si sono sviluppati, le questioni sembrano ormai superate: ne sono restate sulla forma dei provvedimenti. Alcuni argomenti sono stati ripresi a proposito della proroga, ma senza una verifica sulla possibilità della loro estensione.
All’inizio era la situazione di emergenza che andava accertata e, bene o male, l’accertamento c’è stato. Per la proroga non si sarebbe dovuto dare per presupposto che fossero utilizzabili gli stessi argomenti. C’era da domandarsi se fosse necessario che persistesse l’emergenza o fosse sufficiente il solo pericolo che si riproponesse a termine breve. Al profilarsi dell’emergenza si doveva modificare la normativa; con la proroga si manteneva quella esistente. Non poteva essere dato come automatico che le condizioni richieste per una innovazione possano essere le stesse per mantenerla alla scadenza. Non poteva escludersi che fosse sufficiente il pericolo del riaffiorare dell’emergenza, anche se indebolita a seguito dei provvedimenti già presi, perché – vale la pena di ripeterlo – non si trattava di innovare ma di conservare qualcosa già in atto.
Non si vuole dire che le conclusioni sarebbero state sicuramente diverse, ma che si sarebbe dovuto procedere almeno ad una verifica.
Non dovrebbe meravigliare: ci sono stati altri casi in cui, di fronte a necessità improvvise e difficili da superare, alcune differenze, rilevanti in via di principio, sono state trascurate: per esempio, a proposito dell’immigrazione.
Secondo il Regolamento di Dublino del 2013 la domanda di protezione va esaminata dallo Stato la cui frontiera è stata attraversata, anche se illecitamente. E’, dunque, l’interessato che con il suo atto determina lo Stato competente che, in linea di principio, non può sottrarsi. La singolarità della normativa si spiega con la necessità del momento di trovare una soluzione non soggetta a contestazioni facili.
Nell’ordinamento internazionale vige il principio rebus sic stantibus secondo il quale uno Stato può ritenersi sciolto dai vincoli di un trattato internazionale quando siano mutate sostanzialmente le condizioni in considerazione delle quali è stato concluso. I movimenti migratori del tempo, in cui il Regolamento è stato elaborato ed è entrato in vigore, non sono comparabili con quelli degli anni successivi, in particolare dopo il 2015. Se gli ultimi numeri fossero stati previsti, l’Italia, data la sua posizione, non avrebbe accettato una normativa del genere, quanto meno a quelle condizioni. L’Italia, in pratica, è incorsa in una responsabilità geografica perché chi fugge da certi Paesi dell’Africa settentrionale è verso l’Italia che trova la via meno disagevole.
Si potrebbe obiettare che quello che vale per il diritto internazionale potrebbe non valere per il diritto comunitario. Non sembra che sia così: “le competenze della Comunità devono venir esercitate nel rispetto del diritto internazionale. Di conseguenza essa è tenuta a rispettare le norme del diritto consuetudinario internazionale allorché adotta un regolamento… Ne deriva che le norme del diritto consuetudinario internazionale relative alla cessazione e alla sospensione delle relazioni convenzionali a motivo di un cambiamento fondamentale di circostanze vincolano le istituzioni della Comunità e fanno parte dell’ordinamento giuridico comunitario” (Corte di Giustizia, sentenza 14 giugno1998, C-162/96, nn.45.46). Anche se si sono poi sovrapposte altre norme, la questione non è cambiata.
L’inapplicabilità del Regolamento di Dublino non faciliterebbe la soluzione del problema: il fenomeno dell’immigrazione resterebbe ma all’Italia non potrebbe essere rimproverata la violazione della disciplina comunitaria e, in caso di contestazioni, la decisione sarebbe della Corte di Giustizia. Cambierebbe il piano della discussione che non si collocherebbe nell’ambito comunitario, nei rapporti tra Stati membri, ma si sposterebbe eventualmente su quello internazionale se all’Unione si rimproverasse di avere lasciato la situazione senza normativa proprio quando si era aggravata.
La inadeguatezza del Regolamento di Dublino emerge anche da un altro punto di vista: non è presa in considerazione la volontà degli interessati, a proposito del Paese dove ciascuno vorrebbe andare. E’ imposta una unica destinazione, modificabile successivamente solo con il consenso dei Paesi interessati.
Anche in mancanza di una soluzione soddisfacente, sarebbe già un passo avanti porre la questione in termini giuridici più accettabili.
