Dopo i terribili mesi del confinamento, siamo tornati a vivere in una parvenza di normalità. Ma solo di parvenza, appunto, si tratta perché la nostra libertà si trova a doversi districare in un caos normativo, del tutto ingovernato.
La riapertura generalizzata si è fondata – almeno nelle parole del Presidente del Consiglio – su un principio semplice: la responsabilità individuale e collettiva. Ognuno di noi – come membro di una comunità – si deve comportare responsabilmente per evitare situazioni o azioni che favoriscano la diffusione del contagio, soprattutto laddove ci siano soggetti a rischio.
Un semplicissimo principio di civiltà, che dovrebbe valere in qualunque situazione di vita sociale (un esempio su tutti: la circolazione stradale).
Ebbene, quest’invito alla responsabilità ha però generato un quadro assai bizzarro.
Da un lato, come sappiamo, ogni regione ha fatto un po’ a modo suo, autorizzando e vietando, ri-autorizzando e ri-vietando a correnti alternate, non sempre con argomenti molto solidi (o anche solo ragionevoli) alla base delle scelte.
In ogni regione, ci si sono poi messi anche i Comuni: aree cani aperte, ma parchi chiusi; parchi aperte, ma aree di gioco chiuse; aree di gioco aperte, ma impianti sportivi – negli stessi parchi – chiusi ecc…
E che dire degli uffici pubblici, delle università e delle biblioteche, che si inventano regole tanto incomprensibili, quanto originali per contingentare gli accessi (spesso prevedendo poche aperture e in ristrette fasce orarie, aumentando così il rischio di sovraffollamenti).
Ma non è finita qui, perché il caos normativo istituzionale, ingenerato a livello pubblico dalla sovrapposizione di competenze nei vari livelli di governo e negli enti dotati di autonomi, si è propagato divenendo un vero e proprio caos normativo sociale. Ogni negozio, bar, ristorante, oratorio, centro culturale, circolo (più o meno) sportivo si è dato le proprie regole, i propri regolamenti che l’avventore deve accettare esplicitamente (o meglio, solennemente) o implicitamente.
Finalmente i proprietari dei locali possono redarguire i clienti che si azzardassero a spostare i tavoli per evitare di urlare a quattro metri di distanza, magari con i decibel attenuati dalle mascherine.
I baristi possono, infine, invitare – più o meno cortesemente – i passeggiatori che si arrestano in prossimità dei loro plateatici, in genere per parlare con amici ritrovati seduti ai tavoli, ad andarsene, salvo che non vogliano consumare.
Nei negozi, ora i commercianti possono sgridare clienti – piccoli o adulti che siano – che tocchino la merce esposta senza ritegno.
I volontari senior delle varie realtà di aggregazione si trovano, insperabilmente, ad avere un titolo che legittima la loro (auto-affermata) autorità, permettendogli così di dettare legge su chi va, chi viene e chi resta e sul come si va, si viene e si resta.
E il tutto si costruisce attorno a questo concetto di “responsabilità”: mia la responsabilità, mie le regole. Non che ovviamente sia chiaro di quale responsabilità si stia parlando (giuridica? E quindi, civile, penale o amministrativa? Oppure etico-morale?), ma di sicuro questa responsabilità fonda il potere-dovere, dai tratti “sceriffali”, di far rispettare le norme stabilite.
Insomma, fuori dalle nostre case la libertà che ci resta è un fugace intermezzo fra il micro-ordinamento del supermercato, l’universo normativo del bar dove prendiamo un caffè la mattina, il cosmo regolamentare del campo sportivo dove ci troviamo con gli amici per una partita a beach-volley o a calcetto, il quadro para-legislativo stabilito dal bibliotecario ben oltre le necessità proprie di una biblioteca. Senza mai dimenticare che uscendo dai confini del nostro comune, della nostra provincia o, peggio, della nostra regione, esistono praterie sconfinate dove vigono le infinite “leggi della responsabilità” dettate da un governatore, da un sindaco, da un commerciante, dal gestore di un lido o di un rifugio.
In questo contesto di particolarismi giuridici dal sapore quasi medioevale, la celebre affermazione di Cicerone nella sua orazione Pro Cluentio (53.156) (“legum omnes servi sumus ut liberi esse possimus”, siamo tutti schiavi della legge, affinché tutti possiamo essere liberi) ci riconsegna una sacrosanta verità da riscoprire. La legge – intesa come norma generale, valida ed uguale per tutti – fissa i limiti della nostra libertà, ma in questi limiti noi siamo davvero liberi di autodeterminarci, non dovendo prostrarci, di volta in volta, alle varie ed eventuali regole che altri ci impongono, spesso senza che questi “altri” siano in grado di spiegarci, con argomenti diversi dal principio di autorità, la bontà e l’utilità delle loro norme che si affannano ad applicare.
Il vero problema – che oggi avvertiamo più che mai – è che non sappiamo più da dove provenga la legge e chi sia il soggetto legittimato a porla.
E così, venendo rimproverati dal cameriere per aver passato la bottiglia d’acqua a chi pranza con noi (che avrebbe dovuto comprarne una tutta sua) o dall’impiegato dell’ufficio postale perché, pur muniti di mascherina, ci avviciniamo pericolosamente al bancone, torna alla mente il povero carbonaio della novella di Verga: “Se avevano detto che c’era la libertà!…”.