Da questi due esempi si desume che c’è una tendenza, non solo in Italia anche se in Italia forse più accentuata, ad affrontare le questioni di ordine comunitario secondo i criteri dei diritti interni. Che non si sia arrivati alla fase federale non lo giustifica, anche se lo spiega: il diritto comunitario, se non federale, è un diritto superstatale con caratteri particolari.
Alcuni effetti sono visibili solo che si sia interessati ad intercettarli.
Sul MES c’è in corso una diatriba, provocata dalle condizionalità (non risulta che qualcuno abbia spiegato perché non si possa parlare più di “condizioni”, termine che sembra più appropriato). Che i fondi siano messi a disposizione per la sanità, a ben vedere, non costituisce una condizione, secondo la nozione tradizionale: è un elemento della normativa e non il presupposto per la sua applicabilità, in altre parole, è l’obiettivo in vista del quale sono concessi. Quando le risorse sono date per un fine, secondo un programma concordato, che chi li eroga possa poi verificare che siano utilizzati correttamente, anche dal punto di vista dei tempi, rientra nella normalità. Una volta che si è preso un impegno in vista di un beneficio, non dovrebbe essere allarmante che la controparte pretenda l’adempimento.
Anche questo è un segno del modo di pensare, prevalente in Italia. Nel settore pubblico non è ormai più considerato anomalo che un’opera costi il doppio del preventivo, che i tempi si allunghino e che non vengano realizzate anche quelle già finanziate, con aggravio sproporzionato dei costi. E’ diventato tutto così normale che viene ad essere considerato condizionalità pericolosa che qualcuno pretenda che i patti siano rispettati. Ci si dimentica, o si fa finta, dell’art. 122.2 TFUE per il quale “qualora uno Stato membro si trovi… seriamente minacciato da gravi difficoltà a causa di calamità naturali o di circostanze eccezionali… il Consiglio, su proposta della Commissione può concedere a determinate condizioni un’assistenza finanziaria…”. La norma è di applicazione generale e non speciale per il MES.
Per ragioni, che hanno poco di giuridico, i contrari all’utilizzo parlano in termini suggestivi, trascurando la specificità della nuova previsione.
“L’obiettivo del MES è quello di mobilizzare risorse finanziarie e fornire un sostegno alla stabilità, secondo condizioni rigorose commisurate allo strumento di assistenza finanziaria scelto, a beneficio dei membri del MES che già si trovino o rischino di trovarsi in gravi problemi finanziari, se indispensabile per salvaguardare la stabilità finanziaria della zona euro nel suo complesso e quella dei suoi Stati membri. A questo scopo è conferito al MES il potere di raccogliere fondi con l’emissione di strumenti finanziari o la conclusione di intese o accordi finanziari o di altro tipo con i propri membri, istituzioni finanziarie o terzi” (art.3 del Trattato MES).
Il presupposto è che uno Stato membro si trovi “in gravi problemi finanziari” e l’obiettivo è di “fornire un sostegno alla stabilità”. “Le condizioni rigorose”, che possono essere imposte, vanno commisurate alle condizioni dello Stato richiedente tenendo conto dello strumento finanziario richiesto: l’intervento si può definire “su misura”.
Nella versione aggiornata lo strumento è a disposizione di tutti gli Stati membri con il solo limite di un importo massimo, per esigenze della sanità, a condizioni che dipendono dal programma proposto. Che quelle concordate possano essere cambiate unilateralmente dell’Unione, come alcuni temono, sta ad indicare quale sia il loro concetto di “diritto”, che non è quello dell’Unione per la quale, come si è visto, “pacta sunt servanda“, con il possibile intervento della Corte di Giustizia se non lo fossero.
I dubbi non dovrebbero esserci; in ogni caso andrebbero almeno tenuti riservati per non aggravare il giudizio, già perplesso, sul senso italiano del diritto.
Glauco Nori si sbaglia quando scrive che l’unica condizione per l’utilizzo dei fondi MES è che essi vengano usati per spese sanitarie. Quella è l’unica condizione per l’ACCESSO ai fondi; ma una volta che siano stati assegnati le condizioni ci saranno. Per esempio, nella guideline ufficiale per la richiesta dei fondi è scritto che la linea di credito Covid è una ECCL (enhanced conditions credit line). Una ECCL implica “una sorveglianza rafforzata da parte della Commissione Europea” e l’adozione di misure correttive di intesa con la medesima. Ciò che invece NON è scritto da nessuna parte è che le norme relative all’ECCL non si applicano al fondo Covid.